Vogelsang, il canto del cigno della Hitlerjugend
Procedendo da Colonia per stradine a carreggiata stretta,
tornanti-vortici che squarciano la foresta, dopo aver attraversato immense
distese di campi coltivati, pensiamo di viaggiare in uno spazio diverso dai
nostri abituali paesaggi italici, fitti di case quadrotte dai tetti rossi e
chiesette che montano una sull’altra.
Ma andando verso Vogelsang, dove mi accompagna Christine con
suo marito per un viaggio (mi dice) “molto speciale”, in realtà ci accorgiamo
presto che stiamo viaggiano a ritroso nel tempo. Più ci avviciniamo al Parco
Eifel, al confine fra Germania e Olanda
muovendo da Colonia, e più la macchina del tempo ruota al contrario. I suoi ingranaggi muovono nel
retroverso, sferragliano, ed io — non so perché — comincio a sentirmi oppresso.
Schiacciato.
Il tempo è opportunamente plumbeo, una pioggerellina ci tiene sulle spine. Nevischio. Sarà per quello?
I tornanti si inseguono l’un l’altro. La natura ha deciso qui di non fare una cosa dritta neanche per sbaglio. Ma finalmente si arriva, e si parcheggia in uno strano campo. C’è qualcosa che non quadra, già da quella distesa finalmente quadratica, regolare. E poi si capisce perché: in realtà è un campo carri.
Per chi ha fatto il militare, la cosa è ovvia. Carri armati. Un campo per scorribande cingolate e per addestramenti al combattimento.
Si mette male. Dove mi stanno conducendo, la mia vecchia amica e il suo compagno?
Superiamo il posto di guardia, abbandonato ma intatto. Si arriva alle officine, e alle casematte. Ho capito che siamo ai confini della realtà.
Karl mi spiega ciò che si era rifiutato di dirmi per tutto il lungo viaggio, passato a scherzare e a strapparsi l’un l’altro i ricordi di una Berlino comune, anni ’80. Soprattutto con Christine, che mi aveva aiutato non poco, quando mi ero trasferito da Roma nella vecchia capitale tedesca per frequentare la Freie Universität. Ero fresco di una tesi molto problematica su Wittgenstein, nella quale i conti con l’interpretazione ufficiale proprio non tornavano. Dovevo sapere. Andai a Berlino.
Ora però ci stavamo addentrando nel luogo (mi racconta Karl) ideato dai nazisti per l’educazione dei propri rampolli. La casta eletta del popolo superbo per eccellenza, le arianissime SS, crème de la crème, qui si era posta il problema della formazione (o meglio “forgia-zione”) dei propri delfini. Della futura classe dirigente del futuro mondo nuovo. Del Terzo Reich, per intenderci.
E qui, guardando l’organizzazione del “campus”, capivi il retropensiero e la visione del loro spinoso mondo.
È rimasto tutto intatto. Così come era 80 anni fa. Come se la gioventù bionda le cui grida echeggiavano per queste stanze fosse appena partita per le vacanze di Natale, ma dovesse ritornare da lì a poco. Ma non per questo privo di un certo intenso fascino, misto a quel senso di oppressione che è proiezione dell’anima in un ipotetico futuro: ciò che avrebbe potuto essere per sempre, e che non si è realizzato. Ma non del tutto sbagliato.
Arrivi dunque su piazzale dove c’è il ristorante oggi, ieri la mensa comune, che si appoggia su uno slargo da cui si dipartono tutti i percorsi in discesa, a terrazze: dapprima le casette, tutte uguali, degli alloggi. Alle spalle, le aule e i laboratori scientifici ove s’innalza l’augusta torre, e dove inizia l’educazione culturale. Ma solo dopo aver pensato, quasi ossessivamente, anche a quella fisica. Che a sua volta scende in gradoni verso le anse contorte di un fiume-lago, l’Obersee, che fa di tutto per assomigliare ad un serpente con le spire in bella mostra.
Digradando verso il fondo valle, ad ogni terrazza ci si imbatte in una differente attività sportiva, dalla corsa e dall’atletica leggera verso il calcio, per scendere giù all' equitazione, e ancora giù dove ci attende una piscina olimpionica.
Bello!, direte voi. Ma non è così. Quel senso vago di oppressione che provavo all’inizio cresce via via mentre scendo nel mio inferno interiore, perché capisco subito che questi sport non venivano praticati con lo spirito di De Coubertin, ma erano praticati dai lupi. Un altissimo podio, infatti, che si apre proprio sopra un cratere, lascia intravedere il Führer mentre parla gesticolando allucinato ai suoi figli biondissimi inquadrati nel prato sottostante, irraggiungibile e inspiegabile come una divinità sumera.
Mi addentro nei boschetti che si accostano pericolosamente alle aree ginniche, sempre a rischio di invaderle, e qui lo ritrovo. Sì, lui: il prototipo dell’essere ariano. Una sorta di ingegnere Prometeo degli Alien. Non più umano, giammai divino. Ma comunque impastato da natura altra rispetto a quella terrestre.
Crivellato di colpi, ferito nell’ultima battaglia, decenni or sono, quando il sipario sul volo folle del cigno nero si stava per richiudere in un gorgo di sangue e distruzioni.
Lui sta ancora lì. A braccia e gambe aperte. Il petto crivellato di colpi.
A ricordarci di una corrente sotterranea e profonda dell’Europa, un destino che ha assegnato al popolo dei Germani. Per secoli o millenni, un ruolo in antitesi dialettica con quello magnagreco e latino.
Comprendi una società da come prepara i suoi giovani ad entravi e a ricoprire i ruoli più delicati. Noi oramai siamo quasi immemori di questa funzione primaria, incredibilmente strategica, fondamentale. E abbiamo trasformato le nostre scuole in bivacchi, o in campeggi.
Lo sappiamo, di sbagliare. Ma — ciò nondimeno — sbagliamo.
Loro no.
È ora di rientrare.
Mi dico: Dio, fa che il canto del “cigno nero” non si converta nel volo della Fenice impazzita.
Noi europei abbiamo una grande responsabilità nella storia, ancora dopo l’ultimo evento che ci ha visti (tragicamente) protagonisti della storia mondiale, prima che il suo motore si spaccasse in due e fuggisse nelle direzioni opposte dell’Est estremo e dell’Ovest americano. Due nuovi imperi a confronto.
Quasi più dell’orrore esibito e spiattellato dei campi di sterminio della Shoah, qui occorrerebbe venire per meditare sull’Europa che non siamo capaci di costruire. Ripercorrendo con gli ingranaggi della macchina del tempo gli anni che vanno dal 1957, il mio anno di nascita, anno dei Patti di Roma, fino ad oggi, al presente sfuggente.
E qui, con tutta probabilità, troverete una delle risposte.
*FABRIZIO FUNTO` (Lecce, 1957. Filosofo pentito, docente mancato, è stato mandato subito a fare il guru della Realtà Virtuale e dell’Innovazione Tecnologica oltreoceano. Ci ha preso gusto. Ogni tanto tossisce qualche storia inattuale)
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