Venezia ai veneti, e il Giorgione umiliato

di NICOLA FANO*

 Fin qui, Venezia è stata riconquistata dalla Repubblica Veneta. Nel senso che in città senti parlare tutti gli idiomi veneti possibili: il Covid ha riconvertito il turismo, venetizzandolo. Fino alle dieci la città rimbomba di silenzio, ma da lì a poco i treni distribuiscono dalla Ferrovia in giù migliaia di turisti mordi e fuggi. Quelli però che fanno la passeggiata dalla mattina alla sera, fin qui, appunto, arrivano tutti rigorosamente dalle province venete: Treviso e Padova, soprattutto. Colgono l’occasione. Un panino, una camminata con foto a San Marco, magari una tappa a Burano, poi alle sette di pomeriggio si riparte. E in città torna un silenzio inusuale, spezzato solo dal chiasso dei veneziani nei bacari. Questo – per la cronaca – nelle direttrici del turismo: Ferrovia/Rialto e Rialto/San Marco. Altrove, ai margini di Cannaregio, la città è tornata dei veneziani, con i ragazzini a giocare a pallone nei campielli che pare di assistere a una commedia di Goldoni (non fosse per gli abiti). Dorsoduro, invece, come sempre pullula di studenti universitari: sono tutti ai bar di Campo Santa Margherita, chi a bere chi a servire ai tavoli. Aspettano di tornare a vivere in modo composto, quieto.

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Ma io non sono qui per turismo (non almeno nel senso stretto di mordi e fuggi), bensì per una modesta indagine su Giorgione. Che non è Long John Chinaglia ma Giorgio Zorzi, pittore veneto vissuto qui in città tra il 1478 e il 1510 (i grandi di solito campavano poco, all’epoca). L’indagine che sognavo in tempi di lockdown e che, passata la prima tempesta, ho immediatamente avviato, riguarda una serie di affreschi dipinti dal nostro in capo al Cinquecento, all’indomani di un celebre incendio che distrusse il Fondaco dei Tedeschi e ne impose la ricostruzione immediata (i germanici erano ottimi clienti della Serenissima…).

Andiamo con ordine. Che cosa sono i Fondachi? Il lessico urbanistico veneziano ha le sue regole, per cui, per esempio, quartiere si dice sestiere, piazza si dice campo, strada si dice calle. Con qualche eccezione: Piazza San Marco è l’unica a godere di questa denominazione, così come Strada Nova. La colpa è di Napoleone che chiuse San Marco con la cosiddetta Ala Napoleonica (dalla parte opposta della basilica) e progettò una strada larga e diretta dalla terraferma a San Marco per far passare le sue truppe in file di quattro per venti (quatre-vingts). Quando l’empereur si accorse che l’impresa era impossibile, ritenne che Venezia fosse indifendibile e la regalò agli austriaci (con grande scorno dei democratici veneziani) i quali, appunto, completarono Strada Nova, che oggi è una florida cammelliera commerciale. 

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(Giorgione, la Nuda)

Fondaco fa parte di questo lessico: è l’ambasciata commerciale dei vari paesi presso la Serenissima. Ce n’erano di tutte le nazioni, ma oggi ne sono rimasti solo due: il Fondaco dei Tedeschi a lato di Rialto e il Fondaco dei Turchi lungo il Canal Grande nel sestiere di Santa Croce (ospita il museo di Storia naturale). Il Fondaco dei Tedeschi è sontuoso e con una storia ricchissima di arte e prestigio, come dimostra la sua location: affacciato sul Canal Grande, lambisce il Ponte di Rialto dalla riva opposta del mercato. Il posto ideale per far commerci. I Fondachi erano offerti, gratuitamente, dalla Repubblica agli ospiti stranieri che li abitavano e li usavano come magazzini. Quello dei Tedeschi, dunque, andò a fuoco alla fine del 1504 e l’anno dopo venne ricostruito a tempi record: la cura artistica degli esterni (per una volta non marmorei, ma fitti di affreschi) venne affidata a Giorgione, il quale a propria volta scritturò il suo allievo principale, Tiziano Vecellio. E qui nascono i primi problemi, perché a quanto pare gli affreschi di Tiziano (sui lati dell’edificio lungo le calli interne, giacché Giorgione dipinse solo quelli sulla facciata sul Canal Grande) a detta di tutti erano più belli di quelli del maestro. Al punto che la committenza pubblica (la Repubblica, direttamente) decise di ridurre il compenso a Giorgione; il quale, per altro, accettò, pur di incassare qualcosa. E già questo ci dice quali fossero i rapporti tra stato e cultura, all’epoca: la Serenissima era munifica nel sostenere l’arte, ma dettava le proprie regole di mercato. Metteva bocca anche sull’estetica, insomma.

Però il motivo principale di interesse di questa storia sta in un'altra faccenda: ammirando gli affreschi di Giorgione qualche anno dopo la loro realizzazione, Giorgio Vasari ne accettò la meraviglia ma ammise che non ci aveva capito niente. E questa è una doppia notizia.La prima: Giorgione è stato effettivamente un artista criptico, poco incline all’iconografia più consumata del suo tempo (pensate alla Tempesta, per esempio). La seconda: Vasari finalmente ammette di non capirci un’acca. Ora, io ho in personale antipatia il Vasari perché dall’alto del suo potere mercantile promosse un’arte “a imitazione della natura”, mentre io sono per quella che Roberto Longhi ha chiamato l’arte plastica, ossia che rappresenta la natura e non la imita (e la distinzione non è da poco, è la stessa che separa il teatro dal cinema, per esempio). Ebbene, i grandi della pittura plastica, Masaccio, Paolo Uccello e Piero della Francesca, furono affondati da quel gagà di Vasari il quali nel suo Le vite de' più eccellenti pittori, scultori, e architettori si prese il lusso di sbeffeggiare il mio idolo Paolo Uccello («Se non fosse impazzito dietro alla prospettiva, sarebbe pur stato un buon pittore…»). Vasari era l’aedo di casa Medici e in quanto tale lanciava le mode (sulle quali lucrava, ovviamente) un po’ come fanno oggi certi mercanti che si fingono critici e fanno l’expertise di certe croste dalle quali traggono lauti guadagni.

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(Giorgione, la tempesta)

Ecco perché son corso a Venezia a cercare il Giorgione incompreso (da Vasari). In mano, avevo questa lunga, illuminante citazione di Vasari: «Seguì in Venezia, l’anno 1504, al ponte del Rialto un fuoco terribilissimo nel Fondaco de’ tedeschi, il quale lo consumò tutto, con le mercanzie e con grandissimo danno de’ mercatanti: dove la Signoria di Venezia ordinò di rifarlo di nuovo, e con maggior commodità di abituri e di magnificenza e d’ornamento e bellezza fu speditamente finito, dove, essendo cresciuto la fama di Giorgione, fu consultato et ordinato da chi ne aveva la cura, che Giorgione lo dipingesse in fresco di colori, secondo la sua fantasia, purché e’ mostrasse la virtù sua e che e’ facesse un’opera eccellente, essendo ella nel più bel luogo e ne la maggior vista di quella città. Per il che, messovi mano, Giorgione non pensò se non a farvi figure a sua fantasia, per mostrar l’arte; che nel vero non si ritrova storia, che abbino ordine o che rappresentino i fatti di nessuna persona segnalata, o antica o moderna, et io per me non l’ho mai intese, né anche per dimanda, che si sia fatta, ho trovato chi l’intenda, perché dove è una donna, dove è un uomo in varie attitudini, chi ha una testa di lione appresso, altra con un Angelo, a guisa di Cupido, né si giudica quel che si sia. V’è bene sopra la porta principale, che riesce in merzeria, una femina a sedere, ch’ha sotto una testa d’un gigante morta, quasi in forma d’una Iuditta, ch’alza la testa con la spada e parla con un todesco, quale è a basso, né ho potuto interpretare per quel che se l’abbi fatta, se già non l’avesse voluta fare per una Germania. In somma e’ si vede ben le figure sue esser molto insieme, e che andò sempre acquistando nel meglio: e vi sono teste e pezzi di figure molto ben fatte e colorite vivacissimamente». Avete letto bene: Vasari non ci capisce nulla di questi dipinti perché «nel vero non si ritrova storia». La solita faccenda: per essere della sua scuderia e riempire i salotti medicei bisognava imitare la natura, interpretarla non era consentito.

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(Venezia, Fondaco dei Tedeschi)

Il guaio, però, è che poi questo mio viaggio indagatorio è risultato inutile: pensate la potenza di Vasari anche fuori dal Principato di Toscana! Gli affreschi di Giorgione per il Fondaco dei Tedeschi sono andati perduti. Ossia corrosi dalla salsedine, senza che nessuno si sia preso la briga, per tempo, di proteggerli. Già nel Settecento, quando i cronisti del Grand Tour certificarono la superiorità delle decorazioni di Tiziano sui fianchi del Fondaco dei Tedeschi, le donne misteriose di Giorgione erano quasi sparite. E oggi solo un modesto frammento, questo sì incomprensibile per il suo pessimo stato, che ritrae una donna nuda, è sistemato a Palazzo Grimani, dietro allo splendido campo storto di Santa Maria Formosa. Ma il fatto è che Vasari, l’odioso Vasari, ha vinto anche stavolta. Con la complicità della salsedine e della pigrizia della Serenissima.

Ah, al Fondaco dei Tedeschi, da qualche anno, c’è un centro commerciale per miliardari stranieri. Una roba ricca e burina insieme, con tutto il rispetto: la sconfitta finale del povero Giorgione e, allegoricamente, l’ennesimo trionfo del gagà suo nemico.


*NICOLA FANO (*1959. Vive tra Roma e Torino dove insegna all’Accademia Albertina di Belle Arti l’astrusa materia di Letteratura e filosofia del teatro. Da quarantacinque anni va a teatro quasi tutte le sere e, giacché è recidivo, alla storia del teatro ha dedicato i numerosi libri che ha scritto. Detesta il calcio, ma gioca a pallacanestro: quando smetterà di farlo, con ogni probabilità, morirà)


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