Tredicesima tappa, Ravenna-Verona - Omaggio a Dante e alla salama da sugo

di ANDREA ALOI*

Chi sarà così raffermo nella sua incivile noncuranza da negare l’attuale drammatica consistenza della “dedica” dantesca all’Italia, nel Purgatorio bollata come ostello di dolore e bordello? Eppure, a sorvolare e soppesare la corsa dall’alta Romagna alle rive dell’Adige, itinerario che più dedicato all’Alighieri non si può, noi, “queti, sanza mostrar l'usato orgoglio”, si deve dire al mondo: ecco la terra nostra piena di grazia. Di antiche umanissime pietre, di mecenatismo vero, di una variegata sedimentazione di culture (e di superbe separatezze), cibi, dialetti. Sommate, per questi duecento chilometri tra Emilia Romagna, Lombardia e Veneto, ciò che l’opera dei nostri maggiori ci ha lasciato, dalla Ferrara ducale al bacio tra natura e urbe di Mantova e vedrete un giacimento senza pari, già così, con una manciata di province, bastante a sbaragliare più di una grande nazione.

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(Ravenna   foto da pixabay)

Si comincia da lì, da un tempietto neoclassico dove giacciono i resti di uno dei nostri Padri. Dante muore a Ravenna, in seguito a malaria presa nelle paludi di Comacchio, è l’ultima tappa dell’esilio perpetuo cui l’ha condannato Firenze, “madre di poco amore”, com’è scritto nell’epitaffio. Lontano dalla patria sua che aveva servito, ha scritto, continuato a combattere politicamente e diplomaticamente. Cercato e trovato ospitalità importanti a Forlì dagli Ordelaffi, a Bologna, a Padova, nella Marca Trevigiana, in Lunigiana, nel Casentino, forse a Parigi, a Verona, accolto da Cangrande della Scala, fino a Ravenna, sotto l’ala del podestà Guido Novello da Polenta. La città che fu capitale dell’Impero e nervo cruciale dei rapporti con l’Oriente, un tempo assediata dal Po non domesticato e dalle sue lagune, squaderna un tesoro artistico e monumentale impressionante, da Sant’Apollinare in Classe a San Vitale ai mausolei di Galla Placidia e Teodorico. È Romagna alta, il sentire è più nordico, un porto e l’industria sono inscritti nel destino, ma guai dimenticare la fine arte del savoir vivre, che è bere e mangiare e godersi il mare. Centro trafficato da biciclette, le auto stiano fuori, a perdersi in una viabilità labirintica - può testimoniarlo chiunque abbia approcciato Ravenna in auto - che sembra disegnata da un Salvador Dalì in acido.


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(Salama da sugo)


Rotta a salire verso l’interno, Alfonsine, Argenta, cuori bracciantili di lotte dure per dignità e diritti, dove anni addietro le percentuali bulgare di voti al Pci erano di prammatica. Campagna, argini, Parco del Delta, il nostro Far Est con l’idea - e in parte pure la realtà - di una piatta infinità a mezzo tra l’opera dell’homo faber e il pulsare della Natura. Italia è anche questo e chissà se pian piano cominciamo a capirlo davvero. Meglio, anche qui, su due ruote, a passeggiar biciclando per giornate intere. Oppure - accadrà fra non molto tempo - in crociera sulla nuova, allargata idrovia ferrarese, autostrada d’acqua per trasporto merci e strepitoso diporto da Pontelagoscuro a Ferrara centro (un sogno) a Porto Garibaldi, sul’Adriatico, per un totale di 70 chilometri. Sbarchiamo, ci aspetta una culla autentica del pedale di città-campagna. Ferrara, ennesima piccola capitale, sotto il segno degli Estensi. D’accordo, le viuzze medioevali, il Castello, il Palazzo dei Diamanti, il ghetto, il nuovo Museo Nazionale dell’Ebraismo e della Shoah a raccontare l’antica presenza israelitica in città, la Cattedrale con incorporata su un fianco la Loggia dei Merciai. Occorre però segnalare un altro minimo e singolare monumento. Si trova a una trentina di chilometri da Ferrara, a Madonna Boschi di Poggio Renatico e il viaggiatore che si trovasse a passare in quelle campagne, da lontano vedrebbe prima un conturbante meteorite sollevato dal suolo, a un tempo familiare e alieno; poi, avvicinatosi, una sorta di grossa e tozza pera collocata su un piatto sopraelevato di diversi metri, e infilata sulla sommità della pera un’asta metallica. Guardiamo meglio, è un cucchiaio e la statua singolarissima rappresenta il vanto di Madonna Boschi e del Ferrarese tutto: una salama da sugo, ghiottoneria da amare e temere.

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(Mantova     foto da pixabay)


L’insaccato, ben vincolato da cordicine, quasi a frenarne il potenziale calorico-esplosivo, origina dalla cucina basso medioevale e consta di varie parti del maiale, lingua compresa, miscelate a sale, pepe, spezie e abbondante vino rosso del Bosco Eliceo, proveniente da vigne su terreno sabbioso (l’antico Po invadente) e non importa sia una doc, ma che sia tanto. La bomba suina, del peso, più o meno, di un chilo, stagiona circa un anno, si cuoce diverse ore in acqua, tenendola sospesa perché non venga a contatto con la base della pentola, se ne scopre a fine cottura la sommità e la si adagia con un cucchiaio innestato in un piatto di portata coronata da purè. I commensali già edotti e resi prudenti dall’esperienza, sposano piccole dosi di salama da sugo - ammorbidita e sbriciolabile nella texture - a guantate lenitive di purè, gli incauti la trattano come un qualsiasi cotechino, apprezzandone la particolare appetitosità, l’aroma complesso, il profumo celestiale. È un attimo, l’uso diventa abuso e se ne prende consapevolezza non nelle immediate vicinanza della cena, ma verso le prime, insonni ore antelucane, quando la salama ti spiega che lei non è di transito nello stomaco, ma ci si è installata e intende occuparlo per più tempo possibile. Non vale aspettare l’alba provando a dormire seduti come Napoleone a Sant’Elena o ingollando bicarbonato, la salama ha i suoi tempi, il tuo è precipitato dal cielo alto del ricordo piacevole nel profondo girone di una indebita gestazione. Insomma, chapeau a questo cibo iconico ma attenti.


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(L'Arena di Verona     foto da pixabay)

La corsa nella bellezza italiana continua con Mantova, per motivi di difesa fin dal XII secolo attorniata da tre laghi artificiali - Superiore, di Mezzo, Inferiore, il lago Paiolo è stato prosciugato nel Settecento - formati dalle acque del Mincio. Mura liquide per un sogno urbanistico che regala, poco fuori dal centro, la villa-museo cinquecentesca di Palazzo Te, dove acqua e cielo si specchiano in linee pure d’equilibrio rinascimentale, e Palazzo Ducale, reggia dei Gonzaga. Nel primo pagatevi l’occhio con gli affreschi di Giulio Romano nella sala dei Giganti, potenza di colore e forme, nel secondo, tanto così per gradire, la Camera degli Sposi o Camera Picta, capolavorissimo di Andrea Mantegna. Eccolo il nostro caro e vecchio umanesimo delle arti e del pensiero: vale più un metro quadrato del Mantegna di tutti i grattacieli di Dubai.


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(Bollito)

Ci siamo, a passeggio per Verona non badate agli assembramenti davanti alla cosiddetta Casa di Giulietta (quella di Romeo, proprio lei), è un falso, un colpo di marketing. E passate oltre le vie del centro tempestate dai soliti brand che si ripetono in tutte le vie dello struscio di tutte le città italiane. Mirate all’Arena, a Piazza delle Erbe, programmatevi una giornata sulla ciclovia dell’Adige. E nei momenti di relax, difficile sbagliare coi vini della Valpolicella mentre, a sostegno di uno stracotto di cavallo (maledetti…), di un ragù d’anatra, di un brasato, è bene far ricorso all’Amarone, 14 gradi di delizia. Un vino sfidante, giusto per non pensare alle proposte europee di de-alcolizzazione dei vini per i mercati arabi. Restiamo a tavola. Istituzione culinaria veronese e viatico per i bolliti è la salsa pearà, non c’entra il dolce frutto, bensì il pepe (pearà: peperata) e pure stavolta è d’obbligo il richiamo a tempi molto antichi, addirittura pre-medioevali. La ricetta prevede pane duro, midollo di bue, brodo di carne, sale, una gragnuola di pepe, facoltativo il formaggio grana, olio o burro, una lunga cottura. Non esattamente un complemento da suggerire ai corridori “pro” del Giro. Perché la pearà a differenza della piccante salsa al cren, egualmente usata coi bolliti, non causa shock immediati, ma lavora sulla distanza e potrebbe risvegliarsi malandrina il giorno dopo sullo Zoncolan.


*ANDREA ALOI (Torinese impenitente, ha lavorato a Milano, Roma e Bologna, dove vive. Giornalista all’Unità dal ‘76, ha fondato nell’ '89 con Michele Serra e Piergiorgio Paterlini la rivista satirica “Cuore”. È stato direttore del Guerin Sportivo e ha scritto qualche libro) 

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