West coast in barca nel mare di Milos

di MANUELA CASSARA' e GIANNI VIVIANI* 


Dimitri, il nostro ospite alle White Suites di Adamas, dove avevamo alloggiato nei nostri dieci giorni a Milos, tra i suoi compiti aveva quello di spiegarci, mappa alla mano, i dove, i perché e i per come dell’isola: compito che svolgeva con entusiasmo.  Arrivato al doveroso giro in barca per circumnavigarla, dopo averci squadrato e inquadrato, aveva sentenziato:

“Per voi, Thalassitra”

Non che mancasse l’offerta: barconi, gommoni, motoscafi, catamarani, c’era solo l’imbarazzo della scelta. Che era esattamente quello che volevamo evitare: la scelta, ma soprattutto di finire su un barcone super affollato. Volendo c’erano tour più spartani, più affollati, senza troppi optional, ma da anziani con un ridotto indice di resistenza e sopportazione avevamo optato, come consigliato, per Thalassitra.


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(Vita di bordo)


“Hanno due imbarcazioni vecchia maniera, sul modello delle barche tradizionali“, aveva aggiunto Dimitri.  Due vascelli a due alberi, sulla replica di quelli storici e tipici, localmente detti “trehantiri” equipaggiati con le classiche vele dette “rantopsathi”. Vele che comunque non verranno mai issate. Né le nostre né quelle delle altre escursioni, escludendo forse un paio di barchette private con qualche skipper volenteroso, viste navigare all’orizzonte.


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“Troppo sbattimento” mi aveva confermato un’amica, skipper anche lei, di quelle dure e pure, che andrebbe a vela nell’occhio del ciclone. “Quando c’è troppo vento è perché ce n’è troppo; quando non ce n’è, allora ti dicono che non si va da nessuna parte. Comunque sia preferiscono andare a motore”.

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(La bella Leloudo)


Due le barche, due i tour a disposizione: la Thalassitra, diciamo l’ammiraglia, un barcone di maggior capienza, preposto alla circumnavigazione dell’isola e a toccare anche le limitrofe Kimolos e Polyogos:  €120, il prezzo all inclusive di food and drinks a volontà. Tempo di navigazione, quasi dodici ore, troppe per le nostre ancora bianche carni e lo stomaco, storicamente sensibile, del mio compagno di vita e di avventure.  Pensando al budget, €80 cadauno e al nostro fisico,  avevamo perciò optato per il giro più corto: 7 ore di navigazione, sulla più piccola Leloudo, che si limitava al lato ovest dell’isola, ma con uno stop imprescindibile, Klefitiko.

Espletati tassativamente il giorno prima della partenza i diktat sanitari:  documenti, e  fotocopia del Green Pass, “perché la polizia ci controlla” (vero, visto con i miei occhi), il giorno seguente imbarco alle 10,30, ora decente. Ventisei passeggeri in tutto, e da subito l'impressione, vista l'imbarcazione, era stata: staremo strettini. 


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(La costa)


Imbarcati per ultimi, le postazioni migliori erano andate a ruba. Il beneamato, vista la densità a  bordo, era salito recalcitrante, con l'aria di un condannato a passare per la chiglia. Appena usciti dal porto due cose l'avevano tranquillizzato: l’essersi ricordato che tutti avevano il Green Pass, altrimenti non avrebbero potuto imbarcarsi e che, con quel venticello, il Covid si sarebbe volatizzato. Tre i membri dell'equipaggio: due graziose fanciulle e un capitano, segaligno e gentile, nascosto dietro un paio di occhiali specchiati in tinta con il mare. Kostantina, la nostra guida, era un esserino grazioso di poco più di 40 chili, che saltellava a poppa e a prua, a babordo e tribordo, passando con facilità dal greco all' inglese, ripetendo sorridente e paziente le spiegazioni ad ogni fermata. Eravamo un gruppo eterogeneo, quattro italiani cioè noi più due neo sposini, una coppia di aitanti ragazzi spagnoli, una famigliola franco-canadese dall’aria spaesata e poco cordiale, quattro amici da Londra che, identificata la ghiacciaia con le Mythos, si erano accovacciati a prua a raccontarsela. Gli altri, coppie di giovani greci, se ne stavano per i fatti loro. Noi, alla fine, uno scomodo posticino, ce l’eravamo conquistato. 

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(Sirmata)


Usciti dal porto, calma piatta con brezza leggera, eravamo passati a distanza ravvicinata davanti a Klima, il più colorato tra i villaggi di pescatori, con le sue “sirmata”, le “cable house” dai fotogenici portelloni dipinti a tinte forti, rosso, giallo, bluette, viola, turchese, verde mela, una volta pratico escamotage per riconoscere da lontano la propria rimessa, dipinta dello stesso colore della barca. Casupole convertite in negozietti di souvenir, quando non affittate a caro prezzo a turisti in cerca più di atmosfera che di comfort. In alto, lungo la cresta rocciosa, s’intravedeva il soporifero paesino di Tripiti, consigliato per godersi in santa pace un tramonto condito con ouzo e mezes, via dalla pazza folla di Plaka, dove ci si va per fare altrettanto, se si preferisce il casino. Kostantina ci aveva quindi indicato le sottostanti catacombe e le rovine del teatro greco, luogo vicino al quale, giusto duecento anni fa, un contadino aveva ritrovato la famosa statua di Venere. Valle a vedere, bisognava avere la vista di un falco pellegrino per riconoscere “quelle” particolari pietre nella pietraia scoscesa, mentre la barca incedeva. Arrivati ad Arkoudes, un complesso di scogli e insenature rocciose, la nostra piccola guida ci aveva consigliato di guardare con attenzione un grosso faraglione bifronte: da un lato aveva le forme di un coccoloso coniglietto, dall’altro, e bastava doppiarlo, eccolo trasformato in un orso (arkouda in greco) rampante, dall’aria ben poco benevola.


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(Tripiti)


Attraversato il golfo, doppiato Capo Vani, c’eravamo accostati, fino quasi a toccarle, a delle magnifiche rocce verticali, di un rosso intenso con venature scure. “Per l’alto contenuto di ferro” ci aveva spiegato Kostantina.  Il contrasto con quel mare eccezionalmente turchese era drammatico e pittorico. Nonostante il sole e i colori, il posto aveva un che di severo e sinistro, trasmesso dagli spettrali ruderi della miniera di manganese, oggi abbandonata, che erano stati casa e bottega per quei minatori condannati non solo a un lavoro infame, ma a svolgerlo isolati su questa costa inaccessibile, assolata come una Cayenna, che tale diventerà, difatti, quando la miniera  verrà abbandonata e la postazione sarà convertita in una vera colonia penale.



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(Capo Vani)


Primo bagnetto a Kalogries, sulla costa nord orientale. Una piccola ansa azzurra e sabbiosa, dall’acqua calda e invitante; vorrei poter aggiungere “pulitissima”, ma non posso; colpa, immagino, della decina d’imbarcazioni che ci aveva preceduti. Sarà così ovunque e bisogna farsene una ragione. Per gli avventurosi forniti di 4x4  Kalogries è raggiungibile anche via terra, dopo una lunga e impegnativa sterrata seguita da una lunga e assolata camminata. Se proprio si vuole soffrire. Noi, invece ci siamo goduti un “brunch break” (parole di Kostantina) in rada: uva, vino, e stuzzichini di dakos e formaggio, tutto locale, tutto speciale. Generale assalto alla tavola. Niente come il cibo per assicurare convivialità.

Salpata l’ancora, avevamo poi continuato a bordeggiare lungo la costa, lato mare aperto, con onde che si facevano più ritmiche e lunghe. Qualcuno aveva incominciato a dare cenni di cedimento e scelto di sdraiarsi sul tetto del pozzetto, cosa che gli avrebbe dato il colpo di grazia. Mai sdraiarsi, sempre guardare l’orizzonte, in caso di mal di mare. E cito mio padre, che era marinaio. Un’oretta così e i corpi sdraiati nel frattempo erano aumentati. Finalmente eccoci a Kleftiko. Posto che merita tutta la sua reputazione. Ci sono due luoghi, a Milos, che sono due icone. Il primo: le bianche scogliere di Sarakiniko, che però sono a Nord, ci si arriva anche a piedi comodamente e le si vede dal mare solo se si è presa l’escursione di un giorno; l’altro sono le altrettanto bianche scogliere di Kleftiko, raggiungili, queste, solo via mare. “Staremo qui per due ore” ci aveva informato Kostantina “e serviremo il lunch”. 



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(Esplorando Kleftiko)


Sembrava una buona notizia, che i suddetti sofferenti scopriranno essere altrimenti. Perché la trehantiri, per come è fatta, beccheggia e ondeggia a destra e a manca. Un rollio continuo. Gli ex sdraiati erano ormai diventati degli stracci, degli zombi pallidi e silenziosi  e molti avevano preferito buttarsi in acqua e appollaiarsi su uno scoglio piuttosto, che affrontare quel buon Pastisio, tutte quelle insalate e  quel taboulè  davvero notevoli, sul ponte traballante. Nel frattempo l’infaticabile Kostantina, sbocconcellato in fretta un dakos, “non ne posso più di questo cibo, vorrei tanto una pizza” mi aveva confessato, organizzava tour in gommone, a gruppi di sei, per farci conoscere gli anfratti e la storia di questo piccolo, affascinante paradiso, fatto di faraglioni e lagune segrete, di eros e thanatos. 

Storia che s’incentra su un pirata, chè kléftis in greco vuol dire proprio questo: ladro. E Kyrios Kleftiko quello faceva di mestiere, rubava. Un malandrino di buon cuore, una specie di Robin Hood che toglieva ai ricchi, specie se Turchi, e ridistribuiva molto del maltolto ai poveri isolani, che perciò lo proteggevano. Un pirata galantuomo che in queste acque nascondeva i suoi tesori. Incluso quelli diventati a lui più cari: sua moglie, una bella isolana di nome Leloudo, e il piccolo Dimitri, il loro piccino.


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(Acqua azzurra, acqua chiara)


Sarebbero vissuti qui, leggenda dice, protetti da queste rocce, in queste acque idilliache, fino a quel “ felici e contenti” che non ci sarebbe stato.  Perché, scovato finalmente l’impenitente malvivente, i Turchi si erano vendicati, impiccandolo all’albero maestro di un loro galeone. Di Leloudo non se ne era saputo più nulla. Sappiamo solo, e l’abbiamo documentato, che ora fa la polena discinta sulla prua della nostra imbarcazione. Si sa anche che il tesoro non stato più trovato. Altra leggenda dice che sia ancora qui, tra le bianche scogliere di Kleftiko, alla portata di chi vuole provare a trovarlo,  con le pinne, senza fucile, e gli occhiali, in questo mare che è davvero una tavola blu.


*MANUELA CASSARA’  (Roma 1949, giornalista, ha lavorato unicamente nella moda, scrivendo per settimanali di settore e mensili femminili, per poi dedicarsi al marketing, alla comunicazione e all’ immagine per alcuni importanti marchi. Giramondo fin da ragazza, ama raccontare le sue impressioni e ricordi agli amici e sui social. Sposata con Giovanni Viviani, sui viaggi si sono trovati. Ma in verità  anche sul resto)

*GIANNI VIVIANI (Milano 1948, fotografo, nato e cresciuto professionalmente con le testate del Gruppo Condè Nast ha documentato con i suoi still life i prodotti di molte griffe del Made in Italy. Negli ultimi anni ha curato l’immagine per il marchio Fiorucci. Ha anche lavorato, come ritrattista, per l’Europeo, Vanity Fair e il Venerdì di Repubblica. La sua passione più recente sono le foto di viaggio)



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