Voci e immagini dalla Vlora, la nave dei disperati che fuggì dall'Albania

di LUISA PECE*

Trent'anni fa, l'8 agosto del 1991, la nave Vlora attraccò a Bari con a bordo ventimila clandestini in fuga dall'Albania. Quel viaggio viene ricordato nelle immagini - in parte riproposte qui - di un collettivo di artisti italiani e albanesi, esposte dal 5 agosto nel Palazzo della Cultura di Durazzo

                                                                                 
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L’8 agosto 1991 i baresi, con comprensibile stupore, sgomento, incredulità, assistettero all’arrivo di una nave talmente carica di persone che sembrò quasi un miracolo che avesse potuto solcare l’Adriatico. La Vlora, così si chiamava, varata nel 1960, necessitava di imponenti interventi di manutenzione e non avrebbe potuto riprendere il mare ma, ferma nel porto di Durazzo, il 7 agosto del 1991 fu letteralmente assalita da una folla di persone fermamente decise a lasciare il loro paese, stremato da una dittatura ottusa e crudele e dai suoi strascichi di povertà e disperazione. La traversata fu veramente un viaggio della speranza, senza viveri, le riserve di acqua esaurite, condizioni igieniche impensabili. Erano più di ventimila….


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Ecco le parole della moglie dell’allora sindaco di Bari, Enrico Dalfino: “Andò subito al porto, prima ancora che la Vlora sbarcasse. A Bari non c’era nessuno del mondo istituzionale, erano tutti in vacanza, il prefetto, il comandante della polizia municipale, persino il vescovo era fuori. Quando uscì di casa però non immaginava a cosa stava andando incontro. Dopo qualche ora mi telefonò dicendomi che c’era una marea di disperati, assetati, disidratati, e aveva una voce così commossa che non riusciva a terminare le frasi. Non dimenticherò mai l’espressione che aveva quando tornò a casa, alle 3 del mattino dopo. ‘Sono persone’ - ripeteva - ‘persone disperate. Non possono essere rispedite indietro, noi siamo la loro ultima speranza’.”


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Robert Budina, regista e produttore albanese che con la sua società ha prodotto 10 tra lungometraggi, corti e documentari, ha diretto due film, una serie tv prevista per ottobre 2021 ed ha in preparazione un terzo film finanziato dal centro albanese per il cinema. Robert era sulla Vlora, quell’8 agosto 1991.

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“Avevo 27 anni - racconta - e a Tirana, la mia città, studiavo per diventare regista teatrale. A suo tempo avevo organizzato varie manifestazioni rivoluzionarie contro il regime, e mi pesava l’atmosfera in cui vivevamo in Accademia poiché non eravamo liberi di esprimerci. Volevo venire in Italia perché per me rappresentava un sogno, una finestra di libertà, non volevo darmi alla politica ma volevo essere un artista, un attore, un regista. Con due amici decidemmo di tentare la traversata, a bordo ci ritrovammo con altri amici ancora, circa una quindicina, dispersi nella folla di ventimila persone. Il capitano si rifiutava di partire per il grande carico di persone ma, costretto con la forza, alla fine salpò".IMG-20210808-WA0039jpg


"Partiti dal porto di Durazzo, restammo però per circa otto ore fermi in mare per un guasto a uno dei motori, a cui il capitano pose rimedio utilizzando acqua di mare. La nave arrivò al porto di Brindisi ma le fu impedito l’accesso. Allora il capitano fece rotta verso Bari, dove arrivammo verso le dieci del mattino. Una nave militare cercò di bloccare l’ingresso al porto ma la Vlora forzò il blocco. I militari, rendendosi conto che potevano verificarsi incidenti, decisero di aprire il blocco e arrivammo al molo di Bari. Per primi furono fatti scendere donne e bambini, che vennero portati allo stadio della Vittoria; noi eravamo sicuri che tutto sarebbe andato bene dopo che, nel marzo 1991, oltre ventimila albanesi erano a più riprese arrivati in Italia. Io, con 3-4 amici, appena sbarcato scappai per non essere portato in quella specie di 'campo' e cercammo di evitare i blocchi della polizia facendo finta che io fossi malato".


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"Purtroppo, finimmo comunque, dopo varie peripezie, allo stadio, dove restai una decina di giorni, incontrando varie personalità, tra cui La Malfa e il sindaco di Bari, che venne a più riprese per dare una mano e aiutarci. Ma le strutture governative se ne lavarono le mani, lasciando tutte le responsabilità ai soli cittadini e istituzioni baresi. La situazione era invivibile, per poter prendere da mangiare si facevano file anche di dieci ore e alla fine le autorità decisero di gettare il cibo al centro dello stadio con gli elicotteri. Naturalmente si scatenavano lotte e litigi tra tutti noi per potersi accaparrare il cibo, per sopravvivere, anche perché la polizia ci aveva lasciati soli. Il sindaco mi incaricò di parlare con gli altri perché mantenessero la calma e non provocassero incidenti che avrebbero peggiorato la situazione, già difficile. Ma niente cambiò".


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"Nel frattempo erano iniziati i rimpatri di molti, tanti, troppi di noi. Le persone venivano prelevate con la promessa di essere trasferite in altri 'campi' e invece venivano rimpatriate. Eravamo rimasti circa un migliaio. Mentre distribuivo gli aiuti che i cittadini baresi ci portavano, venni minacciato da alcuni connazionali che volevano avere più aiuti di quanto avessero diritto/bisogno. Preoccupato dalle minacce decisi con tre amici di scappare. Ne parlammo con alcuni medici, che ci aiutarono ad andare via dallo stadio e ci lasciarono alla stazione ferroviaria con 50.000 lire. Ci dividemmo, due e due, per evitare che la polizia ci rintracciasse. Incontrammo un signore che ci chiese se eravamo albanesi, cosa facevamo, da dove scappavamo. A un certo punto, a un blocco di polizia, lui scappò (e noi anche). Scoprimmo che era di nobile famiglia e che aveva il sogno di diventare un cantante, ma era agli arresti domiciliari, quindi non avrebbe dovuto trovarsi fuori casa. Però mi aiutò per oltre sei mesi, mi trovò casa e di che mantenermi".


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"Conobbi anche tanti altri amici baresi, nell’estate del 1992 riuscii ad avere i documenti e nel 1993 raggiunsi mio fratello in Veneto. In Albania non avevo avuto la possibilità di studiare ma lavorai e riuscii a mettere da parte dei soldi che, tornato in patria nel 1994, insieme a mio fratello investii in una fabbrica di salumi, dove lavorammo quasi dieci anni. A quel punto decisi che dovevo riprendere a lavorare per quello che era il mio talento e la mia passione, cioè la regia. E ora sono regista. La storia di quel giorno è narrata nel film-documentario 'La nave dolce' di Daniele Vicari”.


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Parole commoventi sono anche quelle di Eva Meksi, dell’Associazione Le Aquile di Seta (una organizzazione no-profit di donne e per le donne, che promuove la cultura, la storia e svolge iniziative a servizio e supporto della comunità albanese in Italia o all'estero): “Divento sempre un po’ malinconica, a tratti triste in questo periodo, intorno all'8 agosto. I ricordi riaffiorano, vengono sempre da più lontano ma hanno sempre gli stessi colori grigiastri, lo stesso calore soffocante e lo stesso odore nauseabondo".


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"Ho raccontato mille volte, nei minimi particolari e a tanta gente i miei giorni dell' inizio agosto del ‘91. Sembra che oramai non ci sia niente di nuovo da raccontare e invece … e invece in una scatola oramai vecchia io conservo dei bottoni colorati. Non sono solo un ricordo, sono le uniche cose che mi sono rimaste di quel viaggio, di quei giorni. Non sono solo un ricordo, sono un simbolo, proprio perché sono bottoni, come volessero tenere assieme le mie due vite".

"Quella mattina avevo deciso di mettere la mia gonna preferita, lunga, di un colore verde bellissimo, abbottonato davanti con dei bottoni colorati uno diverso dall’altro. Oggi di gonne così ce ne sono tante ma negli anni '90 in Albania era una cosa del tutto eccezionale. Avevo la fortuna di indossare vestiti belli e diversi da quelli che si trovavano nei negozi, più o meno uguali e dai colori tristi. Amavo la mia gonna con i bottoni colorati e ci tenevo tanto. Non sapevo quando l’ho indossata che quella gonna mi avrebbe accompagnata nel viaggio più difficile e sporco della mia vita. Mi sono dimenticata della gonna, non pensavo più se si sporcava o si strappava, era diventato un abito e una coperta oramai per due giorni. Ero scappata dall’Albania salendo sulla nave con una corda, ero scappata dalla nave scendendo con la corda, ero scappata dal porto affollato con indosso sempre la stessa gonna ma oramai di colorato erano rimasti solo i bottoni".


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"Al pronto soccorso dell’ospedale, riesco a fare una doccia e mi danno dei vestiti 'nuovi'. La prima volta della mia vita che indossavo vestiti non miei. Non ho avuto nemmeno una sorella per scambiare i vestiti. Ma ero felice perché odoravano di pulito. Ho lasciato tutto il resto ma la gonna con i bottoni colorati l’ho avvolta così sporca com’era e l’ho portata con me insieme a dei panini e bottigliette di acqua per fare ritorno allo stadio. Dopo una notte insonne e una giornata infernale ci si preparava per l’ennesima fuga, ahimè dovevamo scappare di nuovo, questa volta dallo stadio".

"Non potevo portare niente con me, soltanto i documenti, i 50 dollari e nient’altro. Niente, nemmeno quella piccola sacca dove tenevo la mia gonna e l’ultimo panino. Si doveva buttare tutto lì in un angolo nei meandri dello stadio, anche la mia gonna con i bottoni colorati. 'Che fa, siamo in Italia, sai quante gonne potrai comprare'. Ma quella era la mia gonna preferita, sembrava mi strappassero un pezzo della mia vita, della mia esistenza, della mia personalità. Che sciocca ragazzina, con tutto ciò che avevo passato stavo attaccata ad una gonna. Era più forte di me: in un attimo mi sono messa velocemente e con tanta forza a strappare tutti i bottoni, tutti anche quelli piccoli e li ho messi in tasca prima di buttare via la gonna. Poi via di corsa a fuggire..." 


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"I bottoni colorati li ho sempre con me. Mi ero promessa di attaccarli in qualche vestito più in là … sono nella scatolina oramai vecchia".


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(Eva Meksi)


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Nadela Bajrami, una cara amica albanese da molti anni in Italia, mi scrive: “La nave dolce ci trovò scombussolati. Faceva impressione vederla dalle immagini della RAI mentre eravamo a casa nostra a Tirana. In Italia c’era lo sgomento, da noi la paura. Di quella che solo la massa incontrollata può creare. Personalmente non mi è mai piaciuta quell’immagine, quell’evento/tragedia e ho sempre evitato di soffermarmici. Forse per me rappresenta l’immagine del fallimento di un’ideologia in cui credevo (e in cui credo ancora). Nessuno parla del dolore che c’era in noi dall’altra parte della costa. Ragazzi e ragazze in fuga verso l’incognito, guardando la morte in faccia e danzando con lei. Un dolore che colpisce tutte le madri, le sorelle, tutti, vedere parte dei loro figli e fratelli (quindi una parte di loro stesse), ammassati, umiliati dal tempo e destinati a recitare lo stesso ruolo dello stesso scenario che la storia ti presenta brutalmente in faccia. Un ruolo che, ahimé, trova sempre ottimi 'attori', tuttora.”

 

*LUISA PECE (nata a Bologna tanto tempo fa, malata di adolescenza senile, appassionata viaggiatrice, attrice per diletto, un passato lavorativo tra i libri - Il Mulino - , poliglotta, curiosa come un gatto rosso)


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