Tokyo memories, tra i gadget del futuro e i love hotel

di MANUELA CASSARA'*

(foto da pixabay)

Fino al 2009, in Giappone ci andavo almeno due volte l’anno.  Ogni anno, per diciassette anni.  A partire da quel 1992, quando Elio Fiorucci mi aveva reclutata per cercare di rilanciare il suo marchio, che non era nemmeno più tanto suo, avendolo venduto ad un’ azienda produttrice di jeans giapponesi. Un gruppo “ichiban”, importante. Arrogante. Avevano fatto i soldi con gli abiti “surplus” importati dall’America, nell’immediato dopoguerra. Poi si erano buttati sul tessuto denim, realizzando un prodotto di alta qualità.  Dopo di che avevano iniziato a fare jeans. Ed erano diventati il Numero Uno, superando la Levis, loro mito e mentore. Basti dire che avevano scritturato un già famoso Brad Pitt per fare la pubblicità del loro ultimo modello di cinque tasche. Con la cultura Americana e Europea, come molti Giapponesi, avevano un rapporto di odio-amore. Il matrimonio con Fiorucci era stato d’interesse, loro volevano accaparrarsi un marchio sinonimo di jeans al femminile, famoso a livello mondiale. Fiorucci doveva saldare i debiti. Ma nessuna delle due parti aveva fatto bene i conti con quello che gli sarebbe costato, e che ambedue avrebbero pagato a caro prezzo: Elio con la perdita della sua storia, della sua gloria e della sua anima; la Edwin con la perdita di un pacco di soldi, nonostante gli accordi di licenza e relative royalties internazionali. Per non parlare di quelle indigene, sulle quali l’azienda aveva puntato le sue fiches, accordando l’uso del marchio a tutto campo, con la sola esclusione, forse, della carta igienica. 


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Domanda legittima, qualora foste interessati a farla: ma che ci faceva una giornalista come me, felicemente dedita allo scrivere di moda e futili motivi, a controllare calzini, vestiti e carabattole varie marchiate senza pudore “Fiorucci”? Avreste dovuto chiederlo a Elio, che aveva intravisto nella sottoscritta - dopo aver letto la mia, per niente edificante, intervista che avevo fatto in chiave psico-terapeutica - un qualche potere taumaturgico e sciamanico, in grado di fare rinascere quel suo nome tanto amato e altrettanto bistrattato.   Perché a me non erano toccati gli anni di gloria, i favolosi anni ’70, gli esaltanti ’80. Mi ero persa Madonna, Andy Wharol, i fasti e gli stravizi dello Studio 54, mi ero persa Keith Haring, Bianca Jagger, Loredana Bertè, persino Lady Diana, affezionata cliente del negozio in King's Road a Londra.  

Ma, al bisogno, non mi ero persa d’animo. E avevo accettato la sfida.

Spoiler: no, non ce l’ho fatta, non sono riuscita a rilanciarlo, il marchio.

Con i Giapponesi della Edwin, rigidi cultori delle regole industriali - sprezzanti contro ogni forma di provocazione, sensualità, humour,  elementi parte del DNA del marchio che avevano acquistato - era come remare contro corrente su per le rapide del Colorado.  


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Il primo viaggio mi aveva sedotto, affascinato. Incuriosito.

Gli altri sedici a seguire, pure. Per quanto, già al secondo, sapessi cosa mi sarebbe toccato ogni volta: una settimana di full immersion tra business meeting, business lunch, business dinner in quel di Tokyo, requisita dal momento in cui i miei piedi toccavano terra dopo quattordici ore di volo, rilasciata solo la notte, quando crollavo nella stanzetta del mio business hotel,  che di glamour aveva ben poco, dopo ore passate a discutere, spesso unica donna, con almeno una dozzina di uomini in grigio. Discussioni fumose, perché tutti fumavano come ciminiere e per le inutili divagazioni verbali, tipico modo nipponico di continuare a fare, imperterriti, quello che volevano. Il mio ruolo di controllo era puramente formale. Un paragrafo nel contratto.

Le mie argomentazioni erano filtrate  con destrezza diplomatica dall’interprete, che cercava di smussare con eleganza gli angoli quando i toni, i miei, si facevano più accesi. Essere donna, straniera poi, con valenze manageriali, non so ora, ma allora,  non era visto di buon occhio. In Giappone, a casa, le donne sono regine; il marito consegna la busta paga e la donna l’amministra. In pubblico, in ufficio, è ben chiaro chi comanda. Parità di genere? La strada è lunga.

Alla fine ce l’avevo fatta, ma c’erano voluti anni per conquistarmi quel rispetto che in America sarebbe stato scontato.

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Nelle rare parentesi lavorative - mi ero fatta furba e avevo trovato il modo di diluire il soggiorno con almeno un week end  di decontaminazione e solitudine - girovagavo Lonely Planet alla mano. Mi spostavo con la Tokyo Metro, e riuscivo abbastanza a cavarmela in quel dedalo d’ideogrammi e incroci stratificati - 9 linee, per 179 stazioni, più le 4 della Toei, che portano il totale a 274, senza contare la  JR che, in quanto acronimo di Japan Railway, è la linea Ferroviaria di superficie.  Affrontavo ogni spostamento sperando nell’aiuto del prossimo, che invariabilmente non ottenevo. Sceglievo giovani donne, per lo più. O giovani uomini, quasi sapendo, istintivamente, che non avrebbero parlato una parola d’inglese.  Avevo il dono di individuarli tra la folla. Da cui i silenzi, le risatine cretine e le girate sui tacchi imbarazzate.

Vi avverto: se vedete un giapponese ridere coprendosi il volto con la mano, nove volte su dieci, potete giurarci, non è allegria, è imbarazzo. 

Qualche volta, nello scoramento, salivo su un taxi, affascinata da quelle portiere che si aprivano in automatico e che, sovrapensiero, cercavo di scardinare mentre provavo a richiuderle manualmente.

Taxi che sembravano il salottino di una zia zitella: il cruscotto coperto leziosamente con pizzi immacolati, le mani guantate di bianco del guidatore, che accoglieva con un inchino cerimonioso il bigliettino con il quale mi ero premunita facendo trascrivere la destinazione.  Perché manco a dirlo, le probabilità che il tassista parlasse Inglese erano inferiori allo zero.

L’indirizzo, poi. Quella cosa che non c’è. Nel groviglio delle stradine di Tokyo, un indirizzo non è mai una strada e un numero, è piuttosto l’insieme di coordinate e punti di riferimento. Tipo: la seconda casa gialla che si trova dopo il fruttivendolo, davanti al benzinaio, passato l’incrocio tra via tal de tali e via pinco pallino. Se mai vi porgeranno un biglietto da visita, fateci caso: sul davanti nome e cognome, se siete fortunati anche in inglese; dietro  la piantina in macro del quartiere con evidenziata la posizione dell’abitazione.


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Non che capitasse facile di essere invitati a casa di qualcuno. Primo perché molti si vergognano dei loro micro appartamenti. Secondo perché, per essere invitati, bisognava essersi guadagnati  rispetto, se non affetto.  A me era stato concesso questo onore. L’ appartamento era enorme, anche per i nostri standard, con un ampio terrazzo da cui s’intravedeva la Torre Eiffel di Tokyo, sul quale era stato apparecchiato un barbecue per un robotayaki casareccio. I padroni di casa avevano invitato anche i loro genitori. Non ricordo la madre, che tipicamente non aveva spiccicato una parola, mentre il padre, un amabile vecchietto magrolino amante dell’Opera, mi aveva costretto a cantare, insieme a lui, O’ Sole Mio.  Se non sbaglio anche Volare. Essendo stonata al limite del “facciamola smettere. Tiriamole una scarpa“ potrete capire il mio (ma immagino anche quello degli altri) imbarazzo. Di quella casa ricordo anche il bagno, il mio primo, perplesso incontro ravvicinato con un futuribile WC.  Maneggiare con cura, avrebbero dovuto dirmelo: bastava la pressione sull’ideogramma sbagliato e mentre cercavi di intuire cosa avevi fatto…oops, ti arrivava un’improvvisa secchiata in faccia, oppure ti si surriscaldava il sedere,  oppure un altro getto raggiungeva i tuoi anfratti più privati e preziosi. Se eri fortunata l’acqua era a temperatura ambiente. Se no… 

Il mio primo hotel si trovava a Ikebukuro, una città nella città, un conglomerato di grattacieli - uno in particolare mi affascinava, di notte si accendeva di un blu elettrico -  per la maggior parte destinati ad uffici.  Un quartiere che la sera era meno rassicurante; per strada solo office-man che vagavano con aria perduta, alcuni già bevuta, altri che cercavano l’oblio nel frastuono infernale del Pachinko, un gioco d’azzardo di macchinette sputa palline d’acciaio, una specie di flipper verticale, intorno al quale gira un vortice di denaro e, in quanto tale, controllato dalla Yakuza, la mafia locale che abbiamo imparato a conoscere grazie a Michael Douglas e Sean Connery. E oggi, grazie a Netflix, con la serie  Giri/Haji, prodotta dalla BBC, che mi sento di raccomandare caldamente.

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Nelle mie poche ore di svago mi concedevo frettolose visite negli inquietanti department stores, con la scusa di voler conoscere meglio il mercato. Il che era doveroso. Il che si rivelava improbabile. Pernottando a Ikebukuro, ero vicina al flagship store della Seibu, dodici piani di tutto, una Rinascente all’ennesima potenza, un tempio al consumismo che riusciva a mandarmi in tilt. Chilometri quadrati di merce che, su di me, avevano un effetto inibitorio, respingente. Ogni mattina il super manager di turno radunava lo staff e indottrinava quelle povere commesse, in fila sull’attenti come a West Point. Poi, allo scoccare dell’orario di apertura, quando si aprivano le porte, le poverette facevano ala all’entrata, il sorriso stampato su quei faccini tristi, per accogliere i primi clienti con un inchino servile. Non scorderò mai l’addetta all’ascensore: una creatura esangue vestita da marinaretta che a ogni piano, con fare meccanico, in salita come in discesa, ne ripeteva i contenuti, guardando fisso davanti a sé. Ora dopo ora, giorno dopo giorno, piano dopo piano. Spero che nel frattempo si sia licenziata e non suicidata.

Fate voi i calcoli, ma per dare un’idea delle dimensioni del Seibu Store, pare siano una volta e mezza quelle della Tokyo Dome, il mega stadio di 47.000 m2. Basti dire che al piano ristoranti ai miei tempi ce ne stavano ventisei. Li avevo contati: giapponesi,  francesi, italiani, coreani, thai, indiani, vietnamita, fast food indigeni e non, e naturalmente anche pizza, hamburger, pasticcerie, gelaterie. Ne avrò tralasciato qualcuno? Sicuramente sì. Dato che a Tokyo il tempo stringe, ordinare doveva essere facile e veloce; niente menù ma piatti imbalsamati nella plastica, il che semplificava le cose anche alle straniere come me.  Bastava puntare un ditino.

Come dicevo, cercavo di ritagliarmi i miei spazi.


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Nel tempo ero riuscita a farmi qualche giretto: una camminata domenicale al Shinjuko Gyoen affollato di famigliole,  alcune in abito tradizionale; un giretto il sabato pomeriggio al Yoyogi Park per sbirciare le bande Rockabilly in un  perenne flashback di Grease, o ad Harajuko per incontrare quelle colorate ragazzine rappresentanti della cultura “kawaii”  (carino, adorabile) vestite come nei manga. Ero riuscita a vedere il tempio Senso Ji, nel complesso buddista di Asakusa, affascinata soprattutto dal senso di sacralità trasmesso dai frequentatori,  il parco del Palazzo Imperiale, residenza ufficiale dell’Imperatore e con mia grande goduria, capendoci ben poco, avevo girato i negozi di Akihabara, il quartiere multimediale, tempio dell’elettronica, dei manga e dei videogiochi. Un ritorno al futuro, alla scoperta di gadget inutili, all’apparenza indispensabili, fortunatamente non commercializzati in Occidente, o li avrei comprati tutti.

Ricordo un episodio, la mattina di un week end. Con me era rimasta anche una collega; insieme avevamo deciso di cambiare albergo; dovendocelo pagare, cercavamo qualcosa di meno caro. “Cerca tra i Love Hotel, mi aveva detto l’ineffabile stilista, un habitué giramondo che veniva  in Giappone per fare, diceva lui, “ricerca”.  Contando sulla sua esperienza gli avevamo creduto, nonostante il nome non promettesse niente di buono. Alberghi a ore? avevamo obbiettato. “Ma no, sciocchine - ci aveva rassicurato l’infame -. Sapete come vanno le cose, qui, tutti coabitano in spazi angusti, magari con i genitori o comunque con le creature. Per fare un po’ di sano sesso, anche le coppie legittime vanno nei Love Hotel. Tranquille, potrete anche scegliervi le camere a tema. Sarà divertente e cheap".


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Arrivate in quel di Shibuya, un quartiere turistico bon ton, avevamo visto un’insegna promettente. All’entrata, diapositive retro illuminate mostravano l’arredo delle singole camere, e ce n‘erano per tutti i gusti: la Jungle Room in stile Tarzan, la Star Trek a mo’ di astronave, la Romantica con pizzi e falpalà vittoriani, la Rock and Roll molto Vegas, con il faccione di Elvis come spalliera del letto. Quella voglio, avevo detto io. La mia compagna aveva optato per il minimalismo della Star Trek. I prezzi erano alla nostra portata. Felici di aver svoltato, a gesti, avevamo cercato di spiegare alla compita signora di mezz’età della reception, legnosa nel suo tailleurino scuro, che volevamo quelle due stanze: lei ci aveva guardato con disgusto, spalancato gli occhi inorridita, e sbracciandosi come una forsennata, ci  aveva intimato di uscire. Via, sciò, scioò, fuori!  O qualsiasi cosa dicano i giapponesi in questi casi.  Il tono era inequivocabile. Capito la mama-san? Ci aveva preso per una coppia di lesbiche!

Spero che anche la comunità LGBTQ, nel frattempo, ne abbia fatta di strada.

Esilarante episodio a parte, in realtà i miei ospiti della Edwin e i tanti licenziatari mi trattavano da reginetta. Premurosi d’ingozzarmi due volte al giorno, trascinandomi recalcitrante in ristoranti italiani, dove, onore al merito, pizze, carbonara, risotti e pasta alle vongole nulla avevano da invidiare ai nostri.  Ciò nonostante, al terzo giorno avrei barattato mia nonna per un brodino.

La sera quando ci raggiungevano i grandi capi, la scelta cadeva sul tradizionale menù nipponico. Quindi sul Sushi, che se è di qualità anche in Giappone non te lo regalano; solo che ha una varietà e una freschezza indimenticabili; sui Tempura Bar, dove ogni singolo bocconcino era fritto estemporaneamente e poggiato, croccante, caldo e fragrante, davanti ai commensali… e, come gran finale, su una rituale cena Kaiseki, dove le portate sono determinate dalla stagionalità degli ingredienti e dal tipo di cottura: qualcosa di bollito, di grigliato, di fritto, di cucinato a vapore. Mono porzioni in piccoli piatti preziosi, presentati con garbo poetico. Pare che la nostra nouvelle cuisine si sia ispirata a quella Kaiseki. Senz’altro nell’estetica.


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Essendo io un’inguaribile buongustaia curiosa, ogni sera mi godevo la sorpresa, un piacere che si rinnovava nei viaggi e che attendevo con anticipazione, nonostante i crampi per quelle ore a gambe incrociate sul tatami, complice forse il fuorviante, apparentemente innocuo, refill di bicchierini di sakè che mi ottenebrava le membra. Oggi mi dovrebbero tirare su con un argano.

Alla fine di ogni serata, aggiungeteci le innumerevoli birre ghiacciate, si stabiliva un affettuoso, direi persino sentimentale, cameratismo che annullava tra numerosi inchini e persino qualche abbraccio le tensioni accumulate in sala riunione.

Tensioni ritrovate ogni mattina, poi abbandonate puntualmente ogni sera, come in ogni Giorno della Marmotta che si rispetti.

 

*MANUELA CASSARA’  (Roma 1949, giornalista, ha lavorato unicamente nella moda, scrivendo per settimanali di settore e mensili femminili, per poi dedicarsi al marketing, alla comunicazione e all’ immagine per alcuni importanti marchi. Giramondo fin da ragazza, ama raccontare le sue impressioni e ricordi agli amici e sui social. Sposata con Giovanni Viviani, sui viaggi si sono trovati. Ma in verità  anche sul resto)




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