Ventesima tappa, Verbania-Alpe Motta - Lo strappo alpino, ultimo scontro fra i big

testo e foto di ROBERTO ORLANDO*

La cima del Mottarone è proprio lì di fronte con la sua grande antenna che sbuca tra le nuvole. Ora la vedo da Verbania, sulla riva opposta del Lago Maggiore, ma ricordo perfettamente quando salii lassù per la prima volta: mi sembrava di essere un pellegrino attratto da una forza soprannaturale verso il totem della modernità, quel gigantesco traliccio delle telecomunicazioni che svettava sulla sommità della montagna. L'effetto era amplificato dal fatto che intorno a me decine di altre persone risalissero il pendio come automi incantati dallo stesso richiamo. Fino alla base del cucuzzolo tondeggiante del Mottarone ero arrivato in auto, poi c'erano quelli che salivano con la funicolare.  L'impianto era un fiore all'occhiello per Stresa: la funicolare, inaugurata nel giugno del '70,  era tra le più lunghe d'Europa. Dico era anche se tecnicamente esiste ancora: il mio è un puerile tentativo di rimozione del dolore. 

Perché oggi dalla riva di Verbania penso solo con dolore a quelle cabine rosse che prima facevano parte del paesaggio, uno dei più belli al mondo: vista a 360 gradi sulle Alpi dominate dalla vetta del Rosa e su sette laghi tra cui spiccano il Lago Maggiore con le Isole Borromee proprio lì sotto e il Lago d'Orta. 


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(Il lungolago di Verbania)


Dopo la tragedia della funicolare a Verbania, che aspetta la partenza della tappa del Giro d'Italia, si parla di quelle 14 morti e di quel bambino unico sopravvissuto, in bilico tra la vita e la morte nell'ospedale infantile di Torino Regina Margherita. Del Giro non chiedo nemmeno: le vetrine dei negozi addobbate con biciclette e magliette colorate di rosa sono spente e questo buio spiega già tutto. Quello che sembra inspiegabile passeggiando a Verbania, come a Stresa del resto, è la causa della tragedia. E infatti la spiegazione risiede altrove, non è contemplata tra le attitudini del luogo. Perché qui sembra di essere in Svizzera che è proprio dietro l'angolo, anzi questa è già Svizzera, forse persino meglio: è tutto perfetto. Le aiuole del lungolago sono verdissime e rasate, gli alberi potati per dare un senso al paesaggio, le barche tutte linde e ben allineate sulle rive, le facciate delle case hanno colori brillanti, anche quelle delle ville che immergono la punta dei piedi in acqua. A terra, sulla passeggiata ma anche in strada, sull'asfalto, non vedi nemmeno un mozzicone di sigaretta, una cartaccia. Sembra tutto nuovo, intatto, funzionante, efficiente. E allora come ti spieghi che sia precipitata la cabina della funicolare? Proprio sull'altra riva del lago, a Stresa, la città gemella forse più piccola, ma certamente più nota tra le località turistiche di pregio. 


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(Il lungolago di Verbania)


Verbania, che è capoluogo della provincia del Verbano Cusio Ossola, soltanto di recente ha ripreso il suo posto nell'immaginario del turista d'élite della Vecchia Europa. Perché per quasi due secoli questa è stata (anche) ricco caposaldo dell'industria tessile: pensa che nella prima metà del secolo scorso su 17.500 residenti 3.500 erano occupati nell'industria, senza contare l'indotto. Ma dopo la crisi cominciata negli anni Settanta, gli abitanti dei dodici borghi che costituiscono la municipalità di Verbania hanno stabilito, probabilmente una volta per tutte, che il loro vero patrimonio più prezioso è questo paesaggio da sogno. 

Verbania è un comune giovane: nasce nel 1939 per Regio decreto dall'unione di due dei dodici borghi che la compongono ora. E si chiama Verbania, sempre per decreto, in ossequio al nome latino del Lago Maggiore, cioè Verbanus. 

Viene definito comune sparso, o meglio ancora - come certi alberghi di tendenza - comune diffuso: i suoi borghi, ognuno con una sua chiesa e una sua piazza, declinano verso il lago sparpagliati su un promontorio a forma di triangolo equilatero, pure lui praticamente perfetto. Di Verbania, arrivando da Stresa attraverso Baveno e Friolo, al primo impatto ti colpisce la placidità, la calma, anche se il cielo è cupo e il riflesso del lago indossa l'abito scuro. I ritmi sono più lenti, in auto sul lungolago si va a 30 all'ora non soltanto perché c'è il limite di velocità e la pattuglia della polizia municipale passa di continuo. Forse è l'ondina placida del lago che scandisce il ritmo delle giornate. Arrivare nella piazza del Palazzo di Città, che si trova nel borgo di Pallanza, è un piacere che induce alla meditazione. Fino a raggiungere, sempre costeggiando, il Mausoleo di Luigi Cadorna, comandante dell'esercito italiano fino alla disfatta di Caporetto. Il generale era nato qui nel 1850 e il mausoleo che ricorda lui e tutti i caduti della Prima guerra mondiale è opera di Marcello Piacentini, l'architetto del ventennio, l'inventore del Neoclassicismo. Poco oltre si intravede l'Isolino di San Giovanni, tecnicamente un'isola, anche se sono davvero poche le bracciate d'acqua che lo separano dalla terraferma. Qui si stabilì dal 1927 al 1952 il parmense Arturo Toscanini. Una busto anche per lui sul lungolago di Pallanza.     


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(Verbania, il mausoleo di Cadorna)


A Verbania però si commemora (con il Parco della Memoria e della Pace e la Casa della Resistenza) un altro episodio storico, per il quale la città è stata insignita della medaglia d'oro della Resistenza: l'eccidio di Fondotoce. Il 20 giugno del 1944 le SS fucilarono 43 partigiani dopo averli costretti a sfilare per le vie di Intra, Pallanza e Suna mostrando un cartello che diceva: "Sono questi i liberatori d'Italia oppure sono i banditi?". Uno di loro, rimasto solo ferito, si salvò fingendosi morto e fu poi curato e nascosto da un gruppo di donne di Fondotoce. 

Per tornare invece agli aspetti turistici, Verbania ha altre due carte forti da giocarsi e se le gioca molto bene. La prima è il giro delle Isole Borromee, che condivide con Stresa e altre località del Lago Maggiore. Ma le isole sono mondo a sé stante, per così dire. Intanto due di loro, Isola Madre e Isola Bella, sono proprietà privata della famiglia Borromeo fin dal XIV secolo. La terza isola, che si chiama dei Pescatori, ma sarebbe meglio definire dei Ristoratori, è l'unica pubblica e gli orari ei battelli fanno in modo che tu possa essere lì all’ora di pranzo durante il tour.


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(Il cipresso del Cashmir sull'isola madre)

 L'Isola Madre di solito è quella che si visita per prima. E’ la più grande nonché la preferita di Gustave Flaubert. Il palazzo Cinquecentesco è circondato da un giardino all'inglese dove grazie al clima particolarmente mite trovano accoglienza piante di mezzo mondo tra cui un gigantesco cipresso del Cashmir che una tromba d'aria aveva abbattuto e che comunque è riuscito a riprendersi, grazie anche al sostegno di robusti cavi d'acciaio che lo hanno ancorato ancor più saldamente al suolo. Il palazzo è da vedere e ti segnalo, tra le curiosità, la collezione di marionette e teatrini annessi utilizzati per intrattenere i nobili pargoli di famiglia, ma anche gli adulti e magnanimamente perfino la servitù. A volere tutto questo, in principio, nel 1502, fu Lancillotto Borromeo, ma a fine secolo l'artefice della trasformazione in termini di sontuosità e eleganza sarà Pellegrino Tibaldi, architetto di fiducia di San Carlo Borromeo, nientemeno. 


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(Palazzo Borromeo sull'isola Madre. Il teatro delle marionette)


Isola Bella invece è un'esplosione di natura e anche di arte a scopo propagandistico. Tieni conto che queste erano dimore estive e che tra gli scopi della famiglia c'era sicuramente  quello di impressionare i potenti d'Europa, in tutte le epoche. Il palazzo viene realizzato nella prima metà del 1600, così come il giardino (i lavori sono durati 40 anni) sul quale troneggia a bordo lago il cosiddetto Teatro Massimo, trionfo barocco composto di statue, fontane, obelischi e piante di ogni genere. In cima al Teatro c'è la scultura dell'unicorno montato da un prode cavaliere (simbolo araldico dei Borromeo) e tutto intorno alla scena si aggirano pavoni bianchi che io non avevo mai visto prima e che non esitano a pavoneggiarsi a favore di smartphone. Personalmente non mi sono piaciute le grotte del palazzo, alle quali peraltro molti altri visitatori tributano invece gridolini di meraviglia. Si tratta di sei ambienti a livello del lago progettati da Vitaliano VI Borromeo, ritenuto il vero padre dell'isola, in cui archi, volte e pareti sono ricoperti di conchiglie e di sassi arrotondati bianchi e neri con il chiaro scopo di trasportare gli ospiti in un fresco (questo sì) e misterioso mondo marino sommerso. 

Ora però lasciamo le isole e torniamo sul percorso del nostro Giro d'Italia, penultima tappa, da Verbania, appunto, fino ad Alpe Motta, che si trova due passi dopo - passi alpini, sia chiaro - a 164 km di distanza. Ci sarà selezione brutale prima della volata finale a Milano. L'inglese Simon Yates che ieri ha vinto la tappa. La maglia rosa - il colombiano Egan Bernal - e il terzo incomodo, il siciliano Damiano Caruso che ha dimostrato di saper tenere il passo in scalata, dovranno fare i conti con pendenze non sempre feroci, ma che non finiscono mai. E poi, quando tutto sembra finito, c'è ancora una rampa da fare in piedi sui pedali: tre km di fuoco fino al capolinea ai piedi della Madonna d'Europa.

Però prima di andarcene ti devo segnalare altre due cose da vedere assolutamente. Una è Villa Taranto che oltre a essere un paradiso per gli appassionati di botanica ha anche una gran bella storia. Che è questa: nel 1931 il capitano scozzese Neil Mc Eacharn acquista la villa ottocentesca e il suo giardino con lo scopo di creare un ambiente dove far crescere, grazie al clima ideale, molte varietà di piante provenienti da tutto il mondo. E ci riuscì, evidentemente. Alla sua morte, nel 1964, donò tutto allo Stato italiano con l'unica condizione che la sua opera venisse perpetuata. Oggi su una superficie di 20 ettari vivono ventimila specie di piante per osservare le quali studiosi e appassionati di botanica arrivano qui fin dall'Australia. Perché si chiama Villa Taranto? C'entra la Puglia? Sì. La villa si chiama così in omaggio a un prozio del capitano, Étienne Jacques Joseph Alexandre Macdonald, nominato da Napoleone in persona duca di Taranto. Ora sullo scranno del duca siede il prefetto del Verbano-Cusio-Ossola e la villa non è pertanto visitabile.  


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(Il Maggiore a Verbania)


Poco oltre Villa Taranto, c'è la chiesa cinquecentesca di Madonna di Campagna, che è monumento nazionale e il cui campanile risale addirittura al 1076. Anche questa ha una bella storia: nasce come cappella, nel Cinquecento diventa santuario, poi parrocchia di due borghi, Suna e Pallanza. Ma siccome non si è mai visto un solo campanile per due paesi i parrocchiani non sono mai andati d'accordo, tanto da chiedere la separazione consensuale al vescovo di Milano. E così fu che ogni comunità ebbe la sua chiesa. 

Sempre lì vicino, un po' prima di Intra, c'è “Il Maggiore”, teatro che sia per la posizione, vicino all'acqua, sia per lo stile architettonico ricorda un po' quello iconico di Sidney. E' stato inaugurato nel 2016, è definito un centro eventi e il cartellone di quest'anno è piuttosto ricco: si va da Dante secondo Michele Mirabella a Elio (delle Storie Tese) che canta Iannacci, per fare un paio di esempi. 

Tra i vicoli di Pallanza ci sarebbe a dire il vero anche il Museo del Paesaggio, che andrebbe visitato anche soltanto per l'originalità del nome: "Racconta un po' la nostra storia", mi spiega la titolare del mio albergo. Al piano terra di Palazzo Viani, per esempio, ci sono tutte le opere dello scultore impressionista Paolo Troubetzkoy , nato a Intra da madre americana e padre russo.  


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(Cannobio)


Ora però è tempo di lasciare Verbania e proseguire sulla rotta del Giro. Ci attende una lunga sgroppata lungo il lago. In realtà io già mi fermerei a Cannobio, che se fosse un poco più vicino sarebbe un altro borgo di Verbania, anche se le caratteristiche urbanistiche e architettoniche  sono molto diverse dalle altre località del Lago Maggiore: qui, e solo qui, i palazzi cinquecenteschi si affacciano direttamente sul fronte lago. Cannobio è una delle località più apprezzate della zona, tanto che dal 2006 si può fregiare ufficialmente dello status di "Città" proprio grazie alla sua intraprendenza nel ramo turistico-economico.

L’Italia finisce una manciata di km dopo. E comincia il Lago Maggiore secondo gli svizzeri. Il paesaggio cambia di colpo dopo la barriera della dogana. Le case lungo il percorso sono prevalentemente moderne, basse, di vetro e cemento, di colori tenui e uniformi. Va così senza emozioni per un bel pezzo, almeno fino a Brissago, dove il paesaggio torna a essere più “italiano”. Del resto il comune ha subito l’influenza del dominio dei Visconti fino al 1541. Ora Brissago è “comune patriziale”, istituzione elvetica per la quale ogni famiglia originaria del luogo ha la responsabilità della manutenzione del territorio. Anche Brissago ha le sue isole, con tanto di rigoglioso giardino botanico con una storia analoga a quella di Villa Taranto. Solo che qui i protagonisti non sono scozzesi, ma irlandesi, russi e tedeschi. Ora le due isole sono di proprietà del Canton Ticino: sull’Isola Grande (o di San Pancrazio), oltre al rigoglioso parco botanico e ai resti di una chiesa del XIII secolo, c’è anche un centro pubblico per attività scolastiche; l’Isola Piccola (anche detta di Sant’Apollinare) invece è stata sempre lasciata alla sua natura e tracima letteralmente di vegetazione spontanea. 

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(Il Valico di San Bernardino)

Di corsa si arriva ad Ascona, che a me ricorda un modello della Opel, ma che in realtà è famosa per un altro motivo, oltre al caratteristico centro storico dalle facciate coloratissime che si riflettono nelle acque del lago. Qui dietro, sul Monte Verità, agli inizi del Novecento fu fondata una singolare e eterogenea comunità, il Sanatorium, con uno stile di vita di naturista e vegetariano ispirato alla Società Teosofica. Nella lista degli ospiti della comunità nel corso dei decenni si trovano pure i nomi di Hermann Hesse e Rainer Maria Rilke.

Passato il fiume sei a Locarno, città moderna e rutilante che spezza al primo impatto l’atmosfera rilassata che mi ha accompagnato fin qui. Locarno è città di Festival (di musica e di cinema), tanto che c’è pure una via in pieno centro dove, proprio come a Los Angeles, si trovano le impronte delle mani, e talvolta anche dei piedi, delle star della musica mondiale, da Sting a Laura Pausini. Ora stanno risistemando l’allestimento di questa Walk of fame, ma i calchi in bronzo torneranno presto al loro posto. Arrivato a Locarno ti devo per forza raccontare questa curiosità. Qui le varie località che si susseguono si contendono il primato di punto geografico più basso della Svizzera: Brissago dice 197 s.l.m. e rivendica il record, ma le sue isole si dichiarano a 193,5, e ci si mette pure Ascona che a 196 sostiene comunque di essere in testa. Ah beh, dicono a Locarno, non c’è partita, noi siamo a 190. Non ho l’altimetro con me, quindi sorvolo con un sorriso. Però se ti va ci fermiamo a pranzo perché qui fanno il piccione alla locarnese e anche un infuso particolare a base di capelvenere che naturalmente si chiama “capiler”. 

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(Le prese d'aria del tunnel di San Bernardino)


Bernal e compagni tra poco lasceranno il lago per proseguire monotoni in pianura verso Bellinzago e oltre: Arbedo, Lumino, Roveredo da dove si incominciano a vedere le montagne ancora innevate che scintillano di un bianco appena ridipinto. Presagio che la “passeggiata” è finita. Da qui in poi comincia la selezione. I big del Giro dovranno fare i conti con due passi alpini dove all'improvviso cambia tutto: pendenza, tipo di percorso, temperatura e paesaggio.

A un certo punto, a Lostallo (pubblicità ingannevole, non c’è pausa per la corsa) dopo una curva un muro di montagne irte come abeti chiarisce il concetto. E a Mesocco, sul breve tratto di pavé che fodera la via principale del borgo, si comincia a salire davvero verso il passo del San Bernardino. Nel paese omonimo ci si arriva pure con l’autostrada: la valle è stretta e io sinceramente non capisco come faccia a starci un’autostrada lì in mezzo, eppure ci sta e quasi non si vede. Comunque io salgo per la via del Giro e non voglio pensare a quanto dura sarà la selezione. Fosse per me al terzo tornante già mi fermerei. Anzi, accosto l’auto e mi fermo davvero. Perché qui il paesaggio è incantato. Non ci sono edifici di nessun tipo, solo la strada, le montagne e la neve a chiazze sui pendii. Silenzio assoluto, parla soltanto il vento, anzi sussurra. La strada si arrampica un tornante dopo l’altro, la pendenza all’inizio non è esasperata ma crescerà fino al 10 per cento. E soprattutto la salita non finisce mai: sono circa 30 km. 

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(Il passo Spluga)


Prima del passo incrocio un paio di astronavi aliene di cemento armato. Devo studiarci su e smanettare un po’ sul web per sapere che si tratta di creazioni terrestri: sono le prese d’aria del tunnel del San Bernardino e sono così alte e riparate da strutture in calcestruzzo per evitare che la neve finisca dentro la galleria. Poi arrivi in cima e un cippo ti avverte che sei al valico: quota 2.066 metri, nevica e fa un freddo becco. C’è pure il “Ristorante S.B. ospizio” ma è chiuso, e qualche sparuto compagno di scalata celebra l’impresa (facile per noi che siamo saliti in auto) con una foto ricordo. 

Dopo un breve tratto pianeggiante, la strada scende a picco verso valle. La pendenza è brutale, impossibile comunque prendere velocità perché i tornanti sono stretti e ravvicinati: si affrontano meglio con gli sci che con l’auto. Nemmeno il paesaggio riesce a distrarti dalla guida e così rischi di perderti qualcosa: meglio fermarsi ogni tanto, se gli occhi non sono ancora sazi.

A valle, verso Hinterrhein, ci si infila in mezzo a svincoli autostradali e sottopassi da attraversare e poi il paesaggio torna ad essere rapidamente alpino, la valle si stringe e da Splugen si ricomincia a salire. La strada carrozzabile fu disegnata da Carlo Donegani tra 1818 e il 1822. E’ lo stesso architetto dello Stelvio. E si vede: un tornante dopo l’altro in mezzo alle creste innevate si arriva ai 2.115 metri di quota del passo. Qui intorno c’è anche la Via Spluga, lastricata dai romani nel I secolo per mettere in collegamento Milano con Lindau. All’epoca si chiamava Via Aurea perché da queste parti c’erano diverse grotte aurifere (io non le ho viste, forse andavo troppo di fretta). Per 1.700 anni è stata una via di comunicazione fondamentale per i mercanti e pure per gli eserciti. Anche per quello di Napoleone, guidato proprio dal generale McDonald, al quale il pronipote a Verbania ha dedicato Villa Taranto e di cui ti ho parlato più sopra. Fu una traversata alpina tragica, ma consentì ai francesi di invadere l’Italia.   


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(L'Alpe Motta)


Per me invece l’obiettivo è ben più modesto e mi costa fatica soltanto pensare come i campioni del Giro affronteranno questi tornanti stretti e ripidi fino al passo dello Spluga e poi di nuovo giù tra i prati ancora bianchi di neve fino a Madesimo, quasi al traguardo. Perché a Madesimo, che è il comune d’Italia più lontano dal mare – siamo a 294 km dal Mar Ligure – è in agguato quella che io definisco una vera e propria cattiveria degli architetti del Giro. A Madesimo c’è ancora uno strappo da fare prima di giungere alla fine della tappa, che si trova a quasi tre chilometri, tutti in salita, fino al piazzale da cui si vede, tutta dorata di oro vero sullo sfondo di una vetta innevata, la Madonna d’Europa, una grande statua inaugurata nel 1958 a duemila metri di altitudine, sulla cima della Serenissima. Vado a vedere pure quella, attratto per giunta dalla segnalazione turistica che indica il Lago Azzurro. Il vate d’Italia Giosuè Carducci lo amava tanto da venire a Madesimo per le vacanze estive per nove anni di fila dal 1888 al 1905. E tanto da dedicargli una poesia: 

 “Nè con un raggio il sol, nè timida un´anima d´aura/rincrespa il velo puro de l´acque. S´ode/lento di quando in quando tinnire il campan de le vacche/sperse nel pasco raro tra´ larici alti./Quando divenni io qui? Sospese giá l’ora il suo passo/od io giá vissi spirito errante qui?”


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(L'ingresso a Madesimo)


Ecco, appunto, proprio qui dovrebbe essere il Lago Azzurro, non lontano dalla Madonna d’Europa. Però io non lo vedo e infatti non c’è. Il lago è come un’araba fenice: privo di immissari e emissari, rinasce soltanto d’estate e ora pertanto è asciutto. Pertanto mi trovo un po’ deluso al capolinea e non mi resta che riavvicinarmi al mio Mar Ligure così lontano. Lascio che siano Bernal, Yates e Caruso a proseguire verso Milano. E vinca... chi non si è lasciato distrarre dal paesaggio, impresa davvero improba.  

Nella discesa verso valle, un po’ prima di Madesimo, paese di 500 anime con una naturale vocazione per gli sport invernali, incrocio uno striscione vergato a mano: “W la fuga”. Mah, io tutto sommato mi fermerei anche una settimana.


*ROBERTO ORLANDO (Nato a Genova in agosto, giornalista professionista dal 1983. Ultimo capocronista del Lavoro. Dopo uno scombinato tour postrisorgimentale che lo conduce in molte redazioni di Repubblica è rientrato tra i moli della Lanterna. Viaggia, fotografa e scrive. Meno di quanto vorrebbe)

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