UNA FINESTRA SULLA NATURA - 10) RIP

di LUIGI EPOMICENO*

Non so perché, ma quando (ovviamente al sicuro!) guardo gli animali un senso di tenerezza si diffonde in tutto il mio corpo, e, come si dice, “mi sciolgo.”

Una sensazione quasi paterna che nasce quando scorgo quegli atteggiamenti di ingenuità o innocenza che l’animale, ignaro dei fatti quotidiani dell’esistenza umana, compie con naturalezza.

L’ orecchio che svirgola rapidamente, la punta della coda che si curva, gli occhi che si socchiudono lentamente, il forte soffio liberatorio del respiro. Piccoli gesti che mi trasmettono un apparente stato di agio dell’animale: qualunque sia, un gatto o un rinoceronte, un cetaceo o un pettirosso.

Non mi viene in mente di torcergli neanche un capello! (Ammesso che ne abbia.)

O forse dovrei dire pelo?

Già. Gli animali (sempre che ne abbiano) hanno capelli o peli?

Per noi esseri umani la presenza o assenza di entrambi sono un problema (ma anche un’ opportunità) non di poco conto.

Prendiamo i capelli.

C’è chi nasce senza e chi li perde. Chi li ha ma li taglia completamente e chi se ne lascia pochi. Chi li lascia solo da un lato e chi solo sopra la testa. Chi li ha neri e chi viola, e chi entrambi i colori. Chi li mette a treccia e chi invece l’attorciglia. Chi di trecce ne fa mille. Chi si fa la treccia e poi la taglia. Chi la vende e chi se la compra. C’è poi chi di mestiere fa le trecce agli altri, chi le lava, chi le colora.

E i peli?

Li abbiamo addosso: sulla faccia, sul petto, sulle gambe, sulle spalle, sull’inguine. Persino sotto le braccia. C’è chi li vuole. E chi no. Chi se li toglie e chi se li fa togliere.

Tralascio le considerazioni di natura socio-economica che ruotano attorno ai capelli o peli come l’industria di rasoi o forbici, lamette, cerette, schiume, creme, lozioni, saponi e olii. La moda.

Insomma, la cheratina fa girare teste e denaro.

La differenza tra capello e pelo non è il posizionamento: capelli sulla testa, peli sul corpo.

Entrambi svolgono due funzioni, di protezione e di percezione. Anche i più corti, quelli quasi invisibili, fanno da sensori e trasmettono al cervello stimoli tattili anche leggerissimi.

La discriminante maggiore tra peli e capelli è la dimensione, sia in spessore che in lunghezza. I capelli tendono a crescere di continuo; i peli sono più corti e sottili, la loro crescita tende a fermarsi. I capelli sono più spessi dei peli.

Kibo e Thomas sono due esemplari di Rinoceronti bianchi che ho la fortuna di poter ammirare ogni giorno.

Due animali da tre tonnellate ciascuno, che sebbene siano chiamati bianchi in realtà sono di un grigio chiaro. Il bianco viene dall’inglese white che a sua volta è un’attribuzione derivata dalla trasformazione della parola wide (wijd in olandese) che vuol dire largo.

Infatti rispetto al cugino nero il Rinoceronte bianco ha una bocca più larga e per questo da wide si è arrivati a white.


Kibo e Thomas M Di Giovanni   Archivio Bioparcojpg

(Kibo e Thomas   foto di M. Di Giovanni - Archivio Bioparco)

 

In una delle mie visite “dietro le quinte”, Kibo era posizionato di spalle. La sua coda piuttosto corta compiva movimenti diversi: a volte circolari, a volte orizzontali, altre verticali. Quasi mai rimaneva ferma.

Il rumore dell’acqua che cadeva nella pozzanghera di fango davanti alla stalla copriva quello dei miei passi di avvicinamento e Kibo non si era ancora accorto della mia presenza. Non ho resistito e ho poggiato la mano sul suo fianco.

Nel farlo, sono stato colpito da una duplice elettrizzante percezione: prima il calore del suo corpo e poi la ruvidezza della sua pelle. Più tardi, accomunai l’esperienza a come quando si posa la mano sull’asfalto caldo di strada: la stessa ruvidezza e la stessa sensazione di calore. Non so se mi spiego.

Anche se il mio gesto è avvenuto in silenzio, Kibo, nonostante lo spessore della sua corazza, si è immediatamente accorto della mia presenza, e con tranquillità si è voltato verso di me. Le sue orecchie coniche ruotavano indipendentemente in ogni direzione come dei radar e con lo stesso scopo di identificare la provenienza delle onde sonore. Gli occhi fissavano i miei, e le labbra accompagnavano la masticazione del fieno che aveva in bocca.

Nessuno dei due aveva paura.

Almeno non io.

Quasi immobile, a parte il movimento della bocca, ho avuto la possibilità di scrutare ogni dettaglio della sua testa. Enorme, che mi ricordava, per dimensioni, quella dell’elefantessa Sofia. Dal muso fino alla sommità del cranio, all’attaccatura delle orecchie, calcolai circa 70 centimetri. Per darvi un’idea, sono dieci in più della larghezza della vostra lavatrice.

Il contrasto tra la dimensione del cranio e quella degli occhi però lascia interdetti. Il rapporto mi sembra sbilanciato. Anche qui, per darvi un’idea, poggiate il nocciolo di una pesca accanto alla lavatrice e vedrete di quale proporzione sto parlando.

Al contrario, la maestosità del corno che spunta poco sopra le due narici dà al Rinoceronte la ferocia preistorica che associamo ad un animale della savana. E’ l’elemento di contrasto tra quella tenerezza di cui parlavo in apertura e l’appartenenza alla Natura.

Il corno.

Ci sono innumerevoli modi di dire che riguardano i capelli.

Più corna che capelli (non molto carino da usare). Averne fin sopra i capelli. Far rizzare i capelli. Prendersi per i capelli. Spaccare il capello in quattro. Non spostarsi di un capello. Prendere la fortuna per i capelli.

C’è un modo di dire che in particolare interessa il Rinoceronte e vi spiego subito il perché: “non torcere un capello.”

E c’è anche un verbo che interessa ancor di più il Rinoceronte: il verbo scornare.

I due corni ricurvi che Kibo mi ha ostentato nel girarsi verso di me mi sembravano blocchi di pietra. Ho pensato che il loro peso fosse la causa del capo chino che caratterizza la specie.

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(Kibo e i suoi due corni           foto di M. Di Giovanni – Archivio Bioparco)

 

Luca (il guardiano padre-adottivo di Kibo) mi spiegava che quel corno è fatto di cheratina, la stessa sostanza dei nostri capelli e pertanto il suo peso non è quello di un osso, men che mai di una pietra. Dovrebbe aggirarsi attorno ai 12 chili.

Considerando che Kibo ne ha due, uno grande e un secondo più piccolo, parliamo di circa 20 chili di corni.

Di Cheratina!

Dal greco keras: ovvero (indovinate un po'!) corno.

Ed è qui che tutto si intreccia.

Il percorso evolutivo seguito dal rinoceronte l’ha portato a sviluppare uno o due corni, su quello che sarebbe la sua fronte, per un motivo. Probabilmente per difesa, visto che il suo peso e conformazione fisica sono poco adatti alla fuga. Non ha zanne appuntite come un grande felino, né può semplicemente volare via.

Se quel corno ha un suo perché, non c’è un perché gli andrebbe tolto.

Il corno è fatto di calcio, melanina e, soprattutto, cheratina (la sostanza dei nostri capelli e peli e delle nostre unghie).

Di queste tre sostanze non vi sono evidenze scientifiche che dimostrino che curino il cancro; che agiscano sulle sbornie; oppure che abbiano proprietà anti-piretiche. Anzi, alcuni studi dimostrano il contrario.

Eppure c’è chi attribuisce al corno del rinoceronte proprietà miracolose per una vasta gamma di malattie. Pare che funzioni anche contro la possessione dal demonio e che abbia effetti afrodisiaci!

Se vi è qualche relazione tra la cheratina e le cure oncologiche è data dalla presenza della cheratina KRT23 che invece non è nemmeno presente nel corno del povero rinoceronte bensì nel nostro pancreas.

D’altro canto se la cheratina fosse così miracolosa ci basterebbe preparare dei piatti conditi con le nostre unghie e capelli per vivere felici e contenti.

Invece, nonostante l'infondatezza scientifica, le credenze ancora presenti nelle culture di alcuni popoli alimentano un mercato nero di proporzioni inimmaginabili, nonché il conseguente bracconaggio.

Risulta che il prezzo finale, nella catena distributiva di un corno, si aggiri attorno a $ 100.000 al chilo. Il doppio dell’oro. Un corno “vale” ben oltre un milione di dollari. Di cui “solo” una piccola parte va a chi fa il lavoro sporco.

Ma la perversione umana ha reso il corno anche un bene di lusso. Bastoni, manici di coltelli e pistole, maniglie delle porte e altri oggetti di arredo.

In barba al folle costo di vita richiesto per soddisfare una altrettanto folle domanda. Peggio ancora, al diminuire dell’offerta aumenta il prezzo, rendendo il bracconaggio ancora più “redditizio.” 

Con questo in mente, quando, passeggiando per il parco, mi fermo a guardarlo mi domando se la tenerezza che si sprigiona dai 3.000 chilogrammi di Kibo non sia che una manifestazione di gratitudine per le angherie risparmiate. O se invece sia segno del dolore provato nel sapere che c’è chi perde la vita per salvare la sua.


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Pochi giorni fa è stata diffusa la notizia dell’uccisione in un attacco in Burkina Faso del giornalista David Beriáin, del suo cameraman Roberto Fraile e del conservazionista Rory Young. Altri tre eroi della battaglia contro il bracconaggio e i bracconieri che si aggiungono a tanti altri eroi che cadono ogni anno nella stessa lotta per salvare i rinoceronti, gli orango, i gorilla silver back ma anche tante altre specie.

Il bracconaggio è una cosa non solo seria ma anche molto diffusa. Riguarda il traffico illegale non di corni o zanne ma di Natura e con il passare del tempo, nonché dell’indifferenza, ha raggiunto proporzioni gigantesche, diventando tra le attività illegali più redditizie, dopo il traffico di droghe, armi e di esseri umani.

La società si indigna di fronte ad episodi di sanguinosa criminalità. La diffusione delle terribili immagini che testimoniano le efferate rapine che vengono compiute potrebbe forse fungere da campana per richiamare l’attenzione su un fenomeno che interessa tutti, ma si preferisce non urtare la sensibilità individuale, che equivale a “non ti curar di loro ma guarda e passa.”

Le popolazioni indigene cacciano per bisogno. Vivono in territori poveri dove non si sa come passerà la giornata o la nottata, dove non è certo il pasto o neanche una bevuta. Cacciano per fame, e non solo animali ma anche vegetazione.

Qualcuno si avventura sulla strada dell’illecito. Forse ignaro delle conseguenze, o forse no. Cercano quel corno, quella zanna, quella pelle che servirà a soddisfare futili usi: un tappeto, un soprammobile, un anello o una polvere magica. Pochi dollari per un giorno di lavoro, in cui i cacciatori stessi corrono pericolo di vita: cacciati a loro volta da polizie addestrate, da altri animali o, addirittura, dalle loro stesse prede.

Il crescendo globale negli ultimi anni di una più diffusa consapevolezza che sia giunta l’ora di cambiare registro e visione a breve scadenza, sentimento ancor più esasperato con l’arrivo della crisi pandemica, purtroppo non abbraccia con la dovuta severità il reato di rapina contro la Natura.

E’ come se dinanzi alla scelta da che parte stare non si riesca a fare il dovuto passo.

Si continua a depredare i mari e le foreste; vengono decimate specie di ogni tipo; e come se non bastasse vengono distrutti gli habitat in cui la Vita vive.

David Beriáin era un reporter specializzato nel giornalismo di indagine e a quanto pare era ancora una volta alla scoperta di verità nascoste. Il Burkina Faso è zona di innumerevoli attacchi da parte di molti gruppi armati presenti che si finanziano con attività illecite, tra cui anche il bracconaggio.

E’ cosi anche nel Congo dove nel Parco del Virunga si compiono ogni anno altri eccidi di esseri umani e di animali, sempre per lo stesso scopo. In altre regioni dell’Africa, India, Sud America e in Oriente si perpetuano gli stessi crimini.

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(Zoe – Orangutan   foto di M. Di Giovanni – Archivio Bioparco)


Questo è il racconto di un viaggio senza ritorno e dedicato agli eroi pronti a sacrificare la propria vita per salvare la Natura dal suo nemico più feroce.

Il ringraziamento migliore che l’Umanità può offrire a costoro è di riuscire a superare l’indifferenza del “non ti curar di loro, ma guarda e passa” e intraprendere il cammino che consentirebbe di “riveder le stelle.”

RIP.



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*LUIGI EPOMICENO (Nato nel 1957. Sono mezzo americano e mezzo italiano, pugliese di origine, forse greco di stirpe, romano di adozione, con soste prolungate a Firenze, Milano, Genova, Chicago e Londra e continue a Parigi, Marsiglia, Madrid, New York, Amsterdam, Eindhoven, Dusseldorf, Monaco di Baviera, Praga, Amburgo, Bruxelles e Lisbona. Ho girato tutta la Grecia, l’Albania, la Francia, la Spagna, la Turchia e gli USA e ho messo piede in tanti altri posti che neanche ricordo, da Seul a Iguazù, dal Canada al Marocco passando per le isole Lofoten. Ora sono in un altro mondo. Un mondo nel Mondo. Da quasi un anno e mezzo sono il Direttore Generale del Bioparco di Roma. Prima ho fatto tante altre cose. Alcune divertenti, altre meno)


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