Accadìa, l'Italia ai confini della realtà il fotoracconto

di TINA PANE*

La prima volta che andai ad Accadia, accompagnando il marito a un convegno, non sapevo neanche dove mettere l’accento al toponimo. Poi scoprii che era una parola piana e che Accadìa non era una località irpina, come avevo immaginato, ma un comune di circa 2500 abitanti in provincia di Foggia, appoggiato a 650 metri sul livelllo del mare nei Monti della Daunia.

Il primo impatto, prima di giungere in paese, fu con la strada provinciale 101, incontrata all’uscita di Candela dell’autostrada A16, dove si ha per diversi chilometri la sensazione di essere veramente soli e che bisognerà aspettare di arrivare alla meta per soddisfare qualunque tipo di bisogno.

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Invece, all’improvviso, in mezzo alla campagna punteggiata di olivi e pale eoliche, spuntò una stazione di servizio. Nell’area c’erano un paio di auto parcheggiate, un tir e alcuni attempati ciclisti amatoriali in pausa di riflessione. Ma la sorpresa fu dentro il locale, che non si chiamava “La buona sosta” o “da Pinuccia”, bensì Piper.

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Oltre il paravento che separava la zona bar da un’ampia e pretenziosa sala ristorante, tutte le pareti erano abbellite da ritratti in bianco e nero di Patty Pravo (naturalmente) ma anche di Battisti, Mina, Marylin Monroe e Jimi Hendrix. Il sapore del caffè prese una piega musicale internazionale. 

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Accadia è un paese di pochi abitanti e moltissima storia, che si è spesso trovata nel mezzo di guerre e che una volta, nel 1462, ha subito un assedio aragonese talmente lungo e disastroso da meritare di essere raffigurato in due pannelli della porta di bronzo di Castelnuovo, a Napoli. Oggi, che la valorizzazione del territorio è un fine universalmente perseguito, Accadia racconta un po’ della sua storia nelle sale del Museo Civico, dove stanno mescolatamente esposti reperti di epoca romana, medievale e contadina: antiche statue di santi che sembrano totem, il banchetto di lavoro di un calzolaio del secolo scorso

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 il cippo funerario delle osse di Congetta Rosanna

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un torchio arrugginito, pietre millenarie, due macchine per scrivere.

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Un’esposizione che non resta impressa, non quanto invece il Rione Fossi.

Il Rione Fossi è la parte più estrema dell’abitato, posto alla fine del corso principale, ai piedi dell’imponente Torre Civica (o dell’Orologio) e della fontana Monumentale, che sono i due monumenti-icona che compaiono per primi nelle immagini di Accadia su internet.

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A guardarlo in pianta fa pensare alla testa di un uccello in volo; a guardare il panorama in cui è immerso dà la sensazione che tra queste morbide colline, i ciuffi d’alberi e il cielo sconfinato alberghi un genius loci. Ma il Rione Fossi, il più antico insediamento urbano di Accadia, con case scavate nella roccia e in grotte preistoriche, abbandonato dopo uno dei tanti terremoti che hanno colpito la zona, quello del 1930, è un rione fantasma, ricostruito ma mai abitato. Ed è un posto immediatamente fascinoso, contraddittorio, che si gira in completa solitudine, stupendosi per l’alternanza di edifici ristrutturati ad altri diroccati e mangiati dal tempo e dalla vegetazione spontanea.

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Da un lato una lunga, panoramica strada selciata, con bei lampioni e basse case in pietra chiara, facciate ordinate ed eleganti ringhiere nere. Qui, dove era il Palazzo Ducale, le case sono state ristrutturate, hanno solide imposte di legno scuro, i solai resi sicuri da travi in ferro, i contatori dell’Enel. Dall’altro lato, edifici con solai caduti, crepe nei muri o pareti diroccate, finestre senza imposte e archi sventrati da cespugli. Qui è tutto un ammasso di pietre rotolate, di infissi divelti e consumati dalla pioggia, montagnole di irriconoscibili detriti.

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Quest’alternanza di situazioni produce sbigottimento e rammarico, ma non disagio, e neppure paura. E risulta inevitabile immaginare la vita che qui c’è stata e che poi s’è fermata, per trasferirsi altrove, poco più su, in case più sicure, più comode, ma anche più anonime, sicuramente non affacciate su questa splendida vallata. Ci si aspetta da un momento all’altro di udire voci e richiami, di incontrare bambini che rincorrono un pallone, magari un anziano talmente anziano che ci ha vissuto qui, prima del terremoto.

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E nella vana ricerca di un segno, una suppellettile dimenticata che non c’è, da cittadina stanca di troppa urbanità, mi chiedo a ogni passo perché non ci tornino a vivere qui, c’è tanto spazio, tanta bellezza.

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La domanda resta naturalmente inevasa, è il destino dei nostri borghi (“autentici”, “arancioni”, “più belli d’Italia”) restare disabitati dei loro originari residenti, quando va bene accogliere i forestieri in seconde case e per brevi soggiorni.

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Ci sono tornata altre volte ad Accadia, e sempre sono andata a visitare e fotografare il Rione Fossi e a prendere un caffè al Piper, rinnovando la sensazione di straniamento e malinconia. Su entrambi i posti, pur così diversi, ci metto in mente mia la stessa insegna: “Ai confini della realtà”.

 

* TINA PANE (Napoli, 1962. Una laurea, un tesserino da pubblicista e un esodo incentivato da un lavoro per caso durato 30 anni. Ora libera: di camminare, fotografare, programmare viaggi anche brevissimi e vicini, scrivere di cose belle e di memorie)


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