UNA FINESTRA SULLA NATURA - 14) Non calpestate le aiuole !

di LUIGI EPOMICENO* 

Si fa presto a dire evoluzione.

Ogni specie animale (a dir il vero ogni forma di vita) che oggi abbiamo sotto gli occhi è frutto di un’evoluzione che l’ha portata ad essere ciò che è. Come concetto non mi è difficile da capire, ma lo è se aggiungo la dimensione temporale. Quanto tempo è stato necessario alla seppia per sviluppare la sua capacità di camuffamento? E per l’apparato digerente di un anaconda (Eunectesmurinus) o la resistenza al veleno di un tasso del miele (Mellivora capensis)?

Tempus fugit?

Non direi.

Se per questo anche la Terra si è evoluta. Tra le varie teorie ci sono alcuni numeri in circolazione, ma si parla di almeno 4,5 miliardi di anni. Una misurazione che trovo assolutamente impalpabile. Non so voi, ma io non riesco a percorrere un fantasioso cinematografico viaggio nel tempo passato di 4,5 miliardi di anni. D’altro canto il distacco dell’Africa dall’India e del Sud America dall’Africa non può avvenire in un paio di lustri!

Quando si parla quindi di evoluzione stiamo intrecciando diversi fattori e sono le combinazioni di essi (casuali o meno) a dare origine alla moltitudine di contesti e di specie.

E’ così che due cugini stretti quali il giaguaro (Pantheraonca) e la tigre (Pantheratigris) hanno sviluppato un manto così diverso tra loro.

Già nel parlare di giaguari e tigri tocchiamo con mano (si fa per dire) quanto sia importante per l’evoluzione il fattore geografico: uno si trova in Sud America e l’altro in Asia. Il tempo, ma anche il luogo in cui il tempo si compie hanno dato origine (o hanno trasformato) i rispettivi manti che sono poi diventati a macchie e a strisce.

Ora che si fa un gran parlare della salvaguardia degli habitat naturali (diciamo pure del Pianeta!) mi sono domandato, con la mia tipica curiosità infantile:  se la Terra (e la vita su di essa) ha impiegato migliaia, milioni e/o miliardi di anni per diventare ciò che è, come potremo mai oggi ricostruire quegli habitat che abbiamo distrutto?

Quanto tempo ci metteremo per ri-trasformare l’attuale pascolo nel bosco che fu? E a ri-popolare un’area della flora e fauna sparita?

E come potremo mai riuscirci quando con una mano piantiamo e con l’altra estirpiamo?

Il dilemma mi ha portato in un luogo dove esiste una sequenza naturale molto interessante e visibile a occhio nudo, dove è facile osservare le strategie che piante e animali hanno dovuto escogitare per adattarsi a un mondo molto particolare, aspro, instabile e anche inospitale. Molti di noi lo hanno già visto e probabilmente lo vedranno ancora tra breve: al mare, su un litoraneo sabbioso.

Vi sono numerose spiagge pubbliche a cui siamo soliti arrivare attraversando pinete più o meno estese. Si parcheggia lungo una strada costiera e si attraversa un tratto, sotto l’ombra dei pini, intervallato dalla presenza di cespugli, anche spinosi, per arrivare, fuori dalla pineta e piedi nella sabbia, su un tappeto di piante varie striscianti finché, superata l’ultima altura di sabbia, si scende finalmente sulla battigia della riva.

Questo breve cammino, a cui nessuno di noi ha mai dato peso, rappresenta invece una straordinaria catena di successi evolutivi e adattamenti che lega la superficie dell’acqua di mare a un bosco di querce, con una sequenza impressionante di sostituzioni di una forma di vita ad un’altra e che aiuta anche i più profani a visualizzare la complessità e la dinamica legati all’evoluzione.

Ho sempre visto la battigia, il filo di acqua, come un divisorio, un confine. Da un lato la vita sommersa e dall’altro quella asciutta; come numero sarebbe lo zero, negativi di qua e positivi di là; oppure il regno delle branchie e quello dei polmoni; pinne e piedi; acqua e terra.

Quando si parla di zone terrestri dove vigono condizioni estreme siamo soliti pensare alla Death Vally, alla steppa russa o ai ghiacci dell’Antartide, senza considerare che già quando andiamo in spiaggia siamo in un ambiente, quello delle dune di sabbia, tra i più estremi esistenti.

Se vi mettete sulla battigia, con le spalle al mare e la sabbia sotto i piedi, noterete una varietà di forme di vita vegetale che si differenzia sempre più man mano che vi allontanate dalla riva. Se poteste spostarvi in volo nell’entroterra vedreste anche un innalzamento graduale delle piante, da striscianti ad alberi di alto fusto, accompagnate anche dalla presenza di animali vari a partire dagli insetti fino ad arrivare ai cinghiali, lupi e, ovviamente, gli uccelli di bosco.


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(da Studio sulle dune costiere – a cura di Agenzia Regionale Parchi - 2010)


Per tornare al mio dilemma, con un po' di fantasia ho paragonato le aree distrutte, antropizzate del pianeta, insomma il presente, alla battigia e spiaggia di sabbia e il futuro desiderato, sebbene ricostruito, di un habitat ideale, o se vogliamo pre-distruzione, al fitto bosco dell’entroterra.

Tecnicamente entriamo nei due campi della zonazione e della successione ecologica, di cui non ho alcuna pretesa di sfoggiare conoscenza. Provo a semplificare.

La zonazione è un concetto spaziale, ovvero illustra come organismi vegetali e/o animali di un’area si distribuiscono o si stratificano in quel paesaggio. In pratica spiega perché alcuni organismi si trovano in un determinato posto anziché in un altro.

La successione invece è un concetto temporale, e riguarda il processo di trasformazioni che avvengono nel tempo che consente alle specie presenti di sopravvivere. La successione interessa l’arrivo della specie, la sua maturità e la sua estinzione (eventualmente a vantaggio di un’altra che la sostituisce).

Sappiamo che la sabbia è il risultato di secoli di frantumazioni di rocce, conchiglie, coralli, detriti e quant’altro il moto ondoso dei mari sia riuscito a polverizzare e a trasportare.

Una volta depositata e forzatamente accumulata dalle onde su quello che sarà poi la spiaggia, il sali scendi dell’acqua sulla riva agisce come primo ostacolo distruttore per l’attecchire di ogni forma di vita vegetale. Un po' come quel dispettoso che sradica ogni piantina che voi infilate in terra. (Facciamo la stessa cosa quando per “pulire” le spiagge passiamo con una gigantesca ruspa e spazziamo via ogni cosa, anche le uova delle Caretta caretta!).

A pochi centimetri sopra il livello del mare soffia un vento continuo, anche di forte intensità, che sollevando granelli di sabbia e insieme salsedine generata dall’evaporazione dell’acqua marina agisce come una potente sabbiatrice che smeriglia tutto ciò che incontra. Chi non ha provato almeno una volta la sensazione pungente della sabbia soffiata sulla pelle?

La sabbia però è anche un enorme colabrodo dove l’acqua dolce piovana resiste poco, sia per la rapida evaporazione inflitta dal cocente sole sia per il facile drenaggio dell’acqua, che rende la sua permanenza in superficie effimera.

D’altro canto nella sabbia mancano le sostanze nutritive di cui le piante hanno bisogno e prima che la sabbia possa diventare un manto di terreno è necessaria l’aggiunta di ingredienti che facciano da collante e consentano l’aggregazione tra varie componenti quali sabbia, limo, argilla e sostanze organiche che, compattate insieme, formano, grazie anche ad una acquisita capacità di trattenere acqua, la tessitura da cui emergerà la vita vegetale.

Nella sola sabbia un tenero germoglio di pianta difficilmente sopravvive.

Eppure in quei pochi metri di spiaggia si verifica una feroce “lotta per la sopravvivenza”. Qui l’evoluzione non si ferma e sotto i nostri occhi la gara della specializzazione di una forma di vita sull’altra continua.

Quelle che trovi in prima linea nelle vicinanze della battigia sono piante della sabbia dette ”psammofile”, quelle che hanno sviluppato caratteristiche tali da renderle resistenti alle condizioni ostili presenti sulla riva del mare.

Le piante psammofile hanno sviluppato caratteristiche peculiari: resistono ad ambienti aridi; si sviluppano sopra il livello dell’acqua salata ma sopravvivono in presenza di essa; le radici si sviluppano in profondità alla ricerca di acqua dolce, che invece evapora facilmente in superficie; crescono in orizzontale, per eludere la forza del vento; i germogli sono stratificati su più livelli in modo da evitare alle piante di essere completamente sepolte dalla sabbia; le foglie sono carnose per trattenere l’acqua e chiare per ridurre gli effetti del sole; sono poi ricoperte di una peluria per ridurre gli effetti della traspirazione.

Queste piante, su cui camminiamo con indifferenza, sono uno degli elementi più importanti della comunità di specie presenti sulle dune, sia per la sofisticazione del proprio livello di specializzazione (diciamo pure ambientale specifico) che per il ruolo che svolgono per il successo di sopravvivenza delle specie meno resistenti che si insediano negli spazi retrostanti.

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(Eryngium-maritimum     foto di Svdmolen )

 

Man mano che ti allontani dalla riva, il profilo della spiaggia tende ad aumentare di altezza rispetto al filo dell’acqua della battigia. Infatti, la presenza di queste piante intercetta i granelli di sabbia sollevati dal vento, creando le condizioni per l’accumularsi della sabbia sotto forma di dune. Senza queste piante non si potrebbero formare le dune e la sabbia si poserebbe molto più verso l’interno e in modo più dispersivo.

Viene così a crearsi un “sistema dunale” interconnesso il cui meccanismo di funzionamento crea condizioni di vita progressivamente più permissive all’allontanarsi dalla riva.

La formazione delle dune consente il sollevamento del vento che, agendo come gli “spoiler” dell’auto, lo deviano, creando una successiva depressione e un vuoto dove la forza ridotta del vento elimina uno dei fattori di ostilità e facilita l’attecchimento di altre piante, innescando una serie di dune ed avvallamenti sempre più in alto rispetto al livello dell’acqua della battigia.

Nel tempo, il deperimento e conseguente decomposizione della vita vegetale arricchisce di sostanze organiche e nutritive la composizione del substrato sabbioso. Con una crescente componente organica, si dà avvio alla trasformazione della sabbia che diventerà suolo. Lo strato superficiale che viene a formarsi sia per la presenza di sostanze organiche che di acqua piovana e di altri nutrienti, favorirà il germogliare di semi sopraggiunti grazie al vento e la crescita di specie diverse di piante e arbusti; e la sequenza innescata continuerà anno dopo anno a cambiare la composizione del suolo e la presenza di forme di vita (vegetale e non).

Nelle aree dunali depresse, il minore effetto corrosivo di sale, sabbia e vento piano piano porta anche a un cambiamento morfologico della spiaggia, che si trasforma da un assetto sabbioso e arido in una progressiva situazione boschiva.

Se guardate bene noterete che il colore delle dune cambia diventando sempre più scuro dove vi è una maggiore presenza di forme vegetali. Dal color sabbia diventano grigie e poi brune per via del colore dei rispettivi terreni. La presenza di muschi e di licheni forma un tappeto di colore grigio e la copertura che essi offrono contrasta l’evaporazione dell’acqua piovana e la presenza di altro materiale organico in superficie,  facilitando la colonizzazione da parte di altre piante. Le quali, primeggiando, si sostituiscono alle iniziali psammofile e favoriscono invece, ad esempio nelle dune brune (chiamate così per il colore bruno del suolo derivante dalla presenza di humus acido) la presenza di pini e querce.

Questa capacità di adattamento di una specie rispetto ad altre alla fine creerà le condizioni anche per la presenza di vita animale variegata.

Ovviamente il susseguirsi degli eventi ha richiesto tempo per essere naturalmente completato. Anzi, lo sviluppo naturale ha subìto sicuramente anche delle interruzioni causate da fattori esogeni, dando dinamicità allo sviluppo. Una forte mareggiata o tempesta di vento può modificare la linea di spiaggia in una sola notte alterando quindi la presenza delle piante psammofile dunali e di conseguenza cambiando la morfologia del territorio e quindi anche il sistema ecologico conseguente.

Il sistema dunale quindi è un buon esempio per illustrare il complicato percorso che la Natura segue al fine di consentire la continuità della vita animale o vegetale. L’alternarsi nel tempo di capacità di adattamento delle specie alle diverse condizioni che si vengono a creare spiega come si arriva ad un equilibrio in un eco-sistema. Un equilibrio che comunque la Natura stessa può sempre alterare (un’eruzione vulcanica, un’alluvione o un incendio).

Anche l’intervento umano è un fattore esogeno di disturbo e interruzione. Nel tentativo di restituire al pianeta ciò che abbiamo distrutto, è possibile accorciare il tempo necessario alla Natura per trasformare (e ri-trasformare) la spiaggia o il pascolo in bosco? Potremo mai intervenire nella successione appena descritta?

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(Achillea marittima)

 

I progetti di ripopolamento (sia vegetativo che animale) mi ricordano l’inseminazione artificiale e le modificazioni genetiche: il tentativo dell’Uomo di dominare la Natura.

La nostra conoscenza dei processi dell’evoluzione è ampia. Applicando con diligenza quanto sappiamo potremmo risparmiare spazio e tempo accelerando quei processi naturali che hanno impiegato anni per compiersi. Soprattutto, siamo in grado di evitare madornali errori che le improvvisazioni inevitabilmente comportano.

Abbiamo tutto quanto serva per andare spediti verso l’obiettivo.

 


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Ognuno di noi almeno una volta ha sognato di potersi tuffare in mare dal proprio terrazzo come fa il Commissario Montalbano dalla sua casa affacciata direttamente sulla riva di Licata.

Siate onesti!

Avrete anche notato però che accanto alla sua casa ve ne sono altre.

E altre ancora tappezzano il perimetro della nostra Bell’Italia.

Da una visione dal satellite vedrete che sulle coste di praticamente ogni parte del pianeta quell’immaginaria continuità battigia-bosco/foresta è stata interrotta.

Ogni casa, strada, rete ferroviaria costruita ha distrutto gli equilibri degli ambienti naturali come quello che vi ho raccontato. Dove non ci sono case, ci sono stabilimenti balneari, ristorantini romantici, chioschi bar, parchi gioco, insediamenti industriali, centrali termiche. Ognuno di questi ha calpestato le psammofile che sono state decespugliate ed eliminate, e con loro la catena di vita conseguente.

Se ormai il danno è fatto e non è possibile tornare indietro basta fare una lunga passeggiata dalla battigia ai monti per vedere gli errori commessi e imparare da essi.

Attenzione però.

La soluzione non è vietare ma individuare come poter soddisfare i bisogni in modo neutrale sull’ambiente. Il divieto deve essere un mezzo e non un fine. Vietare di mischiare la plastica con i rifiuti organici è il mezzo per poter riciclare sia la plastica che il materiale organico. La finalità è il riutilizzo. Un po' come dire che la sostenibilità è nel riciclo e non nella differenziazione della raccolta dei rifiuti.

Il problema è serio quando invece si parla di infrastrutture di uso comune che necessariamente comportano un impatto ecologico: strade, viadotti, ferrovie, impianti idrici.

Diventa un momento di scelta.

Il passaggio verso la sostenibilità è un po' come quando si decide di fare yoga.

Se ci si limita ad inquadrare lo Yoga come una serie di esercizi fisici che donano flessibilità al nostro corpo e ti regalano l’eterna giovinezza, se ne trascura la portata mistica e conseguente armonia vitale ampiamente raccontate nel Bhagavad Gita. Il vero yogi non è un fisiatra ma un filosofo.

Se ci convinciamo che per “salvare il Pianeta” basti una pista ciclabile perdiamo di vista la lunghezza della catena di decisioni da prendere.

E’ necessario fare delle scelte non in termini di decrescita ma al contrario: quale produzione ci consentirà di soddisfare i nostri bisogni (attuali e futuri) e nel contempo essere ecologicamente neutrali?

La sfida della futura rivoluzione industriale è proprio questa.

Certamente impedire la costruzione di complessi residenziali a venti metri dalla riva è una scelta coerente, ma non risolve la problematica della necessità di residenze. Il dilemma è lo stesso se si tratta di una ferrovia o di una discarica.

La questione vera è l’antropizzazione.

Attenzione quindi a dove mettiamo i piedi. Calpestare la vegetazione delle dune influisce fortemente sulla pineta retrostante, ma anche sul pianeta sottostante.


*LUIGI EPOMICENO (Nato nel 1957. Sono mezzo americano e mezzo italiano, pugliese di origine, forse greco di stirpe, romano di adozione, con soste prolungate a Firenze, Milano, Genova, Chicago e Londra e continue a Parigi, Marsiglia, Madrid, New York, Amsterdam, Eindhoven, Dusseldorf, Monaco di Baviera, Praga, Amburgo, Bruxelles e Lisbona. Ho girato tutta la Grecia, l’Albania, la Francia, la Spagna, la Turchia e gli USA e ho messo piede in tanti altri posti che neanche ricordo, da Seul a Iguazù, dal Canada al Marocco passando per le isole Lofoten. Ora sono in un altro mondo. Un mondo nel Mondo. Da quasi un anno e mezzo sono il Direttore Generale del Bioparco di Roma. Prima ho fatto tante altre cose. Alcune divertenti, altre meno)


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