UNA FINESTRA SULLA NATURA - 9) La maschera cieca

di LUIGI EPOMICENO*

Avete mai fatto caso ai riti che le persone seguono al loro arrivo alla postazione scelta in riva al mare?

Un varietà di approcci che va da chi appena riesce a togliersi la maglietta che è già in acqua a chi invece, dopo una decina di giri su se stesso, come il gatto nella cuccia, con la coda dell’occhio spia i vicini con sospetto, si assicura che i teli siano ben stesi e solo dopo aver ben piegato la maglietta si avvicina a riva, cauto a non bagnarsi oltre la caviglia. Nel frattempo ha calcolato da quanto ha ultimato la sua colazione mattutina.

A quindici anni, con i compagni dell’epoca, ci piaceva giocare a fare gli adulti, e arrivati al mare, camaleontici, era il momento di assumere le sembianze di sub.

Sugli scogli appuntiti e ricoperti di un tappeto di minuscole cozze adriatiche, messi al riparo indumenti e asciugamani, sistemavamo la retina della confezione di patate da 5kg. sul fianco sotto il costume; con l’indice e medio della mano destra agganciavamo le pinne “Rondine” celesti; con la mano sinistra, insieme al coltello da cucina rubato a casa, si impugnava la maschera e tubo e in fila ci sedevamo a prepararci all’immersione.

Il rito del sub è diverso da quello seguito dal visitatore marino occasionale. La preparazione degli attrezzi, ma anche quella psicologica, richiede attenzione. A seconda del mare, c’è chi faceva anche un percorso religioso che inevitabilmente terminava con un segno della croce e il bacio sulla falange del dito indice della mano destra.

Indossate le pinne, dopo abbondanti sputi sul vetro interno della maschera (e ripetuti risciacqui!), inumidendo, ma non troppo, la pancia appena sopra il bordo del costume, con la mano sulla maschera e un timido tuffo si entrava nel mondo sommerso. Con rapidi colpi di gambe si nuotava fin dove non si toccava.

In quel momento il gruppo si scioglieva. Ognuno era per conto suo.

Perlustravo il fondo dall’alto, calcolando a spanne la profondità, attento a non andare oltre il limite imposto dal mio fiato.

La profondità di immersione diventava il fulcro dei nostri racconti al ritorno a casa: variava di persona in persona e di situazione in situazione. Chi la sparava più grossa, guarda caso, era sempre quello che tornava a mani vuote.

Una volta scelto il punto, quello dove si ipotizzava di trovare le prede più grandi, ci trasformavamo ancora, chi in piccoli Maiorca e chi in Mayol, e iniziavamo l’altro rito della ventilazione (e conseguente iper-ventilazione), neanche dovessimo scendere negli abissi.

Appena riempiti i polmoni con quei 4 litri circa di aria, convinti di resistere una ventina di minuti, si andava perpendicolari giù a smuovere pietre ed alghe alla ricerca di qualunque forma di vita commestibile di usanza sulle tavole pugliesi: ricci, polpi (chiamati da tutti polipi), vongole, patelle, cozze pelose, tartufi di mare, murici.

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(Arbacia Lixula)


Nel silenzio dei nostri voli subacquei, oltre ai ticchettii della pressione dell’acqua sui timpani si sentivano in lontananza motori di gommoni e, ad intervalli regolari, dei colpi. Una volta usciti a rivedere il sole, con un repentino giro di capo si cercava il pallone rosso che avrebbe segnalato la presenza del vero sub.

Il pallone non ci poteva essere. Quel rumore di colpi era il martello da 2,5 kg che si usava per spaccare gli scogli calcarei ed estrarre una prelibatezza proibita dei fondali pugliesi: il dattero di mare.

La lontananza del rumore posizionava il martellamento lontano da noi, più verso profondità di 8-10 metri. Ben oltre il nostro limite di quindicenni. A noi spettava la pesca di basso fondo, quella più dozzinale, di qualità e di numero.

All’epoca la TV non trasmetteva le attuali competizioni di cucina esotica e micro-porzioni: si mangiava “all’antica.” I famigliari più anziani erano i pellicani più voraci e mangiavano qualunque cosa avesse il sapore di mare. Man mano che scendeva l’età, si diventava più selettivi. A quindici anni, io mangiavo solo vongole e polpi (cotti!). I più piccoli, neanche quelli.

Però la pesca, già allora, non era per sostentamento, ma per usanza. Il pugliese al mare negli anni ’70 non poteva rimanere steso al sole: era obbligatorio procurare qualcosa da mangiare.

Le mogli più orgogliose fantasticavano ad alta voce sulle ricette che avrebbero realizzato con il pescato del giorno dei propri mariti; quelle più incerte si limitavano a commenti qualitativi; quelle più arrabbiate, si rassegnavano qualificando i propri mariti come inutili.

Con questo patrimonio genetico, quando scendevo nei miei abissi non mi restava che spazzolare il fondale e acchiappare qualunque cosa, per riempire il menù del giorno. Nella selezione, pensavo al fruitore di turno.

Scartando la nonna, il capo pellicano, che mangiava qualunque pescato, dalla piovra alla patella, dedicavo i ricci a mia madre; le cozze pelose a mio nonno, le vongole a me; le cozze nere a mio padre; i murici a chiunque avesse la pazienza di sfilarli dal guscio.

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(Le appetitose gonadi dei ricci)

Il momento più atteso però era il pranzo della domenica, quando si presentava uno dei miei zii. Mai a mani vuote, quando aprivano le buste, gli occhi (specie delle donne di famiglia) si spalancavano alla vista di ogni ben di Dio.

La famiglia intera, ognuno armato di mezzo limone, contribuiva a far sparire tutto nel giro di pochi minuti.

La scelta del riccio da cogliere richiede un po' di occhio. Poco però. La differenza tra maschio e femmina è facile da individuare: il colore e la lunghezza delle spine sono le discriminanti maggiori. Almeno così ci è stato tramandato. Poi vi spiego.

Già!

Le spine.

Il terrore di ogni mamma era il tuffo del proprio pargolo in acque basse. Erano pochi i bimbi che si spaccavano il mento sugli scogli, ma tanti quelli che mettevano il piede su un riccio. Quando accadeva, la festa era finita. Per i diretti interessati e per le decine di persone attorno, ognuno con il proprio rimedio. Da buoni pugliesi, l’olio di oliva risolveva tutto. Anche l’inevitabile macchia di catrame.

Come ogni pescatore, a fine giornata si guardava ogni esemplare rapito dal mare, rigettando in acqua i prelievi errati o potenzialmente criticabili per la qualità o grandezza.

Ogni riccio veniva pesato a mano per stimarne il contenuto. Quelli più pesanti e presumibilmente più ricchi venivano messi da una parte; quelli più leggeri dall’altra.

I bambini si avvicinavano sempre per fare le solite domande ingenue a cui si rispondeva neanche fossimo pescatori incalliti.

Un giorno un papà si avvicinò per curiosare. Era palese che fosse un habitué dei fondali.

A differenza del tipico curioso, Nicola (si chiamava così) sembrava volesse testare la mia conoscenza di quanto avessi pescato, e non solo dei nomi delle specie.

Dopo che si era presentato e scambiato qualche parola, abbassai la testa per controllare ancora i vari ricci posati sugli scogli attorno a me, per notare che si erano nuovamente mischiati tra di loro, spostandosi tutti verso l’acqua, a poca distanza.

“Lo sai che i ricci sono animali particolari?” mi chiedeva Nicola.

Cercavo di indovinare cosa potessero avere di speciale. Strano si, ma di speciale, oltre alle spine, non vedevo nulla, se non il fatto che si muovevano muovendo gli aghi.

“Ti sembrerà strano ma sono cugini delle stelle marine e usano l’acqua come noi usiamo il sangue.”

In che modo Nicola accomunava il nostro uso del sangue all’uso dell’acqua dei ricci mi risultava un concetto assai difficile da capire. Neanche oggi, dopo cinquant’anni, so spiegare come avvenga l’ossigenazione dei tessuti e lo scambio di altre molecole attraverso il passaggio del nostro fluido vitale. Figuriamoci allora.

Nicola afferrò il più bello dei ricci, quello violaceo con le spine corte che avevo destinato a mia madre. Sospettando un inaspettato sequestro, subito precisai che era per mia madre, sperando nella sua riverenza verso una figura materna.

“Questo animaletto che sembra una palla con gli aghi è qualcosa di incredibile!”.  Con quello che si rivelò essere un tranello, mi chiese quali erano i maschi e quali le femmine.

In quel momento la convinzione che avevo che Nicola fosse un esperto pescatore si dissipò e si rafforzò invece l’idea che mi volesse portare via ogni cosa. Tra l’altro, era pure grosso!

Raccogliendo i ricci attorno alle mie gambe gli sottrai dalle mani quello che si era preso e gli risposi che questi erano tutti ricci femmine.

Nicola si sedette accanto a me, e iniziò a disappannare la mia maschera cieca.

“Perché hai raccolto questo bel riccio?” e di nuovo mi prese dalle mani il magnifico esemplare che era già di mia madre.

“Allora non capisci niente di ricci!” gli dissi. “Le femmine sono questi con le spine corte, e hanno il corpo viola. I maschi sono neri e hanno le spine lunghe. Questi hanno le uova e quelli neri sono vuoti. Vedi?” e di nuovo mi riappropriai del riccio.

“Come ti chiami?”

“Luigi.”

“Vedi Luigi, non è come credi.”

“Tu sei un maschio e quella ragazzina là giù è una femmina. Però siete entrambi esseri umani. Anche io sono un essere umano, e anche mia moglie” mi disse puntando il dito verso dove era seduta la sua signora.

Oggi, quelle parole avrebbero potuto portare Nicola dritto in galera, ma, per fortuna, alla lezione che mi stava per impartire c’ero solo io.

“Io e mia moglie siamo il maschio e la femmina della stessa specie,” ripetette. “Pensa che anche se a te sembrano simili, il riccio nero e quello viola sono più diversi tra loro di quanto non lo siano un orso e una foca.”

A me sembrava più una questione di colore, un po' come la pelle bianca e quella nera, ma era evidente che Nicola non era un pescatore della domenica. E forse nemmeno un pescatore.

Col senno del poi devo dire che l’improvviso amico non poteva trovare un paragone più adatto per introdurmi alla filogenetica. Ma allora ero troppo impreparato per capire.

Continuò spiegandomi che i ricci, pur avendo ogni specie maschi e femmine, non hanno bisogno di unirsi fisicamente per accoppiarsi e riprodursi perché la fecondazione delle uova avviene nell’acqua. Ingenuamente mi guardai per controllare cosa avevo addosso!

Continuò chiedendomi dove avessi trovato tutti i ricci pescati.

Ancora non mi tornava il perché delle domande.

“Ma da dove vieni?” gli domandai.

“Sono di qua, ma mi sono trasferito per lavoro in California, negli Stati Uniti.”

Con questa risposta, mi misi l’anima in pace e mi convinsi che Nicola non avrebbe predato il frutto delle mie faticose immersioni.

“Questi li ho presi tra le alghe, da questa parte, mentre questi li trovi sulle rocce qui sotto” gli indicai con la mano.

Fino a quel momento ero convinto che siccome i ricci camminano muovendo le spine, quelli fuori dalle alghe avrebbero prima o poi raggiunto le alghe e si sarebbero nascosti. Una convinzione fallace.

D’improvviso, Nicola si alzò e si tuffò in acqua. Là dove gli avevo indicato l’area dei ricci sulle rocce. Poco dopo mi raggiunse con un riccio in mano.

Nero come la pece, spine lunghissime con un corpo a palla poco più grande di una noce, Nicola iniziò a raccontarmi il perché il riccio è davvero un animale particolare, come aveva preannunciato.

Imparai che la vera differenza tra i due non è perché uno è maschio e uno è femmina, ma perché uno lo mangiamo e l’altro no.

Entrambi si nutrono di vegetali marini (alghe) e il motivo per cui uno è tra le alghe e l’altro sulle rocce è solo perché questi hanno già divorato tutte le alghe attorno a loro.

“Pensa che con queste spine lunghissime, se per qualche motivo si dovesse capovolgere, questo povero ricco è in grado di raddrizzarsi da solo.” Mi venne subito in mente invece una tartaruga capovolta sul carapace. Nicola continuò con le domande: “Hai visto delle stelle marine qui attorno?”

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(Stelle di mare)

Di stelle marine ogni tanto ne incontravo qualcuna. Mi piaceva prenderle in mano e sfiorare col dito la superficie un po' rugosa dei tentacoli. Per una forma di rispetto, non ho mai pensato di portarne una a casa per farla seccare al sole e usarla in modo decorativo appesa su una rete da pesca, tipico dei ristoranti di pesce.

“Qui di stelle ci sono solo quelle nel cielo”, gli risposi, e con un piccolo sorriso in risposta alla mia battuta mi disse, mentre si alzava per rispondere al richiamo della sua signora, che era questo il motivo per cui era così facile raccogliere tanti ricci. E mi salutò.

Un po' come si fa alla fine delle lezioni scolastiche, uscito il professore, raccolsi tutto il pescato, mi asciugai in fretta e pinne e maschera in mano raggiunsi di corsa i compagni che nel frattempo erano partiti per tornare a casa per il pranzo.

Mancava poco per il rito famigliare della spartizione della caccia!

Quell’incontro non ebbe più un seguito, e io tornavo a pescare i ricci distinguendoli, senza pormi problemi di sorta, per il colore e per le spine.

Stufi di mangiare ricci, patelle e murici, a casa mi chiesero di non portarne più. “Ma come? E che ci vado a fare al mare allora?” risposi scocciato.

Il giorno dopo, o forse l’altro ancora, mi rituffai nelle stesse acque ma con solo la mia retina delle patate. “Non si sa mai”, pensai.

Smuovendo con due mani le alghe scure, inciampai in una sacca a rete che usano i sub. Contento del ritrovamento che avrebbe sostituito la mia rete casareccia, agguantai il cordino per portarmelo via. Nel mentre mi ero capovolto per iniziare la risalita, la resistenza opposta dalla rete mi costrinse a rilasciare il cordino.

Salii in superficie e velocemente mi rigirai a testa in giù per tornare sul fondo. La sabbia che avevo smosso aveva parzialmente offuscato la visuale, ma non ebbi difficoltà a ritrovare il cordino che intanto galleggiava verso l’alto. Con più determinazione, strinsi la rete tra la mano destra e con la sinistra allargai le alghe che si muovevano ondulando. Sollevando la rete vidi un bellissimo polpo che si era avvinghiato attorno al contenuto della stessa.

Eravamo tutti soliti lasciare il proprio pescato a mollo vicino alla riva con la rete fermata con una pietra. Pensai che un’onda inaspettata forse l’avesse portata via a qualcuno, e il polpo, ghiotto di ricci e molluschi non aveva persa l’opportunità di un pasto gratuito.

Da piccolo, dinanzi a un ritrovamento fortunato si diceva “…finders keepers, losers weepers” che tradotto vorrebbe dire chi perde qualcosa piange e chi trova gioisce. E io gioivo al pensiero della giornata fortunata.

Più tiravo su la rete e più il polpo si stringeva ad essa. Preso per la testa e strappandolo dalla rete si avvinghiò attorno al braccio e con i risucchi delle ventose rafforzava la stretta.

Già stavo costruendo la trama del racconto ai miei compagni. I segni delle ventose sarebbero stati la prova della veridicità dell’accaduto. Avrei potuto raccontare della feroce lotta con quello che sembrava una piovra. Oppure di come stessi per affogare tirato per metà dentro la sua tana con quei poderosi tentacoli.

All’improvviso però cambiai registro dovendo subito pensare a cosa dire per spiegare non cosa c’era fuori la rete, ma dentro.

Aperta l’imboccatura per cercare di infilare il bel polpo, vidi che sul fondo, nascosti sotto uno strato di alghe, c’erano dei datteri di mare. (Risultarono un paio di chili per l’esattezza).

Ecco a cosa mirava il polpo, pensai!

Vista la refurtiva, forse più che persa, la rete era stata nascosta.

Comunque fosse, bisognava darsi a gambe levate.

Ai compagni raccontai un improvviso attacco di colite, e andai via. Arrivato a casa posai la rete e il suo contenuto nel lavandino della cucina e andai a farmi la doccia.

Al mio ritorno, nonno, nonna, madre, zia e non so chi altri già banchettavano, in silenzio

Da allora mi imposi un’auto-limitazione della pesca e gradualmente smisi del tutto. Il “Terrore dei Mari” si era ritirato.

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Una decina d’anni fa riaprii il mio fascicolo mentale dei ricci, in occasione di una visita a New York. Da piccolo con i miei genitori si andava all’enorme mercato del pesce di Fulton Street. Un edificio immenso a Lower Manhattan, vicino a Little Italy. L’edificio c’è ancora ma il mercato no, trasformato in un enorme agglomerato di ristoranti vari. Qualche pescivendolo (uno o due) è sopravvissuto.

Tra granchi, vongole e astici, sul ghiaccio tritato vidi un enorme riccio, grande come uno dei nostri meloni retati che usiamo come accompagnamento del prosciutto crudo.

“Soliti americani” pensai!

Tornando in hotel, dovevo scoprire la provenienza di un riccio così grande. Il déjà vu fu immediato, e quell’incontro con Nicola mi riapparì davanti agli occhi.

Quello che si chiamava riccio “maschio” va sotto il nome di Arbacia lixula. La “femmina” un Paracentrotus lividus. Il primo di colore nero, il secondo viola, appunto come un livido.

Immaginai l’ipotetico percorso che potrebbe aver dato inizio alla diceria sui ricci. Può darsi che un giorno, pescando un esemplare di entrambi e aprendo i due gusci calcarei, qualcuno attribuì la differenza del contenuto al sesso accomunando la pienezza di gonadi femminili in uno a un pesce pieno di uova, e l’assenza nell’altro al sesso maschile. Chissà!

Invece nel cammino evolutivo di milioni di anni fa l’ordine delle Arbaciidae, a cui appartiene l’ Arbacia lixula si è staccato da quella delle Camarodonta, l’ordine del riccio Paracentrotus lividus, e insieme hanno continuato il proprio percorso di vita. Come l’orso e la foca hanno compiuto il loro.

Le cose diventano più complicate quando si cerca di capire come poi le diverse specie si siano distribuite tra i mari. Roba da tecnici.

Però per farvi capire come avvengono le cose in Natura e anche come la mano dell’Uomo può interferire, sentite questa.

La disposizione dei ricci sui fondali non avviene perché alcuni preferiscono nascondersi e altri no. Tutti i ricci si nutrono principalmente di alghe perché ricche di nutrienti per loro vitali. Quelli più esposti sulle rocce spoglie sono lì solo perché hanno già mangiato le alghe circostanti e non perché vanitosi.

Questa lotta naturale alla sopravvivenza, in questo caso tra riccio e alga, è quella che porta al successo o meno di una specie.

I fattori esogeni, importati dall’esterno, che possono alterare questa lotta, di fatto alterano il percorso naturale dell’evoluzione.

Ad esempio, può sembrare strano, ma le stelle marine si nutrono di ricci. Li avvolgono con i tentacoli e lentamente li sopprimono nutrendosi del contenuto del guscio.

Anche le Lontre marine (Enhydra lutris) si nutrono di ricci e ne sono anche ghiotte.

Sulle coste settentrionali della California l’interazione tra stelle marine, ricci, lontre e alghe mostra in modo esemplare come la Natura agisce e reagisce. E come l’Uomo può interferire.

Sulle coste occidentali degli Stati Uniti, dove sembrano esserci condizioni ideali, si trova un ecosistema particolare caratterizzato dalla presenza di kelp, un’alga bruna appartenente all'ordine Laminariales dalle foglie molto larghe e che cresce in modo fitto in acque non troppo calde o profonde, formando delle vere foreste.



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(Foreste di kelp,  California    foto di Steve Lonhart/NOAA, MBNMS)

Gradualmente in questa zona del Pacifico le numerose Lontre marine, già dalla fine del 1800, hanno iniziato a diminuire di numero, favorendo una graduale proliferazione di ricci viola della specie Strongylocentrotus purpuratus. In questo centinaio di anni (un nonnulla rispetto all’età dell’evoluzione della vita sulla Terra, stimata in circa 7,5 miliardi di anni) mancando uno dei loro predatori, hanno avuto una vita più facile.

Da circa una ventina d’anni i ricci sono stati aiutati nella proliferazione da una strana epidemia virale, presente nelle acque, che invece sta decimando le stelle marine. I ricci, in assenza di loro predatori naturali, stanno aumentando di numero oltre misura e a loro volta stanno decimando le estese foreste di kelp, già seriamente minacciate per conto loro dal riscaldamento delle acque.

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(Strongylocentrotus purpuratus sui fondali della California  foto di Katie Sowul/CDFW)

Come vedete una catena di eventi capace di distruggere un ecosistema marino, casa di decine, centinaia, migliaia o meglio milioni di forme di vita, di cui il riccio è solo un anello.

Perché le lontre non ci sono più? Da dove arriva la forma virale che affligge la stella marina? Quali sono le cause del riscaldamento delle acque? Purtroppo, non possiamo sempre rispondere “per cause naturali.”

Nonostante tutti i tentativi per porvi rimedio, per l’eco-sistema della foresta non si sa come andrà a finire.

Qualche anno fa mi tuffai di nuovo nelle acque dove da piccolo giocavo a fare il sub. Il fondale una volta scurito dal tappeto di alghe era invece totalmente spoglio. Di ricci, “maschi” o “femmine”, nessuna traccia. Roccia sbriciolata, come ghiaia in un giardino, ricopriva il fondo del mare e sulle pareti verticali notavo le piccole caverne vuote costruite faticosamente nel tempo dai datteri.

Mentre camminavo per tornare a casa, ripercorrendo gli stessi passi del giorno del mio fortunato ritrovamento, mi biasimavo per aver contribuito, nel mio piccolo, alla sciagura del fondale della mia adolescenza da sub.


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*LUIGI EPOMICENO (Nato nel 1957. Sono mezzo americano e mezzo italiano, pugliese di origine, forse greco di stirpe, romano di adozione, con soste prolungate a Firenze, Milano, Genova, Chicago e Londra e continue a Parigi, Marsiglia, Madrid, New York, Amsterdam, Eindhoven, Dusseldorf, Monaco di Baviera, Praga, Amburgo, Bruxelles e Lisbona. Ho girato tutta la Grecia, l’Albania, la Francia, la Spagna, la Turchia e gli USA e ho messo piede in tanti altri posti che neanche ricordo, da Seul a Iguazù, dal Canada al Marocco passando per le isole Lofoten. Ora sono in un altro mondo. Un mondo nel Mondo. Da quasi un anno e mezzo sono il Direttore Generale del Bioparco di Roma. Prima ho fatto tante altre cose. Alcune divertenti, altre meno)


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