Venezuela - 3) Il mondo perduto di Canaima

di MANUELA CASSARA'*

Inizio con una domanda e non è una domanda accademica: Quanti si sono fatti la doccia sotto una cascata alta 1000 metri?

Risposta: pochi. Ma io sì. Io l’ho fatto.

Nella pozza sotto la cascata del Salto Angel, quel salto alto un chilometro. Se vogliamo proprio essere precisi, pare che i metri siano solo 807, ma c’è anche chi scrive 979, quindi che si decidano. Comunque un bel salto, in caduta libera dall’Auyan Tepui, detta anche “la Montagna del Diavolo”.

 Auyan Tepuy jpeg

(L' Auyan Tepui)

D’accordo, era la stagione secca, la cascata non aveva la portata di quelle del Niagara, l’acqua scendeva come da un rubinetto otturato e la pozza sottostante, color orzo annacquato, mi arrivava  solo alle ginocchia, ma sembrava sgorgata da un ghiacciaio. Per dirla tutta è stata una scelta di sopravvivenza. Come vedremo.

Andiamo con la partenza: il 10 luglio del 2000, perché così sta scritto nel mio inconfutabile diario di viaggio. Da Puerto Ordaz, capitale dello stato federale di Bolivar, che se non hai interessi in ferro, alluminio e metalli vari, o se non devi prendere un volo per Canaima - l’aereo è  l’unico modo per arrivarci -  la eviti. Metto agli atti che avevamo scelto l’albergo Residencia Torè, con il quale il tempo è stato benevolo. Vorrei anche ricordare che la città prende il nome dall'ennesimo esploratore spagnolo, all’ennesima ricerca del mitico El DoradoDiego Ordaz, a suo onore il primo europeo a realizzare una carta topografica dell’Orinoco, e questo nel 1530.

I tre confini del Roiramajpeg


Canaima è un piccolo insediamento, porta del Parque Nacional di 30.000 chilometri quadrati, dichiarato Patrimonio dell’Umanità nel 1994. L’atmosfera è quella descritta nel Mondo Perduto di Sir Arthur Conan Doyle: l’aria umida, le nuvole basse, la giungla impenetrabile. Un territorio misterioso, dal quale si ergono strane formazioni rocciose, i tepui, detti anche “casa degli dei” dai locali. Pareti verticali e cima piatta, la maggior parte sono ostici e inesplorabili, cosa che ne ha preservato l’habitat e la fauna: scimmie satanasso, armadilli e formichieri giganti, giaguari, aquile arpia. Persino la vegetazione è unica ed endemica. Tra le piante autoctone, tra cui alcune meravigliose orchidee, tante, quelle carnivore hanno sviluppato una loro minacciosa capacità di sopravvivenza. Il tepui più famoso è il Cerro Roraima, una formazione alta 2800 metri, al confine con Guyana e Brasile. Nell’idioma degli indios Pemones significa “la madre di tutte le acque”. Un luogo lunare, umido, spettrale, avvolto nelle nuvole, così remoto, così a lungo inesplorato che, basta guardarlo per pensare quanto Jurassic Park sia una storia plausibile, dopo tutto. Si raggiunge unicamente con un trekking di 3 giorni a misura di Indiana Jones: spedizioni autosufficienti, dai costi abbastanza abbordabili, che garantiscono cibo e portatori, per gente che, oltre alla voglia, ci deve avere il fisico. Nel caso ve lo domandaste, chiaro che no, noi non ci siamo stati, ma non poteva non essere nominato.


Il Waku Lodgejpeg


Ne consegue che le suddette informazioni non siano farina del mio sacco. Arrivano dal web. Frutto del mio sacco sono invece le preziose e futili chicche a seguire. Numero uno: il Parque è ben frequentato dagli attori di Hollywood. Tra gli illustri visitatori, e lo so per fonte certa: Robert De Niro, Naomi Campbell, Don Johnson, Antonio Banderas. E chissà quanti altri. Numero due, oltre a noi, ci sono stati l’Imperatore Hirohito e Sofia, ex regina di Spagna, che però è arrivata in elicottero, quindi non conta.

Noi avevamo scelto una sana via di mezzo. Dopo una prima notte al Parakaupa Camp, che in retrospettiva mi sembra un Relais&Chateaux, eravamo partiti in canoa per il nostro trekking di due giorni e una notte.

L’arrivo all’accampamento senza nome, forse perché una baracca che non se lo meritava, era stato condito dalle affascinanti storie sul Salto Angel, raccontate con dovizia di dettagli dalla nostra guida, Jean Louis.

La lagunajpeg


Quella più conosciuta riguardava la sua scoperta, fatta durante un casuale sopralluogo nel 1933 da Jimmy Angel, un personaggio che meriterebbe più di poche righe. Angel, un pilota statunitense per il quale l’avventura era uno stile di vita a tempo pieno, quel giorno era in cerca di una possibile miniera, ma soprattutto era sulle tracce di un sogno che lo avrebbe accompagnato fino alla fine del suoi giorni: trovare il Golden River. Spinto dalla sua ossessione, nel ’37 era tornato sull’AuyanTepui, riuscendo ad atterrare in cima; ma nel tentativo  il piccolo velivolo si era rotto, si era impantanato e Angel non era stato più in grado di ripartire. I suoi passeggeri, Jimmy, la seconda moglie e due amici erano stati costretti a farsi 11 faticosi, pericolosi,  giorni di marcia per tornare al posto abitato più vicino, Canaima.

La nostra guida era un bravo affabulatore, ma la storia che lo entusiasmava di più, e quella che aveva affascinato di più anche me, era quella di Alejandro, Aleksandrs Laime, un esploratore lettone, famoso per essere stato il primo a raggiungere le cascate via terra. Nato a Riga nel 1911, fin da adolescente era stato un tipo alquanto avventuroso; a 15 anni aveva traversato il Baltico, a 16 era andato a Parigi, poi a Marsiglia da lì in Egitto, dove aveva vissuto alcuni anni, mentre i genitori cercavano inutilmente di convincerlo a tornare a casa, mandandogli ripetutamente soldi per il biglietto.

La pozza del bagnojpeg


Si era trasferito in Venezuela nel 1940, lavorando dapprima come topografo, poi per una società petrolifera. Arrivato a Canaima nel ‘42, ci sarebbe rimasto fino alla morte, a 85 anni. Una fine, la sua, cinematografica, adatta ad un avventuriero: un attacco di cuore mentre si scolava un drink nel Waku Lodge di Canaima, che oggi fa ancora la sua bella figura.

Negli anni si era dato da fare. Si era sposato con una certa Vilma, si era stabilito in una delle tante isolette sul fiume, Isla Orchidea; con la sua esperienza di topografo, aveva mappato la zona e dato il nome al fiume Gauja, a ricordo di quello omonimo nel suo paese natio. Assieme ad altri europei e a un certo Charles Baughan aveva aiutato a realizzare il primo campo base a Canaima, contribuendo a costruire la pista d’atterraggio e degli edifici per ospitare i futuri turisti.  Nel 1949, assieme alla spedizione di Ruth Robertson, una fotogiornalista del National Geograhic, aveva raggiunto la base del Salto Angel. Nel ‘55 si era arrampicato fino alla cima dell' Auyan Tepui e era riuscito a raggiungere il Flamingo, il relitto di Jimmy Angel, quello che verrà poi  recuperato, con un elicottero solo nel 1970 e che ora è in bella mostra nell’aeroporto di Ciudad Guayana.

Parakaupa Campjpeg


Il nostro viaggio in lancia era proseguito tranquillo, privo di suspense, con un piacevole interludio: un bagnetto in una delle tante cascatelle incontrate durante il percorso. Ricordo l’incredibile colore di quell’acqua, nuovo per me, un fresco brodo color tabacco, carico di tannino, che mi aveva lasciato una pelle liscia come quella di un bebè.

La notte in amaca era stata indimenticabile. Le istruzioni che ci avevano dato erano chiare, per dormire dovete mantenere un’inclinazione di 45° così da stendere sia le gambe sia l’amaca. Gianni, il beneamato fotografo, che è pur sempre uno spirito libero, aveva optato per una posizione fetale, abbracciato alla sua amata Canon. Per proteggerla. Visto come si era svegliato l’indomani, non ve la consiglio. Io, diligente, ero sopravvissuta alla nottata, non fosse stato per la vescica messa a dura prova dalla temperatura notturna e da quel discolo di Freddie, un botolo peloso ma affettuoso, che mi aveva adottata, determinato a condividere il mio precario giaciglio.

Alle 7,30, mentre ci stavamo godendo una ricca colazione all’inglese corroborati da un’ottima cioccolata calda, avevamo visto sbarcare, equipaggiati in stile Chamonix, gli amici milanesi, che facevano il nostro viaggio in parallelo, ma con un più alto e costoso livello di comfort. Cosa per la quale non avrebbero mancato di sfotterci per tutta la durata della vacanza.

villaggio indiosjpeg


Per l’escursione al Salto Angel le sistemazioni in lancia erano state, però, molto democratiche. Malridotta la nostra, malconcia la loro. Le lance mantenevano una distanza di sicurezza, ognuna controllata da due indio che agivano in tandem e comunicavano a segni. Sulla nostra: davanti Natu, dietro Jean Louis, uno che sapeva il fatto suo, anche nel momento del bisogno. Il problema erano non tanto, o meglio non solo le rapide, quanto la scarsa portata d’acqua. Acqua che, essendo marrone, a tratti color sangue, impediva di vedere il fondo. Su di noi volteggiavano, alti, degli avvoltoi, che sembravano interessati al nostro procedere. Non un buon auspicio.  In basso, quasi fastidiosi, dei colibrì. Le due ore di navigazione erano passate zigzagando tra isolotti ricoperti di un muschio talmente verde da sembrare fluorescente, con un momento avventura quando ci eravamo incagliati. Costretti ad alleggerire l’imbarcazione, il primo a sacrificarsi era stato Natu. L’aveva seguito baldanzoso anche Jean Louis, ma per disincagliarci si erano dovuti immolare anche quattro aitanti ragazzoni americani e un tizio mingherlino di Brescia. Noi donne, forti del nostro più sostanzioso lato B, che aveva valenza di bilanciamento, eravamo state risparmiate e piazzate in posizioni strategiche.

Avremmo saputo solo dopo, dagli amici milanesi, che la loro lancia si era prima incagliata, poi inclinata, poi pure rovesciata, facendo fare un estemporaneo bagno al suo carico di giapponesini, intabarrati in una ridicola mise da jungla post Chernobyl, cappello con zanzariera, scarpe con soprascarpe antiscivolo, guanti e gilet color fluo.

Mise Giapponesejpg 


Non un centimetro scoperto.  E tutti, proprio tutti, donne e ragazzini inclusi, erano stati costretti a scendere e a lottare contro la corrente, in quel punto fortissima. L’amico milanese che, nelle tasche del suo gilet tagliato per l’avventura, aveva alloggiato un prezioso pacchetto di sigarette, un pasciuto portafoglio, le sue carte di credito e pure il passaporto, l’aveva presa bene e ci aveva intrattenuto con il racconto del suo eroico intervento mentre, riuniti, bivaccavamo cuocendo i nostri spiedini di pollo, cercando di asciugare il salvabile.


Piacevoli sostejpeg


Una volta approdati, rifocillati, riscaldati, avevamo scoperto che ci aspettavano 5 chilometri di passeggiatina nella jungla, per arrivare sotto la cascata. Di tutto riposo: saltellando nel fango, scivolando sulle foglie, inciampando nelle radici, tra lobelie, rane curiose e vivaci piante carnivore.  Questo per i primi chilometri. Poi era iniziata la salita, e quando dico salita intendo salita. Ora io non ci ho il fisico, le detesto le salite. Mi ammazzano le salite. Stavo, come sempre in questi casi, per rimanerci. Rossa come una barbabietola, il polso accelerato, accecata dal sudore, mi si era parata davanti la cascata in tutto il suo spettacolare splendore a tutto campo fino in cima, senza una nuvola. L’avevo guardata e ignorata. Perché come in un miraggio avevo intravisto la salvezza: una allettante pozza d’acqua. E con un sommario striptease sul quale preferisco stendere un velo, con un balzo, non direi atletico, mi ci ero buttata dentro. Non voglio sembrare una che se la tira, ma sì, ribadisco, sono stata l’unica a farlo.


*MANUELA CASSARA’  (Roma 1949, giornalista, ha lavorato unicamente nella moda, scrivendo per settimanali di settore e mensili femminili, per poi dedicarsi al marketing, alla comunicazione e all’ immagine per alcuni importanti marchi. Giramondo fin da ragazza, ama raccontare le sue impressioni e ricordi agli amici e sui social. Sposata con Giovanni Viviani, sui viaggi si sono trovati. Ma in verità  anche sul resto)


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