Malìa di Sarajevo, capitale del Secolo breve

di FRANCO DI MARE


C’è una stradina, a Sarajevo, dove è iniziato il Novecento. È una viuzza come tante, un po’ anonima, breve e senza negozi.Si chiama Ulica Franz Josip, la trovate percorrendo verso nord Ulica Kulina Bana, la strada che costeggia il Miljacka, il torrente che taglia in due la capitale della Bosnia e che molti, esagerando un po’, chiamano fiume.

Kulina Bana si trova all’altezza del ponte latino, alla vostra sinistra. Imboccatela,quando ci siete arrivati. Dopo una ventina di metri, sulla destra, guardate il marciapiedi. Nel cemento vi sono impresse le impronte di due scarpe. Sono lì a ricordo del punto esatto dove si trovava Gavrilo Princip quando il 28 giugno del 1914 sparò contro l’erede al trono austro-Ungarico, l’arciduca Francesco Ferdinando, e sua moglie, Sofia Herzogin von Hohenberg. Dopo l’attentato, il diciannovenne irredentista tentò inutilmente la fuga, gettandosi nel torrente dal ponte latino.

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L’ auto dell’arciduca venne dirottata nel vecchio hotel Europa, nel tentativo, inutile, di portare soccorso alla coppia ferita a morte. Quell’attentato diede la stura alla prima guerra mondiale. L’albergo è ancora lì, pieno di fantasmi, ma non vi troverete alcun cimelio che ricordi questa vicenda:oggi è completamente ristrutturato.

È Sarajevo la vostra meta, un viaggio nella storia dell’Europa contemporanea e nelle coscienze di ogni cittadino europeo. Una scorribanda nel secolo breve immersi nel respiro dei Balcani, cullati dalle irriverenti melodie tzigane di Goran Bregovic. Un viaggio che si deve compiere almeno una volta nella vita. Un viaggio non impegnativo – se non per i vostri cuori - perché la meta è a due passi da casa nostra. Un’ora di volo, o poco più. Tutto lì, ma ne vale la pena, perché nel costo del biglietto è incluso l’ingresso nella storia.

Il Novecento è nato lì, con quei colpi di pistola, e lì si è concluso, con una guerra fratricida che è terminata dopo tre anni sanguinosi con la sigla degli accordi di Dayton, nel 1995.

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Passeggiare per le strade di Sarajevo significa passeggiare nelle pagine di vicende che sono anche le nostre. Non c’è strada che non ricordi l’assedio più lungo che vi sia mai stato in Europa, durato oltre mille giorni, perfino più lungo di quello di Leningrado.

Guardate in alto i palazzi: su qualcuno vi sono ancora i segni dei mortai e dei mitragliatori. Entrate nella biblioteca di Sarajevo: è stata ricostruita coi finanziamenti europei. Bruciò per tre giorni, oggetto delle attenzioni dei mortai serbi, perché sui suoi scaffali c’erano libri che raccontavano di una Sarajevo cosmopolita, dove le tre grandi religioni monoteiste dialogavano pacificamente, contrariamente a quello che sostenevano le canaglie che assediavano la città e sparavano sui civili.

Sia chiaro: questo non è un invito ad andare a cercare i luoghi dei massacri riportati dalla nostra televisione in quei giorni. Ci sono anche qui ricordi, se volete. I giovani dell’Obala Theatre, diventato negli anni un centro culturale, hanno segnato i punti dei massacri, strada per strada, i luoghi dove le milizie che circondavano la città facevano piovere granate sulle file per il pane o per l’acqua.

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Non è questo. Il fatto è che quella città e le sue strade ci parlano, perché dietro alla sua bellezza schiva e struggente c’è la nostra storia. Sarajevo parlava al mondo, perché era baluardo della convivenza civile, del dialogo possibile tra etnie e religioni diverse: la cattedrale cattolica sorgeva poco lontano da quelle ortodosse, vicino alla Sinagoga, non lontano dal quartiere di Bascarsija, quello dei cento minareti e degli artigiani del cuoio e del rame, dov’è possibile bere un turskacafa, dopo aver atteso che la polvere di caffè si posi sul fondo della tazzina di rame, ascoltando il canto del muezzin che invita i fedeli alla preghiera del pomeriggio.

Sarajevo è lo struggente, commovente e spettacolare simbolo della resilienza alla barbarie. Ed è la testimonianza di quello che l’Europa avrebbe potuto essere e ancora non è riuscita a diventare. Se la malia funzionerà - e non nutro dubbi in proposito - lascerete la città giurando di tornarci.

Come capita a me ogni volta.




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