Ahmedabad, l'India schizofrenica

di MANUELA CASSARA' e GIANNI VIVIANI*

Febbraio 2018, l’ultimo, per ora, dei nostri itineranti viaggi nel sub continente indiano. Dopo Delhi e il Rajastan, facevamo una tappa intermedia in Gujarat, prima  di scendere fino al Tamil Nadu. Tra Udaipur e Ahmedabad ci sono circa 250km, e li avevamo percorsi, è il caso di dirlo, in fila indiana, agonizzando dietro una carovana di camion mefitici e traballanti. Tempo previsto, in base al cellulare ,cinque ore. Inchallah.  Il quale doveva avere altro da fare, perché alla fine sono state sette, le ore, con una media di 35 km cadauna. In autostrada! Termine legittimo se la si confrontava con le strade che ci avevano portato a Jaisalmer o a Pushkar; alcune sembrava che le stessero asfaltando per noi, accodati a rulli compressori e  betoniere, in un continuo zigzagare tra pezzi di terra battuta. 

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(Chai shop                   foto di Gianni Viviani)

Arrivati alla periferia di Ahmedabad ci aveva accolto una sfilza di affissioni con il faccione belloccio di  Justin Trudeau, premier canadese, la cui visita ufficiale era prevista per l’indomani, famiglia al seguito. La Premier Family, pargoli inclusi, avrebbe scelto di sfoggiare un guardaroba rispettoso degli usi e costumi locali, cambiando i completini coordinati a seconda degli eventi: in nuances arancioni stile Hare Krishna per la visita al tempio Indù; inturbantati a la Sikh per quella al tempio omonimo; justin in giacca gurudi broccato a la Bollywood e Sophie addobbata come la Perla di Labuan per la serata di gala. I commenti ironici della stampa locale non si erano fatti attendere. Così, verso la fine del tour, consapevoli che il tributo si era trasformato in una mascherata, erano riapparsi i più decorosi abiti occidentali. Per accoglierli come si deve, tutti gli ampi viali per entrare in città erano stati spazzati, imbandierati, infiorati e corredati di poster di benvenuto.  Tutto molto asettico. Quindi altrettanto improbabile.  Sarebbe bastato un detour in una traversa laterale, o allontanarsi dagli spazi manicurati di Gandhigarth, il quartiere/città dei politici, per incontrare una ben altra realtà.

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(Downtown Ahmedabad              foto di Gianni Viviani)

 Perché Ahmedabad è una citta schizofrenica. Da una parte organizzata, ordinata, razionale, spettrale. Dall’altra, e lo dico con affetto e rispetto, è forse la città più in rovina tra quelle viste finora; ma è viva, genuina, accogliente, non contaminata dal turismo. La gente ti sorride, ti guarda stupita, vuole conoscerti, si avvicina, ti parla, ti fa sentire una celebrità.

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(Amiche       foto di Gianni Viviani)

Però prima bisognava arrivarci. Noi, eravamo stati accolti da una manifestazione d’incazzatissimi dimostranti, che avevano bloccato la strada con transenne e incominciato a prendere a manate il cofano della nostra macchina, determinati a farci fare dietrofront. Questo sotto gli occhi annoiati di una ventina di baffuti poliziotti occhialuti, impettiti nelle loro inamidate uniformi color cachi, disposti a farci linciare piuttosto che farsi stazzonare il completino. Non nascondo il nostro turbamento; erano tanti, erano parecchio alterati, ma dopo una breve intercessione e qualche spiegazione del nostro imperturbabile driver, tra sorrisi, un paio di arrivederci, parecchi namasté a mani giunte e altrettante  risate alla fine avevano fatto ala e ci avevano fatto passare, con noi che ci eravamo allontanati salutando in stile Windsor.

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(Festicciola in città     foto di Gianni Viviani)

Il Divans Bungalow, nostra prescelta dimora, era una Haveli, cioè una residenza privata di carattere storico, alla quale dovevano aver dato una bella imbiancata recente, perché somigliava alla Casa Bianca; le foto del cortile le attribuivano una certa fascinosa grandeur, le stanze sembravano principesche, lo charme era garantito. Peccato che si trovasse nella parte meno asettica della città, in un dedalo di stradine trafficate e rumorose. Lo stile della costruzione mi ricordava quei posti che mi concedevo, con sporadica prodigalità, nel lontano '73, quando ragazzetta ribelle e infelice, alla ricerca del senso della vita, ero arrivata in India per sei mesi sabbatici dopo aver mandato a quel paese i fasti della Maison Valentino, mio primo impiego. Questa struttura, elegantemente fané, sembrava uno di quei posti post Raj, i Dak Bungalow, edifici governativi a disposizione dei funzionari statali in trasferta o, su richiesta, dei viaggiatori. Luoghi dove mi rifugiavo per sentirmi protetta, quando non ne potevo più delle infime guesthouse fricchettone.

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(I due tintori     foto di Gianni Viviani)

Magioni coloniali, per lo più isolate; le avevo trovate nei luoghi più disparati, nelle assolate pianure del Bihar, alle pendici dell'Himalaya, tra i monti dell'Himachal Pradesh. La titolare, una pingue signora di aristocratici natali, si era impegnata; aveva rifatto i bagni, aggiunto graziose confezioni di shampoo e saponette Ayurvediche, però si era dimenticata di rimpiazzare gli asciugamani, strapazzati dai tanti lavaggi e, se fossi una carogna di Tripadvisor, avrei potuto fotografare le ditate sulle porte, gli interruttori ingialliti, la polvere del tempo e quella quotidiana, che si era sedimentata su ogni cosa. Se avessero venduto un paio degli splendidi lampadari di Boemia del salone, e forse l’hanno fatto, stando alle foto più recenti, avrebbero potuto rifare tutte le stanze. Il Viviani, sospettoso e critico, dopo aver controllato le lenzuola (ok!!) il flusso doccia (fondamentale) e il wc ( altrettanto) si era dileguato nei dintorni, con la sua  fedele Canon, ammiraglia in seconda.  L’ammiraglia in prima ce la stavano probabilmente fregando in quel momento, perché tornati a casa la troveremo forzata e svaligiata della suddetta e di varie altre cose. In quanto a me, corroborata da un fragrante masala chai bollente, ero uscita a farmi un analogo giretto per i fatti miei, incuriosita da quell’atmosfera di calore e polvere alla James Ivory.

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(Il centro       foto di Gianni Viviani)

Nei giorni seguenti ci avrebbe scorrazzato l’incredibile Hulk che ci aveva consigliato la nostra ospite. Si presentava al mattino, discreto e affidabile, si destreggiava nel traffico con calma efficienza. La sua schiena riempiva quel poco di visibilità che il mezzo permetteva, ma era premuroso, puntuale, era gentile. Ci sentivamo protetti. Anche se avrei preferito un mezzo più corazzato. Dopo il primo giorno, ci eravamo già affezionati.

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(Il sarto e la signora      foto di Gianni Viviani)

Il giorno dopo c’eravamo concessi un tour turistico, cosa che non facciamo mai. E con tanto di guida: L’Heritage Tour. Tradotto da me: Tour delle Catapecchie di una città che, solo un paio di secoli fa, doveva essere un gioiellino d'urbanistica, con le belle case dei mercanti intagliate come trine, ben progettata, all’avanguardia, con una vera rete fognaria, illuminata da raffinati lampioni, intervallata da accoglienti piazzette con templi e panchine, pensata per promuovere la condivisione degli spazi, e quindi l’integrazione, tra le diverse etnie religiose, jainisti, musulmani, indù, in armonia. N.d.r: le città con desinenza BAD, Islamabad, Ahmedabad,  sono fondate dai Musulmani e a prevalenza dei medesimi, quelle con desinenza PUR, Jaipur, Udaipur, Jodpur,  dagli Indù. 

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(La preparazione del matrimonio       foto di Gianni Viviani)

La guida, un adorabile signore con dei piedi che è meglio dimenticare, mi aveva preso da subito in simpatia, forse perché l'unica con un lampo di educato, seppur falsissimo, interesse nello sguardo, mentre gli altri partecipanti sembravano zombi che si aggiravano perplessi. Dopo di che, per me, non c'era più stata tregua. Mi fissava negli occhi, cercava il mio assenso, richiamava la mia attenzione con fare imperioso, mi chiamava vicino se mi allontanavo per cercare di recuperare il fotografo in fuga, lanciato sulle orme di Steve Mc Curry. Il tutto in una lingua che avrebbe richiesto i sottotitoli, con poche assonanze con l’inglese. Lui, questo omino entusiasta, orgoglioso della sua città, ne decantava le glorie e gli splendori passati, mentre ci aggiravamo tra cumuli di mondezza, da non confondere con la spazzatura, che farebbe pensare a qualcosa di troppo asettico, tra  case annerite dalla polvere dei secoli, schivando cacche di mucca e non solo, seguiti dall'interesse mesto dei cani randagi, mentre la gente del luogo proseguiva nel suo quotidiano, incurante di noi voyeur irrispettosi e invasivi, intenta nelle proprie faccende domestiche; chi lavava i panni, chi stirava, chi si stiracchiava, chi, seminudo, faceva le abluzioni per strada. Il nostro sguardo si affacciava sfrontato e curioso su scorci d'interni bui e poverissimi, violandone l'intimità. Sempre accompagnati da un via vai di scoiattolini, che faccio fatica a definire carini.  Per voracità e contestualità, sembravano piuttosto topacci dalla coda molto pelosa.

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(La stiratrice      foto di Gianni Viviani)

Ma c’è un must ad Ahmedabad, che mi permetto di consigliare: l’Ashram Sabarmati, nel sobborgo omonimo, che poi sarebbe l’ Ashram di Gandhi. Luogo dove il Mahatma ha vissuto per dodici anni, e da dove ha organizzato la prima marcia del 1930, quella che influenzò lo straordinario movimento che portò all’indipendenza dell’India.

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(Relax      di Gianni Viviani)

E’ un posto pacifico e piacevole, spoglio e intenso, in sintonia con l’austerità di questo piccolo, grande, benevolo Uomo, che con la sua determinazione ha cambiato il corso e la storia di una nazione. Ci si sente un misero, inutile, microbo. Il che rimette le cose in prospettiva. 

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(Sala da gioco        foto di Gianni Viviani)

Siamo rimasti solo quattro notti, ad Ahmedabad, provati da tre settimane di overdose etnica. Eravamo pigri e stanchi, così un pomeriggio ci siamo infiltrati in una festa di matrimonio, perché ci veniva facile, bastava attraversare la strada. Ci aveva incuriosito l’allestimento di una specie di baraccopoli colorata dai tendoni sdruciti, con una miriade di lucine e guarnizioni di carta argentata, che la facevano sembrare  un vecchio circo abbandonato.

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(Tempi moderni      foto di Gianni Viviani)

Il cortile, a tendopoli ultimata, era affollato di amici e parenti, saranno stati almeno duecento, gli sposi forse si erano dileguati; piccoli gruppi di donne anziane, di vecchietti baffuti e incartapecoriti, di giovinastri sfrontati e belle ragazze sorridenti, che ci invitavano ad entrare, ad assaggiare quel  cibo dall’aspetto inquietante e  dall’aroma pungente, per me  assolutamente invitante, a rinfrescarci scegliendo tra le fluorescenti cataste di tiepide bevande analcoliche, perché Ahmedabad, meglio saperlo, è assolutamente alcool free. Dovunque, anche nei grandi alberghi internazionali, tutti, quelli di larghe vedute persino in Arabia e persino all’Hyatt, dove ci eravamo rifugiati in crisi d’astinenza e dove avevamo pagato spropositatamente un Virgin Mojito, che poi è  una semplice limonata alla menta.

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(Sorrisi      foto di Gianni Viviani)

Come d’abitudine non c’eravamo fatti mancare il bazar; qualcuno dirà che si assomigliano tutti. Qualcuno, ma non noi.  Noi li adoriamo, ci ritorniamo, ci perdiamo in quei pertugi affollati, incasinati, felici di quei brevi incontri, di quegli sguardi rubati e complici, della reciproca curiosità, degli acquisti, delle contrattazioni, dei sorrisi.  A questo, al bazar di Ahmedabad, così ingrovigliato e trafficato, con quelle motorette e macchine che ci facevano il pelo e il contropelo, da sopravvissuti, dedico la frase del mio laconico compagno, che ancora mi risuona nelle orecchie:

" Qui, se non ti stende il vibrione può sempre farti secco il tuctuc. Se torniamo vivi, cero acceso."  Fatto.


*MANUELA CASSARA’ (Roma 1949, giornalista, ha lavorato unicamente nella moda, scrivendo per settimanali di settore e mensili femminili, per poi dedicarsi al marketing, alla comunicazione e all’ immagine per alcuni importanti marchi. Giramondo fin da ragazza, ama raccontare le sue impressioni e ricordi agli amici e sui social. Sposata con Giovanni Viviani, sui viaggi si sono trovati. Ma in verità  anche sul resto) 

*GIANNI VIVIANI (Milano 1948, fotografo, nato e cresciuto professionalmente con le testate del Gruppo Condè Nast ha documentato con i suoi still life i prodotti di molte griffe del Made in Italy. Negli ultimi anni ha curato l’immagine per il marchio Fiorucci. Ha anche lavorato, come ritrattista, per l’Europeo, Vanity Fair e il Venerdì di Repubblica. La sua passione più recente sono le foto di viaggio)


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