Yemen: noi che abbiamo visto Socotra, chiusa per guerra

di BRUNO MISERENDINO*

Non ricordo perché, tanti anni fa mi ero messo in testa di vedere Socotra, “l’isola del sangue di Drago”.  Avevo letto i racconti di qualche navigatore solitario. Poi avevo iniziato a cercare notizie. Sognavo di andarci in barca. Sperduta al largo del Corno d’Africa, tra Mare Arabico e Oceano Indiano, era descritta come uno degli ultimi Eden selvaggi della terra. Sterminate spiagge bianche e un’esplosione di biodiversità, centinaia di piante bizzarre, dalle forme aliene, che esistevano solo lì e attiravano studiosi da tutto il mondo. Come alle Galapagos. Si avvisavano i naviganti, questo me lo ricordo, di qualche difficoltà: un monsone furioso la rendeva impraticabile d’estate. Nelle altre stagioni, quando non c’erano 40 nodi di vento, c’erano i pirati. Non ultimo dei problemi l’isola apparteneva (e appartiene) allo Yemen, paese fantastico ma angosciosamente arretrato.  Un po’ di anni per incubare il sogno e poi, nel 2007, la follia. Ci siamo andati in viaggio di nozze. Socotra e lo Yemen, che tredici anni fa aveva già problemi di terrorismo, non erano la meta ideale per una vacanza rilassante. Ma a Valeria, mia moglie, collega e compagna di tanti viaggi in giro per il mondo,  l’idea piacque molto. Per chiarirci, non era l’incoscienza un po’ folle della gioventù. Eravamo già vicini alla pensione, quindi il segnale fu molto più preoccupante.

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(Socotra, una spiaggia)

Benedetta follia. Socotra da tempo non è più un’isola sconosciuta, è patrimonio dell’Unesco, ma il turismo di massa non l’ha mai aggredita per le ragioni di cui sopra. L’hanno vista in pochi e adesso non la vede più nessuno. Da quattro anni è chiusa per guerra. Non ci sono collegamenti, lo Yemen è un paese fantasma, in piena emergenza umanitaria, martoriato e ridotto alla fame, dilaniato dal 2015 da una guerra civile di cui nessuno parla, ostaggio di un conflitto interno e di uno assai più grande, quello tra l’Arabia Saudita che l’ha occupato militarmente e l’Iran, che arma i ribelli del nord del paese. A Socotra non si spara, però il futuro di questa meraviglia della natura è a rischio. Arrivano notizie confuse ma non buone. Qualcuno sospetta che i sauditi, ormai i veri padroni dello Yemen, vogliano usarla come base militare, altri temono che si stiano preparando speculazioni edilizie in grande stile, perché prima o poi la guerra finirà e le bellezze di Socotra fanno gola a molti.

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(Imbarcazione a Socotra)

E’ il destino dei paesi poveri del mondo e lo Yemen non fa eccezione, a dispetto dei suoi tesori. Quando siamo andati,  gli Usa lo avevano inserito  tra gli “Stati canaglia” che davano rifugio ai terroristi, la Farnesina lo sconsigliava, le guide invitavano pudicamente “a stare attenti”. Eppure i turisti europei, tranne gli inglesi, erano ben accetti. Soprattutto era un paese fantastico che valeva comunque la pena di visitare, se non altro per quella fiaba vivente che è la capitale Sana'a, una delle meraviglie del mondo, cara a Pasolini e da decenni anch'essa patrimonio mondiale dall’Unesco.

Che lo Yemen non fosse il posto ideale per un tranquillo viaggio di nozze lo capimmo pochi giorni prima della partenza, quando già avevamo pagato tutto. Arrivò la notizia che sei turisti belgi erano stati uccisi da Al Qaeda nell’est del paese. Disperato tentativo di cambiare programma: “Sandro (era il titolare dell’agenzia che faceva i biglietti al nostro giornale, l’Unità ndr), è troppo pericoloso, è un viaggio di nozze, mandaci ai Caraibi, come fanno le normali coppie occidentali…”. “Impossibile, perdereste un sacco di soldi; ma lo Yemen non è tutto pericoloso, Sana'a è sicura, e i turisti uccisi erano andati in una zona proibita. Poi voi metà del viaggio lo passate su un’isola che i terroristi nemmeno sanno che esiste”. Su questo aveva ragione.

Dieci giorni sospesi tra bellezza e paura. Come lo Yemen, paese meraviglioso, sospeso tra povertà sociale e ricchezza dei tesori, dove i palazzi sembrano disegnati dai bambini, ma dove gli uomini girano con la scimitarra e le donne sono ricoperte di veli neri dalla testa ai piedi.

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(Socotra)

 Arrivammo a Sana'a una notte di febbraio. Faceva freddo. Man mano che l’autista con la scimitarra e la guida ci conducevano al nostro albergo, vedevamo sfilare nel silenzio una sequenza continua di minareti e palazzi con le decorazioni da fiaba, e quando guardammo fuori dalle piccole finestre della nostra stanza ci fu chiaro che eravamo nel mondo delle Mille e una Notte. In quel piccolo albergo aveva alloggiato l’anno prima l’ex cancelliere tedesco Schroeder. Non era lussuoso, era solo fiabesco, segno che il potere non sempre annulla il buon gusto. Davanti all’ingresso passavano asini e cammelli,  prendere il the tra le decorazioni dei cortiletti interni divenne un esercizio spirituale. C’era, più forte di molti altri viaggi, la sensazione di essere distanti anni luce dall’Europa. Eppure lo Yemen è a meno di 5 ore di volo da Roma. Poco più che andare a Lisbona, a Londra o a Stoccolma.

 Poiché nel mondo e nella vita una buona guida fa la differenza, Mohse, il nostro accompagnatore, divenne da subito il punto di forza di tutto il viaggio. Entrammo in sintonia, anche perché non portava la scimitarra e parlava un discreto  italiano. Diceva di averlo imparato da solo, dopo aver studiato lo spagnolo a Cuba. Età indefinibile, sembrava il prodotto dell’internazionalismo sovietico. Aveva girato un po’ di paesi comunisti  e poi aveva iniziato a fare la guida nel suo paese per i turisti europei. Ci chiese più volte che lavoro facessimo, non gli abbiamo mai detto che eravamo giornalisti. Ma forse lo sapeva già. Anche se non credo fosse un informatore della polizia, non era benestante, si arrangiava come poteva. Nel viaggio ebbe un’infezione a un piede e zoppicava sopportando il dolore, fummo noi a dargli antibiotici per curarsi. Si mostrava aperto, ma fino a un certo punto. Del velo nero che copriva le donne, diceva che era una loro libera scelta, che non c’era alcuna imposizione religiosa o dalla famiglia. Vedeva le nostre facce poco convinte. “Mohse - obiettavamo - ma se fosse una scelta libera almeno una donna senza velo l’avremmo incontrata…”. Muro di gomma: “No, è così, quando non sono più bambine possono scegliere, si vede che molte scelgono la tradizione”.

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(Socotra)

Argomento tabù. Vedendo quanta meraviglia offriva il paese, gli chiedevamo perché mai non si aprissero di più al turismo, che avrebbe portato capitali e lavoro. Certo, bisognava risolvere il problema del terrorismo, chi va volentieri in un paese sospettato di dare ospitalità ad Al Qaeda? Allora lui iniziava a divagare: “Ma il terrorismo è dappertutto, in Spagna, a Londra, a Parigi, a New York… colpisce una volta qui, una volta lì…” Glielo dicemmo con franchezza: “No Mohse, le cose non stanno così. E’ vero che il terrorismo colpisce ovunque, ma se io sto a Roma, o vado a Madrid, a Londra, a Parigi, a New York, so di stare e andare in paesi dove si fa di tutto per scovare i terroristi prima che colpiscano. Qui voi i terroristi non li cercate, vi tenete le basi di Al Qaeda…” Rispondeva, tentando di cambiare argomento, che era difficile scovare i terroristi perché non c’erano forze di polizia attrezzate. Un giorno, prima di partire per Socotra,  facemmo una gita fuori Sana'a a vedere uno dei simboli dell’architettura yemenita, un meraviglioso palazzo appoggiato su un macigno,  e fummo fermati a un posto di blocco da una pattuglia dell’esercito. Crea sempre apprensione incappare nei militari in questi paesi, ma quelli ci apparvero così poco addestrati, così dimessi nelle loro divise logore, scalcinati nell’atteggiamento e nelle armi, che immaginammo la scena di un impari scontro con un commando di Al Qaeda.

Non sappiamo che fine ha fatto il nostro Mohse. Lui era di Aden, e proprio nella sua città ci accompagnò in un giro fuori programma, chiamando uno zio come autista. La città che controlla storicamente il traffico verso il Mar Rosso, celebre crocevia di spie e di traffici, manteneva ancora il suo fascino antico, con il grande porto, le fortificazioni merlettate, e il lungomare di pietra bianca. C’era un’aria sospesa, tra bellezza e decadenza. “Molti vorrebbero dividere di nuovo lo Yemen tra nord e Sud”, disse Mohse. E tu che farai? “Io tornerò qui”. Chi poteva immaginare, davanti a quel mare chiaro e dolce che 8 anni dopo le antiche divisioni sarebbero diventate una guerra rovinosa?

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(Socotra)

A Socotra, invece, la storia non è di casa. Il tempo si è fermato a un’era geologica indefinita, e gli uomini sembrano una realtà casuale, schiacciati da una natura che possono solo assecondare. Gli antichi navigatori la temevano per il clima, i venti, gli stregoni, la stranezza delle piante. Ma anche nel 2007 non c’erano tracce di modernità, e quando siamo andati le cose stavano proprio come dicevano i racconti dei navigatori solitari. Non c’era un vero porto, c’era l’aeroporto, inaugurato otto anni prima, ma d’estate non funzionava per via del vento. Il capoluogo, Hadibou, era la scena di un film western. Due o tre impresentabili alberghetti con un’architettura che ricordava, in peggio, quella dei paesi comunisti, strade sterrate, case di fango sparse, un campo da calcio di terra e sassi, un minareto, una piccola moschea, qualche emporio senza insegne. Uno di questi era organizzato all’interno di una carcassa di automobile. Non ricordo lampioni o marciapiedi. C’era un ospedale, per fortuna mai frequentato. Quando passavano le macchine dovevi girarti di spalle per non respirare la polvere e prendere negli occhi la ghiaia lanciata dalle ruote. La sera, dopo il canto del Muezzin, Hadibou faceva paura.

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(Socotra)

 In stanza non c’era televisione. C’erano solo il Corano e un foglio in inglese che spiegava perché era giusto e utile che le donne indossassero il velo. Per fortuna Mohse ci portava al ristorante a mangiare pesce. Esperienza indimenticabile, ma non per il pesce. Era una casupola coi tetti di lamiera, tanti tavoli di legno malmessi sul selciato e alcune lampadine sospese e fioche. C’erano tutti i pochi turisti che gravitavano sull’isola, ma la vera attrazione del locale erano le capre. Che mangiavano insieme agli avventori. Salivano con agilità sulle panche e appoggiavano le zampe anteriori sul tavolo, proprio come gli umani. Senza paura, con tenerezza, si avvicinavano raccoglievano le briciole e iniziavano a leccarti, e quando arrivava il piatto dovevi sempre impegnare una mano per evitare che ci infilassero il muso dentro. Anche la colazione era un’esperienza irripetibile. Inesistenti i bar, si poteva andare solo in un posto dove ti servivano di prima mattina pezzi di fegato di montone con fagioli e cipolle. Mhose la presentava con orgoglio come una magnifica colazione yemenita, in realtà era un attentato. Se proprio insistevi ti portavano alla fine anche un po’ di the o caffè. Non erano previste posate, ci si arrangiava piegando il chapati, il tipico pane locale fatto a focaccia piatta. Quindi, appena sorgeva il sole l’obiettivo era scappare da Hadibou.

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(Socotra)

C’era un'unica strada asfaltata, fatta dagli italiani, che percorre tutta la parte nord dell’isola, ma bastava fare un chilometro per entrare in paradiso. Socotra è uno strano pezzo di Africa trasportato nel mare. In un’estensione di 3500 chilometri quadrati (poco più della Val d’Aosta) c’è tutto: una catena montuosa, con le cime coperte dalle nuvole, altopiani, canyon, distese di alberi alieni,  come il famoso “Sangue del Drago”, simbolo dell’isola, un cactus gigantesco a forma di fungo da cui si estrae un liquido miracoloso, usato come medicinale. Come tante altre specie di piante e fiori,  e anche animali, è cresciuto solo lì, quando Socotra si è staccata dalla piattaforma africana. E’ il motivo per cui L’Unesco, sperando di preservare la biodiversità di questo paradiso, ha dichiarato l’isola patrimonio dell’umanità. E poi il mare, meraviglioso. Spiagge bianche sterminate, lagune di mare turchese con dune di sabbia che sembrano colline e che il vento modella, cambiandone ogni giorno colore e forma. Su una, la famosa laguna di Qalansia, ci arrampicammo con il fuoristrada. Quando si arriva in cima lo spettacolo è commovente. Ci chiedevamo perché un paradiso del genere, che non ha nulla da invidiare alle più famose mete esotiche della terra, non facesse gola ai grandi capitali occidentali, o agli yemeniti. Negli anni seguenti il turismo è aumentato e qualche sviluppo c’è stato, compresa, pare, qualche pessima costruzione. I cambiamenti climatici stanno provocando un aumento della siccità, mettendo in pericolo diverse specie endemiche, è aumentata la popolazione e il disboscamento. Ora sono arrivati i Sauditi.

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(Sana'a)

Gli uomini e la speculazione fanno in fretta a fare disastri, ma far diventare Socotra una meta del turismo di massa non è facile. Non solo per il fatto che è impraticabile d’estate per il vento. L’isola è natura ancestrale, un Eden scorbutico. Siamo stati un intero pomeriggio su una spiaggia bianca, larghissima e  lunga a perdita d’occhio. Mohse si era sistemato indietro, tra le palme, per controllare. Non abbiamo mai capito se fosse armato. Non abbiamo mai avuto situazioni difficili, ma c’era un’atmosfera irreale, come se fossimo le persone sbagliate nel posto giusto. Passammo ore di visione incantata, soli. Vedemmo, lontanissimi, un uomo su un cammello e dei bambini che giocavano con un pallone di pezza. Ci chiedemmo se quella solitudine fosse l’unica condizione possibile per quell’isola. E se i suoi abitanti avrebbero accettato lo snaturamento della loro terra. O se sarebbero stati così attenti e lungimiranti da permettere solo uno sviluppo turistico non devastante.  La povertà è ricattabile, per non esserlo deve essere aiutata dal resto del mondo, dalle istituzioni. L’Unesco, ad esempio. O adesso l’Onu, se riuscisse a fermare la guerra.

Gli abitanti di Socotra, quando noi andammo, non sembravano innamorati dei turisti. Tornando in paese, fotografammo un’anziana, la donna gridò e alzò il dito verso il cielo invocando la maledizione divina. Dovette intervenire Mohse, per tranquillizzarla. E quando andammo all’interno ci imbattemmo in una tribù che sembrava uscita da un tempo preistorico. La guida contrattò col capo della famiglia per poter attraversare il torrente col fuoristrada, ma ovviamente non potevamo fare foto. Le donne e i bambini ci guardavano come alieni. Credo che in generale a Socotra gli occidentali sono extraterrestri di passaggio.

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(Sana'a)

All’aeroporto Valeria fu trattenuta dagli addetti della sicurezza per circa mezzora. Avevamo già la carta d’imbarco e non capivamo che succedeva. Fu sistemata senza spiegazione in un angolo appartato della sala d’aspetto. Non c’erano problemi di abbigliamento, sembrava un rito di decontaminazione. O un ammonimento che tocca a una donna occidentale, se fa un gesto che non piace. Ma non capivamo quale. Poi fu riammessa e prendemmo l’aereo. Al decollo vedemmo per l’ultima volte le dune e le spiagge bianche col turchese del mare che diventava blu. Inutile fare domande. 

L’unico problema di quel meraviglioso viaggio fu che quando torni dalle tue parti il passaporto con il visto yemenita non piace. L’anno dopo dovevamo andare a New York a trovare nostro figlio, il mio documento  marchiato “stato canaglia” era scaduto e l’avevo rifatto, a Valeria fu consigliato di “smarrirlo” e farne uno nuovo. Altrimenti niente New York. Ci sentiamo privilegiati per aver visto Socotra, perché tutti quelli che amano la natura dovrebbero vederla una volta nella vita. Sarebbe bello tornare. Magari con la pace, senza virus, con meno povertà, senza terrorismo, con un albergo decente, incrociando qualche donna yemenita a volto scoperto. Ma vorremmo rivederla nella sua bellezza, l’isola. Siamo extraterrestri.

BRUNO MISERENDINO (Nato a Roma nel 1951, inutile laurea in Storia, insegnante e poi giornalista all’Unità per 33 anni, inviato di politica per troppo tempo e per questo pre-pensionato felice. Amo la musica, anche se il violoncello non se ne accorge, alle città preferisco montagne, deserti e mare. Prima o poi andrò a vivere all’Elba. Ma devo sbrigarmi)

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