Tutti i Legoland del Mondo

di GIGI SPINA *

Quando ero ragazzino giocavo, coma da contratto, coi soldatini. Di piombo. Che in realtà erano pompieri: una squadra indimenticabile, con uno che portava un secchio attaccato alla mano. Che fine avranno fatto? Mica sapevo che a un certo punto si sarebbe stati affamati di ricordi e oggetti culto. I miei genitori avevano da dimenticare (la guerra) più che da ricordare, quindi quel meccanismo conservativo in previsione della vecchiaia non me l’avevano trasmesso. Il matrimonio precoce sì, invece.

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Per cui, qualche anno dopo il mio percorso adolescenziale con pellirosse e cowboys  - di gomma dura i migliori, col fortino di legno ricevuto a suo tempo da Babbo Natale o dalla Befana - per mia figlia arrivarono i Playmobìl, con l’accento sulla ‘i’, novità assoluta e intriganti anche per gli adulti; finché col secondo figlio (del secondo matrimonio) arrivarono, per via materna, i Lego. Indiscutibilmente globali e immortali, nonché pronti a tutto.

E a prova di rete. Anzi. Perché scoprimmo, allora, che c’erano quattro parchi di divertimento Legoland nel mondo e quindi prima o poi toccava visitarli tutti, per capire cos’erano davvero i Lego nella loro humus (sì, essendo filologo, ci tengo a usarlo al femminile).

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Il programma fu presto approntato: nel 2005 Carlsbad, il parco americano aperto nel 1999; nel 2007 Günzburg (Germania), il parco europeo più recente, aperto nel 2002; nel 2008 Billund (Danimarca), la casa madre, anzi la madre di tutti i mattoncini, aperto nel 1968; nel 2010 Windsor (Inghilterra), il parco dell’isola, aperto nel 1996.

Perché cominciammo dagli Stati Uniti? Perché ci trovavamo sulla costa californiana, grazie a una delle Biennial Conferences della ISHR, la International Society for the History of Rhetoric; mica ho fatto sempre il redattore di foglieviaggi; ho fatto per molti anni l’editor italiano per Rhetorica, la nostra rivista internazionale. Era il 2005, come ho detto. Nel 1997 avevo cominciato con Saskatoon, nel mezzo del Saskatchewan, nel mezzo del Canada; poi sono venute Amsterdam (1999), Varsavia (2001), Madrid/Calahorra (2003), Los Angeles (2005), Strasburgo (2007), Montréal (2009), Bologna (2011). Assente nel 2013 a Chicago per nascita del nipotino, a Tübingen nel 2015 l’ultima partecipazione.

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Insomma, un vero e proprio giro retorico del mondo con cadenza biennale, di cui si approfittava per prolungare il soggiorno professionale in periodo di vacanza, visto che gli incontri si svolgevano sempre a fine luglio.

Quando ci si riunì a Los Angeles, la costa californiana fu una mèta naturale per completare alla grande il viaggio, fino a San Francisco: Legoland era sulla strada e non la mancammo.

Non dirò che i parchi Legoland sono tutti uguali; magari a prima vista lo sembrano, poi si scoprono le caratteristiche locali, anche se l’elemento comune, quasi una sfida fra i diversi Legoland, è il mondo a misura di mattoncino, rappresentato da città, monumenti, comunità e singoli intenti alle attività più disparate della vita quotidiana; dagli innamorati che si baciano ai bar in piena attività; dal corteo di qualche Presidente con macchine e scorta agli scalatori intrepidi su una montagna; dalla prostituta che passeggia su una via solitaria ai giocatori di rugby o cricket; dalle sezioni di case, ricche di utensili e mobili a tranquilli picnic. Eccetera eccetera. Il tutto ad altezza di essere umano di qualsiasi età. Il numero dei mattoncini impiegati per ciascun complesso architettonico, rigorosamente comunicato da ben visibili cartelli, è impressionante; spesso la presenza di giganti riparatori riportava alle dimensioni della realtà, quando non erano un piccione o un’anatra a godere della sproporzione dell’intruso.

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Ma non fu solo l’occhio a reclamare e ottenere la sua parte, potendo riconoscere, sin dall’ingresso nel parco personaggi di fantasia o della realtà dolcemente spigolosi, ma pronti ad accogliere umani di tutte le taglie fra le loro braccia, seduti accanto a loro in una panchina, in posa per le immancabili fotografie.

Anche la creatività, presente e futura, trovò subito i suoi luoghi.

Presente, perché all’interno dei vari padiglioni si poteva costruire di tutto: cesti pieni di mattoncini di tutte le taglie e colori erano a disposizione per le fantasie più sbizzarrite. Si potevano inventare e realizzare, in particolare a Windsor, macchine, se non celibi, inconcepibili, che, purché dotate di ruote, competevano fra loro in batterie di gare su piste in discesa, la cui partenza era regolata dal concorrente più intraprendente, il primo a far abbassare la barriera, come in un qualsiasi palio. Naturalmente le lingue e le nazionalità si incrociavano coi gesti eloquenti di adolescenti intenti al gioco, non alieni dallo sperimentare in loco le parole straniere imparate sui banchi di scuola. In più, era possibile visitare i laboratori della progettazione e vedere in diretta la nascita di nuovi mondi, ideati da tecnici e specialisti di primo livello.

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Sommessa raccomandazione: i genitori rimangano alla larga, non rovinino questo spazio e questo tempo con capricci da mancati bambini o con manie di grandezza da mancati adulti, neanche nel ricordo.

Futura, perché in particolare a Billund si trovavano pezzi Lego impensabili, dritti, curvi, a forma di qualsiasi forma e colorati di qualsiasi colore. Non si poteva, allora, acquistare comodamente in rete, per cui i veri pezzi rari si trovavano a Billund, solo lì. Bastava immaginare il loro uso una volta tornati a casa e, mettendo mano al portafoglio, riportarli come un prezioso bottino di guerra.

Il resto delle attrazioni dei parchi, molto simili a Disneyland o Acquapark, può essere passato sotto silenzio.

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Un piccolo bilancio: se Billund si fa ammirare per il fascino della primogenitura e per la sana e compiaciuta ostentazione di chi ha veramente rischiato e vinto, il parco tedesco, abbastanza vicino a Monaco, conquista per la precisione e la minuzia delle ricostruzioni. Non solo lo stadio, le cui visioni in sezione mostrano persone (pardon pupazzi) e cose distribuite in scene di vita reale, ma ogni monumento, casa, scena, luogo è ricostruito con una precisione e verosimiglianza incredibili.

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Sto parlando ormai di dieci e più anni fa. Mi piacerebbe sapere se almeno in quelle città di mattoncini l’ultimo anno è stato più sereno.



*GIGI SPINA (Salerno, 1946, è stato professore di Filologia Classica alla università Federico II di Napoli. Pratica jazz e tennis. Gli piace pensare e scrivere, mescolando passato e presente)   


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