Tre donne, tre musei 2)Isabella Stewart–Gardner   l’arte come bellezza

di MANUELA CASSARA'*

Premessa doverosa: non sono una critica d’arte, e se qualcuno alzerà un dotto sopracciglio su certe mie valutazioni soggettive, per le quali mi assumo la totale responsabilità di libera pensatrice, avrà molto probabilmente ragione. Ho messo insieme le storie di tre donne, Georgia O' Keeffe, Isabella Stewart-Gardner e lady Florence Philips; un’artista, una collezionista, una filantropa, perché ossessionate, in maniera diversa, dall’arte, accomunate, va sottolineato, da un notevole benessere sociale ed economico, anche se avrebbero potuto godersela, quella ricchezza, in altri modi. Spiriti liberi, intraprendenti, indipendenti, e per forza di cose ego riferite. Tre donne nate nell’Ottocento, che ci hanno lasciato, con le loro opere, dipinte, collezionate, trasmesse ai posteri, un perenne messaggio di bellezza.

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A Boston c’è un posto che non si può mancare: il Museo che porta il suo nome, che qualcuno ha definito “una delle Sette Meraviglie” della città. Le altre cinque non mi sembrano particolarmente degne di nota, ma la sesta vale la pena di citarla visto che è il MIT, il Massachusetts Institute of Technology, di chiara fama. Il Museo ospita una collezione di duemilacinquecento opere; c’è chi dice siano 16.000 - non sono stata lì a contarle - accumulate nel tempo e nello spazio, attraverso epoche e continenti. Arte europea, asiatica e americana. Dipinti, sculture, arazzi, arredi e arti decorative, messi in ordine sparso, con abbinamenti e collocazioni più emotivi che didascalici o didattici.  

Un museo del cuore, dove ogni pezzo è stato scelto e collocato con amore da Isabella Stewart, milionaria bohemienne che nasce bene di suo, a New York, e si sposa anche meglio con Jack Gardner, un finanziere. Era bella, Isabella, anche se noto una certa discrepanza tra le foto che la ritraggono e i dipinti, che invece la esaltano; ma d’altronde essendo commissionati dalla medesima una certa licenza poetica, specie da John Singer Sargent, era scontata. Era anche ricca, Isabella. Molto. I milioni di dollari non le mancano, non ha figli, adora viaggiare e, va detto a suo perenne credito, a gioielli e falpalà preferisce di gran lunga le opere d’arte, possibilmente Medievali, Rinascimentali, dei grandi maestri del Barocco, che già a fine Ottocento non venivano via con poco. Un hobby per pochi.

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(Un interno del museo)

La folgorazione era avvenuta durante una conferenza all’Università di Harvard, che l’aveva spinta a collezionare certe edizioni originali del nostro esimio Poeta, tra cui una Divina Commedia stampata nel 1487. Messa su quella strada, Isabella non si ferma più davanti a nulla. S’imbatte nell'Ercole di Piero della Francesca, è un dipinto murale, a casa del Maestro, a San Sepolcro. Vederlo e volerlo sono tutt’uno. Lo fa staccare dal muro non si sa come, e se lo porta a casa sempre non si sa come. Anzi, nel 1896, per dargli degna dimora, la casa gliela fa costruire intorno. Anche se, per quel gusto rinascimentale, per quelle tre file di finestre a ogiva disposte intorno ad un chiostro centrale, chiamarla casa è un po’ riduttivo, sarebbe più esatto definirla palazzo. Commissionata all’architetto Willard Sears, ispirata a Palazzo Barbaro, luogo di frequentazioni veneziane, raduno di expatriati inglesi e americani, gente come lei, molto colta e molto ricca. 

A quel primo acquisto si aggiunge un Botticelli che segna l’inizio del sodalizio con Bernard Berenson, raffinato conoscitore d’arte, che diventerà suo mentore. Seguiranno un altro Botticelli, e poi, non necessariamente in quest’ordine, un Beato Angelico, un Giotto, un Michelangelo, due Raffaello, un Tiziano, un Carlo Crivelli, un Cellini. Isabella compra ma, come ci viene sottolineato per tranquillizzarci, lo fa sempre legalmente. Qualche volta potrà essere stato necessario trafugare qualche pezzo, ma se beccata in fragrante Isabella, signorilmente, paga quel che c'è da pagare. Per lei, ammette candidamente, collezionare è come una droga, una dipendenza, come dall’alcool. Non possiamo che esserle grati per aver fatto una scelta compulsiva, ma non altrettanto distruttiva.

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(Una stanza rinascimentale)

Per Isabella questa è solo casa, dove dorme, mangia, vive, riceve, e come tale ne cura ogni angolo, muovendo un Tiziano qua e un Vermeer là, con la stessa facilità con la quale io sposto un cuscino o un posacenere in casa mia. Ed è questo che rende il Museo così speciale, così unico e affascinante: ogni angolo parla di lei, ogni singolo pezzo è un pezzo della sua vita,  racconta la sua passione, il suo gusto. Nel 1990, a novant’anni della fondazione, il Museo subisce un furto sfacciato, di quelli che sembrano pensati per la sceneggiatura di un film. Due uomini, da soli, travestiti da poliziotti, in poco più di un’ora e venti, con calma, smontando cornici e telai, riescono a trafugare tredici opere per un valore di 500 milioni di dollari, tra cui  un Vermeer, che da solo ne vale duecento,  più schizzi di Manet e Degas e tre dipinti di Rembrandt. A poco sono serviti l’impegno dell’FBI e una taglia di cinque milioni di dollari (c’è chi scrive dieci milioni), la refurtiva non è mai più stata ritrovata, sebbene alcuni pezzi minori siano stati battuti all’asta proprio in quel di Boston nei primi anni 2000. Ma le tracce si fermano lì. Quando morì, senza eredi, nel 1924, Isabella dettò le sue condizioni: la casa convertita in Museo doveva restare esattamente come lei l’aveva lasciata, voluta e pensata, e così dopo il furto, obbedienti all’imperativo post mortem di non spostare uno spillo, anche le cornici dei dipinti rubati sono state lasciate al loro posto, vuote, a imperitura memoria. 

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(Un ritratto di Sargent)

Concludo dicendo che, a me, Isabella piace molto. Come persona. Sarà anche stata un’egocentrica che poteva permettersi di appagare ogni sfizio, ma doveva essere un personcina speciale. E non solo per aver lasciato al mondo questa meraviglia di posto unico ed eclettico o per aver voluto che le opere rimanessero così come lei le aveva disposte - cosa nella quale m’identifico completamente, anche se è meglio che aggiunga “fin che campo"… - ma anche per aver decretato che tutte le sue omonime, ricche o povere, giovani o vecchie, americane o straniere sarebbero sempre potute entrare gratis, come - e questa la trovo davvero simpatica! - tutti i tifosi della locale squadra di baseball, i Red Socks.

*MANUELA CASSARA’ (Roma 1949, giornalista, ha lavorato unicamente nella moda, scrivendo per settimanali di settore e mensili femminili, per poi dedicarsi al marketing, alla comunicazione e all’ immagine per alcuni importanti marchi. Giramondo fin da ragazza, ama raccontare le sue impressioni e ricordi agli amici e sui social. Sposata con Giovanni Viviani, sui viaggi si sono trovati. Ma in verità  anche sul resto) 

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