Van Straten: Alinari, un antico racconto che diventa start up

di FRANCO DE FELICE*

Si potrebbe affermare, senza piaggeria, che primo presidente della neonata Fondazione Alinari non poteva che essere un fiorentino rappresentato dalla figura e dal curriculum di Giorgio Van Straten, scrittore che da anni si occupa di amministrazione culturale. Una carriera di incarichi prestigiosi, cominciata negli anni ’80 con la direzione dell’Istituto Gramsci toscano, poi presidente dell’orchestra regionale Toscana, consigliere d’amministrazione della Biennale di Venezia e anche presidente dell’Agis. Dal 2002 al 2005 è stato sovrintendente della Fondazione Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, successivamente a Roma presidente dell’azienda speciale Palaexpo che gestiva le Scuderie del Quirinale, il palazzo delle Esposizioni, le case del Cinema e del Jazz. Dal 2009 al 2012 consigliere d’amministrazione della Rai, dal 2015 al 2019 direttore dell’Istituto Italiano di Cultura a New York.

Ora questa nuova avventura, il rilancio e la gestione del patrimonio fotografico universalmente conosciuto come “Fratelli Alinari”, la cui attività è iniziata a Firenze nel 1852, passato qualche mese fa in mani pubbliche. Si tratta di un patrimonio di oltre 5 milioni di pezzi, composto soprattutto di materiale fotografico (positivi, stampe e album fotografici, negativi sia su lastra di veltro sia su pellicola e incunaboli come dagherrotipi, ambrotipi, ferrotipi e altri oggetti unici), a cui va aggiunto un altrettanto ricco materiale bibliografico e strumentale. 

Raggiungiamo Giorgio Van Straten con una videochiamata. In sottofondo sembra di avvertire i rumori tipici di un cantiere aperto, di frenetici lavori in corso. 

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(Giorgio Van Straten)


Presidente, proviamo a fare un salto in avanti di due anni e immaginiamo che i lavori siano a buon punto se non addirittura finiti. Ci può anticipare come sarà il volto della Fondazione Alinari?

Intanto mi auguro che l’Archivio sarà finalmente sistemato nella sua sede definitiva di Villa Fabbricotti. Attualmente è custodito in un magazzino, per quanto specializzato nella conservazione delle opere d’arte, ma tutto inscatolato, chiuso e, di conseguenza, scarsamente utilizzabile. La prima caratteristica che deve avere un archivio è essere un luogo accessibile, e sicuramente più accessibile dopo che è diventato pubblico. Questo primo passaggio, evidentemente, è un elemento fondamentale.

Da qui a due anni spero anche che sia stata individuata e che siano a buon punto i lavori della sede museale. La nostra ambizione è che possa diventare il Museo nazionale della Fotografia storica, dove il nostro patrimonio costituisca la punta dell’iceberg, visibile e fruibile da parte di un pubblico anche non specializzato. L’ Archivio riguarda chi studia, chi fa ricerca, chi impara a fare delle cose, anche a restaurare il patrimonio, a catalogarlo, il Museo, invece, deve essere percepito anche da un pubblico più generico.

Il Museo dovrebbe essere collocato nella zona di piazza Santa Maria Novella?

L’ipotesi è quella che vada collocato in Piazza Santa Maria Novella, nello stesso edificio che ospiterà il Museo della Lingua, in modo tale da avere una serie di sinergie nella gestione di questo spazio.

Tutto questo patrimonio ha cambiato denominazione, da Fratelli Alinari a Fondazione Alinari, quindi, come ha già detto, è diventato pubblico. Ci può spiegare questa scelta da parte della Regione Toscana?

Con una scelta, secondo me di grandissimo coraggio, anche alla luce delle condizioni delle finanze pubbliche, la Regione Toscana, nella persona dell’allora presidente Enrico Rossi, ha ritenuto che un archivio come questo, che rischiava anche una dispersione, andasse salvato, nella sua interezza. È un archivio dalle dimensioni enormi, che proprio nella sua enormità ha la propria identità, ma che stava correndo il rischio di non essere più tenuto insieme.

Nel momento in cui un ente pubblico compra un patrimonio, quel patrimonio, anche se rimane identico, si trasforma, cambia paradigma.

Un archivio, se pubblico, dovrebbe essere a disposizione di ciascun cittadino. Ha idea di come saranno regolati i vari accessi?

Per l’archivio fisico, essendo tutto totalmente disponibile, compatibilmente con il fatto che si opera in luoghi delicati l’accesso va gestito. La nostra idea è che sia completamente accessibile, in primo luogo a chi lo vuole studiare, ma, per esempio, anche agli studenti, alle scuole, per fare vedere cos’è un archivio, come funziona, quali oggetti ci sono, anche quali lavori vengono fatti in termini di catalogazione, di piccolo restauro, di conservazione.

Più complessa la questione dell’archivio immateriale, quello delle immagini digitalizzate, perché nel momento in cui le mettiamo a disposizione forniamo un servizio. Se le immagini sono disponibili vuol dire che qualcuno le ha catalogate, le ha digitalizzate. E, ancora, se qualcuno chiede delle immagini la Fondazione le deve fornire, è giusto che il servizio venga pagato, in modo completamente diverso a seconda dell’uso che se ne fa. Se si tratta di studiosi o di studenti che, per esempio, hanno bisogno di quelle immagini per la loro tesi, il costo dei diritti, se le immagini sono nostre, è gratuito e il costo del servizio è bassissimo. Se gli utilizzi sono di natura diversa, editoriale e commerciale, è giusto che chi utilizza le immagini le paghi.

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(Gli archivi in deposito    foto Armin Linke 2020)


C’è museo e museo. Visto che siamo a Firenze, c’è, per esempio, il museo degli Uffizi e presto ci sarà quello della fotografia. Quest’ultimo che caratteristiche dovrà avere?

Le foto sono anche oggetti d’arte ma sono, in primo luogo, oggetti di documentazione e di racconto. Abbiamo cominciato a pubblicare sul nostro sito dei fotoracconti, in cui le foto, accompagnate da testi anche molto brevi, raccontano storie. Secondo me è un elemento assolutamente centrale. Nessun archivio probabilmente, ma in particolare un archivio fotografico non è solo un luogo del passato ma un luogo attraverso cui si continua a fare produzione culturale che interagisce, quindi, con la contemporaneità, magari perché racconta come eravamo e come siano. Credo che gli archivi Alinari permettano di raccontare perlomeno un secolo abbondante di storia d’Italia senza uscire dall’archivio.

Vale anche per il Museo, che quando ci sarà non lo immagino come un posto in cui ci sono un po' di fotografie, anche molto belle, appese alle pareti o vecchi apparecchi fotografici in mostra. Come qualsiasi museo penso che dovrà dotarsi di una componente multimediale, di realtà aumentata, in modo tale che l’interazione sia non statica, come, progressivamente, non lo sono più nemmeno i musei che espongono dipinti o sculture. Certamente non lo potrà essere un museo di fotografia.

Anche il progetto che stiano facendo insieme a Foglieviaggi va in questa direzione, le fotografie strumento di un racconto.

Poi penso che le fotografie siano anche straordinari oggetti artistici di per sé, che raccontano la loro storia. Abbiamo, per esempio, un enorme patrimonio di negativi su lastre di vetro, alcune delle quali enormi, con un diametro di un metro per capirci, altre molte più piccole, che raccontano come si è evoluta la fotografia, che non è solo un oggetto digitale per un ragazzo di oggi, una stampa di carta per me e per te, ma in realtà la sua storia è molto più articolata e complessa. Anche raccontare questo è un altro degli aspetti fondamentali della valorizzazione del patrimonio. 

Cosa ci mette di suo in questa impresa? Di suo nel senso della sensibilità di scrittore, di persona che per una vita si è occupata di istituzioni culturali.

Sicuramente questa questione, diciamo narrativa, che mi è molto familiare, ma ne sono convinto anche da un punto di vista proprio intellettuale e culturale, non solo perché sono uno scrittore, ma perché penso che effettivamente questa sia una caratteristica straordinaria della fotografia. Si dice immortalare in una fotografia, perché, in effetti, congela quell’istante, ma nello tesso tempo, proprio il fatto che immortala racconta la caducità: un secondo dopo aver scattato la fotografia quella cosa non c’è più, non è più esattamente così come è stata immortalata. Proprio la profondità temporale è la caratteristica principe della narrativa, quindi da questo punto di vista la trovo perfettamente naturale.

La cosa che invece penso che questa esperienza possa dare a me, che ormai sono 35 anni che mi occupo di gestione di istituzioni culturali, è che è la prima volta che realizzo una startup. Può sembrare strano dirlo su un archivio di 150 anni di storia abbondanti, ma la Fondazione è una startup. Quando sono arrivato, ero io e i miei due colleghi del consiglio d’amministrazione, non c’era niente, una segretaria e un telefono. È un’avventura bellissima, è anche molto bello, a volte, valorizzare tutto quello che già c’è, ma poter impostare una struttura dalle fondamenta è un percorso emozionante.


*FRANCO DE FELICE  (Del 1949, nativo sambenedettese e con la passione del mare. Studi classici, ingegnere meccanico mancato per colpa del giornalismo. Ho cominciato nel 1975 con l’Unità, da San Benedetto del Tronto ad Ancona, a Bologna a Roma. Ho lasciato l’Unità nel dicembre del 1988 per la Rai, ricominciando di fatto lo stesso percorso, da Ancona a Bologna, poi a Firenze, dove per dodici anni sono stato a capo della redazione toscana. La mia residenza è ancora in provincia di Firenze, ma il cuore è rimasto a San Benedetto del Tronto)
 


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