Alinari, e l'Italia com'era - 4) Bologna, canali e tram

di JENNER MELETTI*

(accompagnamento musicale di BENEDETTA SETTE)

Era ormai buio. I negozi abbassavano le serrande , le osterie accendevano le luci. “Vieni con me”. Via Indipendenza, via Irnerio. “Ci siamo quasi”. Via Piella. “Ecco qua”. L’amico parlò a voce bassa. “Voglio mostrarti una cosa che non puoi nemmeno immaginare”. Aprì una finestrella. “Guarda: sai che a Bologna c’è anche un pezzo di Venezia?”. Era vero. Non c’erano le gondole e i motoscafi ma c’era un canale con l’acqua che correva – quella sera era anche trasparente – e c’erano i balconi, le finestre con qualcuno che si affacciava. Ci sono tornato tante volte, dopo quella “scoperta” di vent’anni fa e l’ “amico” sono diventato io. Ho accompagnato tante persone pregustando la loro sorpresa e la loro soddisfazione. La stessa che provi invitando qualcuno nella trattoria che ami per fargli assaggiare le tagliatelle, lo gnocco fritto, la mortadella “che una volta costava più del prosciutto”.

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Ci sono tanti modi per presentare una città. Il mio preferito è quello degli “assaggini”, con piccoli pezzi capaci di raccontare storie. Dopo la piccola Venezia, entri sotto il Voltone del palazzo del Podestà per fare provare il “telefono senza fili”, con le volte che portano la tua voce  appena sussurrata a chi è fermo sotto la volta opposta. Si racconta che qui fosse possibile confessare i lebbrosi, restando distanti. Si dice anche che le volte servissero ad ascoltare le trattative riservate dei commercianti. Poi arrivi in via  Senzanome   e spieghi che un tempo si chiamava Fregatette (per il portico strettissimo sotto il quale due persone possono incrociarsi solo sfiorandosi). Altre ricerche dicono invece che Senzanome è stato messo perché prima c’era scritto Sozzonome, forse perché così si chiamava una famiglia importante, forse perché la piccola strada era ospitale con postriboli e prostitute. Storie e fantasie si mescolano volentieri, col passare degli anni e dei secoli.

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(Veduta del Canale di Reno         Studio Villani       Bologna1960 ca.          Archivi Alinari-archivio Villani)


Fra un “assaggino” e l’altro passi comunque in piazza Maggiore, sotto le Due Torri, alle Sette Chiese, in piazza Verdi e davanti a tanti altri “monumenti” conosciuti. Non a caso, anche oggi, partirei comunque dalla finestra di via Piella, perché da qui si possono fare i primi passi per “capire” una Bologna che, oltre che “rossa (non per via della politica ma per il colore dei mattoni e dei coppi, ndr) dotta e grassa” oggi forse si può chiamare “la Pentita”. Guardi l’acqua che scorre nel canale delle Moline e comprendi che davanti a te non c’è solo una cosa curiosa. Bologna viveva di acqua e sull’acqua, da quando nel XII secolo furono deviate le acque del fiume Reno e del Savena per dare energia ai mulini del grano e a quelli della seta. 


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(Palazzo comunale in Piazza Maggiore          1900 ca.                         Archivi Alinari)


Sessanta chilometri di canali, sotto i nostri piedi e altri chilometri di un torrente naturale, l’Aposa. Tutto questo patrimonio è stato nascosto non ai tempi di Napoleone o di Garibaldi ma fra la fine degli anni ’50 e l’inizio dei ’60 del secolo scorso. I nostri padri – quando venivano a Bologna per la visita al distretto militare – vedevano le lavandaie chine sulle rive e gli ultimi mulini. Tutto coperto in fretta, per motivi igienici (tanti palazzi e case del centro storico scaricavano tutto nei canali e non nelle fogne). E anche per la voglia di avere nuovi parcheggi, in una città già invasa dalle auto. “Riaprire”: sembra questa la nuova parola d’ordine. Si fanno progetti per fare riapparire il canale Navile e l’antico porto che era fra Galliera e Lame, due delle dodici porte di Bologna. Si vuole rimettere al sole ciò che fu “tombato” con troppa fretta. Alcuni dei progetti vivono una sola estate e altri rispuntano ogni primavera.

Non solo per questo Bologna, forse, è la Pentita. Fino al 1963 c’erano anche i tram e chi non ci crede può andare in via Ugo Bassi e se non sta attento può incespicare sui poveri resti dei binari. Ora c’è un nuovo progetto per ridare vita ai tram – non quelli piccoli e leggeri che avevano il capolinea anche in piazza Maggiore – ma nuovi mezzi grandi e silenziosi contro i quali – ci sono anche i pentiti di essersi pentiti – nascono comitati che protestano perché i nuovi mezzi porterebbero via spazi ai parcheggi delle auto. 

I tram – prime corse nel 1880 - erano riusciti a sopravvivere alla seconda guerra mondiale. I danni dei bombardamenti erano stati pesanti: il 30% dei binari distrutti, al macero anche 80 mezzi. Ma in solo tre anni Bologna riuscì a ricostruire tutto. Già nel 1946 ci furono 90 milioni di viaggiatori. Il tram – secondo il governo – costava però troppo e nel 1952 il ministro Mario Scelba commissariò l’Atm. Non solo per una questione di soldi: i tramvieri erano una delle categorie operaie dove il Pci era più forte. E così, il 3 novembre 1963, il sindaco Giuseppe Dozza e la sua giunta salutarono l’ultima corsa arrivata da San Ruffillo. Spazio alle gomme, quelle degli autobus e dei filobus e soprattutto quelle delle auto. C’è una foto emblematica, scattata nel 1955. Si vedono i parchimetri in piazza Re Enzo, adiacente a piazza Maggiore. Insomma, se paghi, parcheggi dove vuoi. Nel 1990 il sindaco Walter Vitali presenta un progetto per il ritorno dei tram, ottiene anche un finanziamento importante ma nel 1999 Bologna è conquistata per la prima volta dal centrodestra, che sul No al tram ha giocato la sua partita elettorale.

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(Parchimetri in piazza Re Enzo       Studio Villani   1955 ca.      Archivi Alinari)

Linea Rossa, Verde, Gialla e Blu: si chiameranno così, le linee dei tram moderni. Ma i Comitati continueranno a protestare e a contare, strada per strada, quanti parcheggi dovranno sparire. Tutto questo in una città che il 17 giugno 1984 – sindaco Renzo Imbeni – approvò con il 69,9% dei votanti un referendum per “vietare progressivamente la circolazione delle vetture private nel centro storico”.

Nostalgia del tram e, come sempre, dell’acqua. Canali progettati e costruiti non solo per dare energia ai mulini e alla lavorazione di quella seta che portò la città nell’eccellenza europea. Acqua  come motore dell’intera economia. Dal porto Navile e poi sul canale omonimo la seta lavorata veniva portata a Ferrara, poi attraverso il Po arrivava all’Adriatico e da qui soprattutto a Venezia. Si andava sulle barche – trainate dai cavalli sull’alzaia - a prendere il sale a Cervia. Bologna per secoli ha saputo guardare lontano ed ha sempre amato l’acqua. Nel 1915 il sindaco Zanardi acquista il piroscafo Jupiter – poi ribattezzato Andrea Costa – per comprare il carbone direttamente in Inghilterra, scaricandolo nel porto di Livorno: così il prezzo al consumo sotto le Due Torri diventa il più basso in tutta l’Italia. Nel 1916 lo stesso sindaco compra un altro piroscafo, il Febo – poi ribattezzato Carducci – per acquistare il grano direttamente in Argentina. Ma al primo viaggio da Mar della Plata il piroscafo viene requisito dai militari per portare mezzi e truppe al fronte. Progetti realizzati e progetti annullati. Ma anche da questi ultimi arriva una conferma: Bologna, almeno un tempo, sapeva guardare lontano.


*JENNER MELETTI (E' nato a Fossoli di Carpi nel 1948. Entra nella redazione dell’Unità di Modena nel 1973, poi lavora a Parma e Milano. Dal 1979 è responsabile della redazione di Bologna, poi inviato. Nuovo inizio con La Repubblica nel 1999. Primo impegno – oggi, Covid permettendo – fare il nonno)


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