UNA FINESTRA SULLA NATURA 1) Giada

di LUIGI EPOMICENO* 

Mi avevano informato che stavo entrando in un’area dove non tutti potevano accedere. Qui si potevano vedere gli animali da un altro punto di vista, più intimo, più riservato. Mentre mi avvicinavo sentivo odori diversi, di una presenza che ancora non vedevo. Qualcuno alle mie spalle, sicuramente più abituato di me all’esperienza che stavo per vivere, scambiava parole con il vicino. Io invece, forse per quella timidezza della prima volta, forse per un senso di soggezione o forse per semplice rispetto, sono rimasto in silenzio.

Quando sono finalmente riuscito a vederla per la prima volta ho pensato che i suoi colori erano come quelli di una nocciola tostata. Il marrone scuro del guscio esterno sull’estremità della sua coda. Il marrone più chiaro della pellicola sottile, che copre il frutto interno, macchiava con due strisce simmetriche la sua fronte. Infine il beige sabbia del nucleo centrale tingeva il suo manto e le consentiva di confondersi tra i rami e arbusti che aveva attorno.

Lei era la più anziana del gruppo, e anche la più rispettata. Con Giada non si scherzava. Nemmeno il maestoso maschio osava confidenze. Non sapevo come avrei reagito al primo incontro. Lei apparteneva in modo improprio ai “Big Five”. Anziché della savana africana, Giada era un leone asiatico.

Da profano, io non avrei mai saputo distinguere. Del resto, alla vista sono molto simili: l’africano un pochino più massiccio. All’incirca Giada pesava 130 chili. Al garrese misurava 85 centimetri e dal muso fino all’estremità della coda arrivava a più di due metri, forse due e mezzo.

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(Giada         foto di Massimiliano Di Giovanni, Archivio Bioparco)

Timidamente continuavo ad avvicinarmi, sempre in silenzio. Lei era in piedi, distratta dal maschio che sembrava volersi avvicinare ma sempre attenta a ogni rumore. Le orecchie ruotavano indipendentemente a ogni minimo suono vicino o lontano. Gli occhi fissi miravano verso la mia destra, la coda, a volte ferma e tesa e a volte in movimento vario, puntava in direzione opposta.

A tradirmi non è stato un mio rumore e nemmeno mi sono sporto in modo eccessivo, che le avrebbe consentito di vedermi: gli animali non solo sentono ogni minimo rumore ma sentono ogni minimo odore; e il mio non le era familiare. Lentamente la sua testa iniziava a rivolgersi verso di me e le sue narici si aprivano e si contraevano come le ventose di una piovra. Mi ha visto.

Lentamente indietreggiavo e togliendomi dalla sua visuale raggiungevo gli altri, che nel frattempo si raccoglievano per continuare nella mia visita esclusiva. Continuavo ad avere quegli occhi di Giada davanti ai miei, passo dopo passo. Finché non vidi altri due occhi color giada che mi fissavano. Anzi mi penetravano.

Con le orecchie abbassate, la fronte aggrottata, lo sguardo minaccioso e il respiro eccitato Jasmine, così si chiamava, ringhiando mi avvertiva di qualcosa. “Tranquillo, lo fa perché sei apparso all’improvviso” mi diceva il mio compagno di visita. Sarà, ma un piccolo tremore lungo la spina dorsale l’ho avuto.

Jasmine era una tigre del Bengala. Bellissima, come tutte le tigri. Quelle che sono rimaste e quelle che non ci sono più.

Mi raccontava il Direttore Generale del WWF India che nel periodo in cui, sotto il dominio inglese, si costruiva la rete ferroviaria, i lavoratori erano vittime di aggressioni feroci da parte di leoni e tigri. Fu allora che iniziò il loro sterminio con cacciatori pagati per ogni testa che portavano.

Il suo lamento continuava, e fu allora che vidi alle sue spalle un avanzo di ciò che stava masticando. Le avevo disturbato il pasto della giornata. Non è rispettoso disturbare la tigre che mangia, e decisi di lasciarla in pace, ritornando sui miei passi, di nuovo verso Giada.

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(foto di Luigi Epomiceno)

Per qualche stupida convinzione mi sono avviato verso il punto di partenza sicuro di me, come se stare in quel posto fosse la cosa più naturale. I nostri sguardi si sono nuovamente incontrati: lei era come una sfinge, immobile e accucciata; io in piedi e incoscientemente spavaldo.

Ci sono molte specie di felini, ognuna con caratteristiche diverse, ma sembrano avere tutte un minimo comune multiplo che noi umani rintracciamo nel gatto domestico. E come accarezzi o maneggi un gatto, la fantasia ti porta a voler passare la mano sulla capoccia o nella folta criniera di un leone o a giocare con la sua pesante zampa. Anche io sono caduto in quell’infantile inganno. La Natura porta i leoni ad essere socievoli, ma tra di loro. Per quanto avrei potuto amarla, Giada non mi avrebbe mai visto come suo simile. Anzi.

Il suo sguardo da disteso stava diventando attento. Aveva arricciato la fronte e si stava molto lentamente sollevando sulle zampe. Con la coda dritta e rigida, lentamente ha tirato su la zampa destra e ha iniziato a ruotare il suo corpo nella mia direzione. Era evidente che voleva avvicinarsi, e non certo alla ricerca di una carezza.

Prima un passo, poi un secondo e infine, caricato tutto il suo peso sulle zampe posteriori, è scattata come una molla verso di me. Un ruggito pauroso mi ha fatto vibrare la cassa toracica come un tamburo; il gelo ha invaso il mio corpo dai piedi fino alla testa; una paralisi momentanea mi ha inchiodato dov’ero lasciandomi come una statua pesantissima alla mercé di ogni cosa. In una frazione di una frazione di secondo la sua bocca aperta mi era davanti pronta a ….

Meno male però che tra me e Giada c’era un vetro.

E sì, perché non ero in una savana. Ero al Bioparco di Roma. E probabilmente questa mia esperienza sarà il più vicino che io potrò mai essere a un leone, vivo.


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Di viaggi ne ho fatti tanti. Pochi per piacere, un po' di più per lavoro. Il mio lungo cammino professionale mi ha portato da un’aula di liceo alla direzione del Bioparco di Roma, passando per svariate multinazionali di diversa natura e nazionalità. Poi un passaggio nel mondo associativo dell’ambientalismo e infine nel giardino zoologico amato dalla cittadinanza di Roma. Una fortuna che capita a pochi.

In Natura è difficile che una tigre viva oltre dieci anni. Hanno vita difficile le tigri, sia per “cause naturali” sia perché vittime, quasi preferite, di un’attività di spietato bracconaggio. Nessuno sapeva con esattezza quanti anni avesse Jasmine. Si stima 20 o forse 21.

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(Le leoncine nate nel Bioparco nel 2020              foto di Massimiliano Di Giovanni, Archivio Bioparco)

Quindici anni or sono un SOS proveniente da uno zoo croato in difficoltà ha portato il Bioparco a dare un supporto per ospitare alcuni esemplari di lupi. L’aiuto andò oltre, e ai lupi si aggiunsero due orsi siriani, una tigre priva di un occhio e lei, Jadzia, da noi chiamata Jasmine. Tutti provenienti anni prima da sequestri a un circo.

Giada invece di anni ne aveva 18. Anche i leoni hanno vita difficile. Possiamo immaginare perché. ma la sua è stata una vita tranquilla, molto più della povera Jasmine.

Il salto di Giada ha lasciato il veterinario a me vicino molto sorpreso, visto che era affetta da una forma di artrosi avanzata che lui stava trattando. Infatti notai che i suoi passi felpati erano un po' titubanti, evidente segno di qualche dolore e acciacco. Un po' come i nostri nonni.

Purtroppo questo risveglio di energia non è continuato per molto, perché pochi mesi dopo Giada ci ha lasciati, in modo quasi sovrannaturale visto che è quasi impossibile per un leone resistere 23 anni nella savana. Così è successo anche per Jasmine.

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(Jasmine       foto di Massimiliano Di Giovanni  archivio Bioparco)

La fortuna ha fatto sì che fosse la Natura a portarle via, salvate da quella cattiveria che solo gli esseri umani mostrano verso altri, della sua specie e non.

Ed è quella Natura che ho il privilegio di vivere ogni giorno al Bioparco.

Giada era in buona compagnia: un maestoso maschio e una seconda femmina, che hanno dato alla luce due cucciole nell’aprile del 2020, in piena pandemia Covid. Come amici Giada e Jasmine avevano tigri del Bengala, leopardi persiani e linci, lemuri, scimpanzè e oranghi, orsi, ippopotami, zebre, struzzi, testuggini e altri ancora. Tutti animali non comprati né rapiti dalla natura, ognuno con una sua storia, spesso triste, sottratti alla malvagità e a cui è stata data una seconda vita.

Come dicevo ho avuto questa grande fortuna e dopo una carriera spesa ad arricchire gli altri sono giunto in questo rifugio del tutto naturale. Sorprendere le foche grigie che si rincorrono l’un l’altra, i Suricati che si scaldano a vicenda o le zebre che galoppano freneticamente, i due rinoceronti bianchi che si stuzzicano e giocano nel fango grigio come due bambini in riva al mare mi riempiono di quella gioia che le vicende quotidiane del mondo mi tolgono.

Il viaggio che più di ogni altro raccomando è quello che ti arricchisce lo spirito. La disavventura umana della pandemia del Coronavirus sembra stia risvegliando l’essere umano, indicandogli un diverso percorso di salvezza. Per salvare l’Uomo dobbiamo salvare il Pianeta. E per salvare il Pianeta dobbiamo prima di tutto conoscerlo. Il Bioparco di Roma è un buon inizio di quel percorso.


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*LUIGI EPOMICENO (Nato nel 1957. Sono mezzo americano e mezzo italiano, pugliese di origine, forse greco di stirpe, romano di adozione, con soste prolungate a Firenze, Milano, Genova, Chicago e Londra e continue a Parigi, Marsiglia, Madrid, New York, Amsterdam, Eindhoven, Dusseldorf, Monaco di Baviera, Praga, Amburgo, Bruxelles e Lisbona. Ho girato tutta la Grecia, l’Albania, la Francia, la Spagna, la Turchia e gli USA e ho messo piede in tanti altri posti che neanche ricordo, da Seul a Iguazù, dal Canada al Marocco passando per le isole Lofoten. Ora sono in un altro mondo. Un mondo nel Mondo. Da quasi un anno e mezzo sono il Direttore Generale del Bioparco di Roma. Prima ho fatto tante altre cose. Alcune divertenti, altre meno)


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