ZINGARATE - Da Bortolino a Viadana, con i piedi nel Po

di ANTONIO SILVA *

Una zingarata fissa, ogni anno, è quella di giugno per andare a comperare il lambrusco mantovano. A noi piace il lambrusco mantovano, che è più ruvido, più rustico di quello emiliano-romagnolo. Lì, nel Mantovano, lo producono con l’Ancellotta, un vitigno che gli dà un bel colore rosso intenso tendente al violaceo. È la nostra bevanda estiva. Che consumiamo con il rito della coppa di ghiaccio. Si prende un calice a ballon molto ampio, lo si riempie di cubetti di ghiaccio e vi si versa il lambrusco. Che si beve così, bello ghiacciato, on the rocks, come dicono i bulli. Lo so che la cosa farà storcere il naso a molti intenditori. Ma ognuno ha le sue perversioni. Noi ci abbiamo questa.

Ebbene, lì nel Mantovano – a Mariana Mantovana, per la precisione – abbiamo trovato un piccolo produttore che abbiamo eletto nostro fornitore privilegiato. Ossignùr, lo so che ‘sta roba del “piccolo produttore” è una roba da fighetti. Tutti quelli che se la tirano col vino hanno il loro “piccolo produttore” che fa un “prodotto di nicchia”. Che palle. Ma stavolta è proprio così: Stefano Spezia, con la sua piccola vigna, fa un po’ di bottiglie di ottimo lambrusco mantovano.

Quindi, quando arriva giugno, si parte per Mantova. Sì, la prima tappa è il capoluogo. Perché ci infilo dentro, nella scampagnata, un po’ di Gonzaga e un pezzo di Mantegna così da far credere – soprattutto a noi – che sia una gita culturale. In fondo ci vergogniamo un po’ ad essere considerati solo dei porci Epicuri de grege.

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(L’osteria da Bortolino e il suo ostello durante una piena del Po a Viadana                     foto Nicolas Lombardi)


Ma la destinazione vera è l’osteria Da Bortolino, a Viadana.

Per arrivarci dovete avere un buon navigatore che, una volta arrivati a Viadana, vi dice di imboccare la Via al Ponte che, adesso bella asfaltata, scende scende e si ferma sotto un ponte, proprio sulla riva del Po. Capito? Non siete sull’argine. Siete giù in fondo, proprio sulla riva, praticamente con i piedi nell’acqua.

Lì di fianco c’è Bortolino. Che è lì dagli anni di fine Ottocento (sì, Ottocento. Mica paglia) quando era una semplice baracca di legno che fungeva da osteria per i pescatori e i cacciatori. Aperta 24 ore su 24 perché, si sa, pescatori e cacciatori non hanno orari.

Adesso l’edifico ovviamente è più grande, senza esagerare, e più accogliente. Ma, se osservate bene, conserva la citazione lignea della vecchia osteria e soprattutto ne ha conservato lo spirito ospitale. Nel senso che il patron Roberto accoglie tutti a braccia aperte e non caccia via nessuno a nessuna ora del giorno e della notte. Adesso poi c’è anche la Locanda. Che, se l’avete presa dura, potete anche fermarvi a dormire.

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In rapida sintesi, Bortolino ha tre pregi.

Uno: la cucina. Che è del luogo e della stagione, con qualche intelligente fuoriuscita.

Sugli antipasti, non state a pensarci su. Buttatevi sui grandi affettati e non sbagliate. Magari, intanto che aspettate, fatevi portare un po’ di ciccioli da sgranocchiare. Così, per preparare lo stomaco. Vi cito solo alcuni primi, tra i classici: risotto con zucca e salsiccia o allo zafferano con ossobuco, bigoli al sugo d’anatra, spaghetti con acciughe e tartufo nero, tagliolini con culatello, limone e zucchine. Tra i secondi, il porcello la fa da padrone in ogni stagione: guancialino di maiale in umido, stinco di maiale arrosto o di agnello, costine di maiale glassate, maialino da latte. Ma anche qui potete spaziare in altri territori. Per il dolce non si discute: sbrisolona con zabaione. Anche se siete diabetici.

Due: la cantina. C’è tutto, dallo Château d’Yquem alla Bonarda mossa, passando per i superalcolici. Il che fa impazzire il malcapitato di turno alla guida, che non può e non deve bere.

Tre: ve lo spiego. Da Bortolino è uno dei locali che noi zingari abbiamo selezionato perché è uno dei pochi, pochissimi, che – finito il pasto – ci lascia stare lì sotto il bersò a giocare a carte. E magari a picchiare una pennica in riva al grande fiume. Roberto poi è incredibile. Quando ha finito il suo lavoro meridiano, prima di andarsene, ci lascia la chiave della cantina: bevete quel che volete che poi ci si aggiusta. Tanto poi lui torna per l’apertura serale prima che noi si parta destinazione lambrusco.

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Una volta, non ricordo il motivo, abbiamo invertito il giro. Siamo passati prima da Spezia a prendere il vino e poi siamo arrivati da Bortolino per cena.

Terminata la cena, siamo lì che ci beviamo l’ultima bottiglia – in genere bollicine, astenersi prosecco – intanto che facciamo la nostra scopetta.

Saranno circa le 23. All’improvviso cominciano ad arrivare a coppie, a gruppi, a compagnie, dei ragazzotti e delle ragazzotte reduci da qualche cinema o, più poeticamente, da qualche camporella. Si siedono ai tavoli e ci danno di affettati e formaggi. Ciao pizza. Ciao hamburger.

Belli che non vi dico. Belli i ragazzi, allegri e pimpanti. Belle le ragazze. Che incedono con passo leggero e sicuro ad un tempo. Con il fisico snello e tonico. Ti confondono con due grandi occhi, pieni, puntati dritti sul tuo cuore, che immagini sodi ancorché ballonzolanti il giusto. Sì, occhi. Che il Lucini, il mio amico meccanico, vorrebbe strapparseli i suoi, di occhi. Insomma, un inno alla vita, alla gioia, al piacere.

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(Roberto Naldini, che ha reinventato Bortolino)

Adesso, lo so che messa così suona macho o, se preferite, non politically correct. Ma io, sulla questione, non ne posso più dei talebani, anche di quelli nostrani, spesso farisaici. Che dicono “diversamente abile” e ostruiscono i parcheggi H. Io, sulla questione – questa in particolare -, sono in piena sintonia con Cesare Zavattini: andate a rileggervelo. Che ha emesso la sentenza decisiva:

Diu al ghè

S’a ghé la figa al ghé.

Sul lö al pudeva invantà

na roba acsé

cla pias a töti a töti

in ogni luogo,

ag pansom anca s’an s’ag pensa mia,

appena ca t’la tochi a cambióm facia.

Che mument! long o curt al saióm gnanca.

La fa anc di miracui,

par ciamala

an möt

a ghé turnà la vus.

Ah s’a pudés spiegaram ma

l’è dificil

cme parlà del nasar e dal murir. [1]

 

 

(1) La trovate in Cesare Zavattini, Stricarm’ in d’na parola, All’insegna del pesce d’oro, Milano MCMLXXIII, by Fabio Zanchi. Poi inserito in Cesare Zavattini, Opere 1931-1986, Classici Bompiani.


*ANTONIO SILVA (Ha insegnato storia e filosofia in diversi licei di Milano e provincia per quindici anni. Poi, per altri trenta, è stato Preside di licei classici e scientifici in Milano e provincia. Ha collaborato con diverse testate giornalistiche - La Repubblica, il Sole 24 ore - discutendo i problemi della scuola italiana. Con un nom de plume ha gestito la rubrica "Il Giudizio Universale” sul settimanale di resistenza umana "Cuore". Dal 1976 è lo "storico" presentatore della "Rassegna della canzone d'autore - Premio Tenco", che si svolge ogni anno a Sanremo)

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