TERRE E CAMPIONI - Giovanni Gerbi, il Diavolo rosso che andava a barbera

di GIOVANNI BATTISTUZZI*

Ma quale aranciata, meglio “un bicchiere di barbera, che rimette a posto dagli sforzi”. “Diavolo rosso, dimentica la strada / Vieni qui con noi a bere un'aranciata / Contro luce tutto il tempo se ne va”. Giovanni Gerbi avrebbe probabilmente accettato l’invito di Paolo Conte, ma con altro liquido si sarebbe dissetato.

Il Diavolo Rosso ha percorso le strade del ciclismo all’alba di questo sport. La bici l’ha conosciuta nell’Ottocento, su di lei ha scavallato il secolo, percorso le strade dei pionieri, vinto tutto quello che c’era da vincere. O quasi. Perché al Giro d’Italia al massimo fu terzo e alla Milano-Sanremo pure. Al primo perché meglio non poteva fare, alla seconda perché andava bene così, che tanto, era convinto, una corsa così non sarebbe durata. Si sbagliò di grosso. Ma anche un buon Diavolo (Rosso) di furbizia ogni tanto non c’azzecca con la storia.

14 aprile del 1907, prima edizione della corsa divenuta Classicissima. Gerbi c’aveva la gamba dei giorni buoni e per primo, alle 10.41, in cima al Turchino intravide la primavera all'orizzonte dopo essersi lasciato alle spalle l'inverno e il buio del tunnel che segna il passo. Provò l’avventura solitaria. Poco dopo i Piani di Invrea, venne raggiunto prima da Gustave Garrigou e poi da Lucien Petit-Breton. Gerbi tentò di nuovo l’assolo, sapeva benissimo che la velocità in volata non era roba sua. Cercò l’azzardo, ma non gli riuscì. E così da buon uomo di mondo si guardò attorno, incontrò lo sguardo consapevole di Petit-Breton: tutti e due sapevano che Garrigou allo sprint era imbattibile. E così si accordarono. Io lo fermo, tu vinci che sei più veloce, poi dividiamo. E così fece. A Sanremo si attaccò al sellino di Garrigou e visto che questo non bastò, lo prese per la maglietta e ruzzolarono a terra. Primo Petit-Breton, che da uomo d'onore, fece a mezzo del premio. Soldi buoni, abbastanza per comprare carne, cibo, vino per tutti e tenersi qualche spiccio per festeggiare con gli amici, in osteria.

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Leggenda vuole che il martedì seguente la festa fu lunga una notte: spezzatino di bue grasso, formaggi e due damigiane di barbera, una offerta da un signore distinto che mai si era visto ad Asti. Lo stesso che due giorni dopo si presentò al via di una corsa a Torino e a lungo scherzò con Giovanni Cuniolo, detto Manina, grande rivale di Gerbi. Il Diavolo Rosso aveva gli occhi cerchiati e l’incazzatura che tutto fa dimenticare. Al traguardo ci arrivò diversi minuti prima dell’avversario. Quello che non riuscirono a fare le gambe, riuscirono i chiodi messi dai suoi amici.

Gerbi era un burlone, uno a cui piaceva far scherzi ai rivali: puntine, sabotaggi, imboscate. Aveva sempre un amico pronto ad aiutarlo per fermare gli avversari. A volte andava bene, per tutte le altre ci pensava da solo: furbizia e gambe. A chi lo aiutava garantiva sempre ricompense. Vino e cibo. La bicicletta l’aveva cavalcata la prima volta per curiosità, poi si era appassionato e aveva capito che grazie a lei avrebbe potuto seminare la fame. “I corridori sono sempre affamati. Mai visto uno rifiutare da mangiare. Mica è colpa nostra, è la bicicletta che mette appetito”. Una volta incontrò un allevatore di Rocchetta Tanaro che era suo tifoso. Gli disse che aveva chiamato il bue grasso più forte come lui, Diavolo Rosso. Gerbi non la prese bene e se ne andò seccato. Mesi dopo l’allevatore lo contattò dicendo che aveva macellato il suo animale e che sarebbe stato onorato di averlo come ospite. Lui fece in fretta a vincere una corsa e si presentò ancora sudato dalla gara per mangiare.

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(Giovanni Gerbi, il Diavolo rosso)

Il Diavolo Rosso aveva le sue regole: “Uova, carne bianca prima delle gare, carne rossa dopo e innaffiata con un po’ di rosso che rinforza i muscoli di sangue. Poi di magro qualche giorno per smaltire la fatica”. Il Diavolo Rosso aveva i suoi luoghi. “L’uva a Dogliani, la più zuccherina. Frutta a Carmagnola che c’è un meleto lungo la strada”. E le sue soste durante gli allenamenti: l’osteria di Vittorio a Bossolasco, “amico di antica data, per via di padre, uomo burbero e generoso, grande conoscitore di velocipedi”, ricordò Giovanni Gerbi in un’intervista del 1912 alla Stampa; l’osteria del Rosso a Chivasso, “omone dal cuore grande e salumiere sopraffino”, evidenziò invece alla Gazzetta del Popolo nel 1919.

Bossolasco e Chivasso erano il giro di boa delle sue uscite che da Asti partivano e ad Asti arrivavano. O da una parte o dall’altra a seconda del vento e della stagione, perché “ogni percorso al suo periodo. Il ciclismo non è poi diverso dalla vita. Ci sono giorni così e giorni colà e, almeno in allenamento è giusto assecondarli”, riferì sempre alla Gazzetta del Popolo ma qualche anno più tardi, nel 1926 quando annunciò a tutti che si sarebbe presentato di nuovo al via del Giro d’Italia.

Tornare al Giro a 41 anni? Sembrava una follia. Una follia che invece si materializzò, ma per solo due tappe. Ancora più folle fu il suo ritorno nel 1932 a quasi 47 anni. Fuori tempo massimo all’ottava frazione. Al ritorno ad Asti venne comunque accolto come un eroe. Un’altra festa nella solita osteria. Questa volta però nessuna leggenda ma un intervento della polizia alle “ore 3.37”: schiamazzi notturni.


*GIOVANNI BATTISTUZZI (Nato nel giorno più freddo del secolo scorso a Conegliano, là dove la pianura veneta finisce e inizia il Prosecco. E anche le colline. Lavora al Foglio dal 2014. Scrive di sport e si occupa di tutto ciò di cui si dovrebbe occupare un social media manager. Due libri in libreria: Girodiruota - Stampa alternativa, 2014 - , lo stesso titolo del blog che tiene sul sito del suo giornale, e Alfabeto Fausto Coppi - Ediciclo editore, 2019 - , scritto con Gino Cervi e illustrato da Riccardo Guasco. Ogni tanto scrive racconti. Sempre in libreria trovate: Il Marsigliese  in Fausto Coppi, una vita in più - Bolis, 2021 -, Sboccia la rivoluzione in Per rabbia o per amore - 66th and 2nd, 2020- , La fata bicicletta in Con la penna e senza scarpe - Armando editore, 2019 -)


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