Stelvio, alta velocità sulle cime della Guerra
di ROBERTO ORLANDO*
Frenerà prima o poi. Frenerà per forza... Eh no,
adesso deve frenare, mi sta tallonando e tra poco c'è la curva, un tornante.
No, non rallenta. Ora accelero e lo semino. Che sia io il primo a frenare non
se ne parla. Anche perché se solo sfioro il pedale del freno quello mi prende
in pieno e si fa pure male.
Accelero dunque, ma lui non molla. Il limite di velocità indicato dai cartelli
lungo la discesa più bella del mondo (ma è in salita che apprezzi la maestosità
della creazione) lo abbiamo ormai superato. Io davanti lui dietro. Io sulla mia
Giulia, che ho portato quassù a respirare l'atmosfera di gara permanente che
impregna il luogo, e lui su una bicicletta che peserà sette chili a dir tanto.
Io tengo a bada i 200 cavalli del motore, lui spinge sui pedali con un paio di
cosce che potrebbero far invidia ai miei cavalli. E alla fine sono io che devo
frenare e mentre medito una manovra da rally col freno a mano, lui si allarga e
passa, inclinato, un pedale su e l'altro giù, il ginocchio interno alla curva flesso
e divaricato per bilanciare il baricentro e contrastare tutte le forze
dinamiche in gioco, l'altra gamba ben distesa sopra il pedale, quasi a voler
dare eleganza al gesto atletico con il quale mi sta beffando... (foto di Roberto Orlando)
Sullo Stelvio quel giorno ero salito in pace. Ma in fondo in fondo speravo di
incontrare le rivali di sempre della mia iconica Giulia: le Bmw, le Porsche...
Certo, non sono più i Ruggenti Sessanta, le auto da allora sono cambiate molto,
l'elettronica ha messo lo zampino in tutte le traiettorie, ma i marchi sul
cofano sono sempre quelli, la montagna con i suoi tornanti è sempre lei e
l'asfalto è perfetto.
Io non so bene perché, ma questo è di quei posti in cui la salita ispira la
corsa, anche se poi si corre pure in discesa e persino molto di più. E infatti
qui tutti, o quasi, salgono per correre: in bici (che impresa!), in moto, in
auto, i bambini in triciclo immagino. Anzi, guarda, senza intenti delatori ti
dico che qui corrono pure gli autobus.
L'uomo, o la donna, che si occupa dei cartelli stradali lo sa bene e infatti la
segnaletica lungo la strada non concede deroghe al codice della strada: 70
l'ora nei tratti rettilinei di fondovalle e poi più su 50 e anche 30.
Per restare nei numeri, duemilasettecentocinquantotto sono i metri di altitudine
del passo dello Stelvio. Per scriverlo ci vuole quasi più inchiostro che
benzina per arrivare in cima. E’ il passo montano automobilistico più alto
d’Europa. E anche il più leggendario. Ma ora devo mettermi qui a raccontarti
l’epopea di Coppi e Bartali sui tornanti dello Stelvio? Non vorrei offenderti,
la storia la sai e poiché non sono particolarmente ferrato sulle imprese
sportive vorrei evitare di scrivere castronerie o, peggio, di essere
superficiale. Pertanto mi limito a segnalare che il passo è stato terreno di
gara per 12 edizioni del Giro d’Italia, sette dal versante lombardo e 5 da
quello altoatesino.
(foto di Roberto Orlando)
Qui preferisco invece trasmetterti un’atmosfera, provare a darti un’idea
dell’aria (buona, ovvio) che si respira a salire da Bormio e a scendere nel
fondovalle opposto, a Prato allo Stelvio, tra pantaloncini e magliette in
tessuto tecnico, attillati quanto sudati, e caschi motociclistici da vichinghi
con tanto di corna; tra signore e signorine rigorosamente bionde adagiate con
grazia sui sedili in pelle di spider meravigliose e piuttosto rare, guidate da
appassionati del genere in guanti traforati e foulard disegno cashmire che
sventola con placida eleganza poco oltre la soglia del finestrino.
Mondi così distanti che però convergono come falene attratte dalla luce di un
lampione sulla cima del passo, traguardo agognato la cui conquista inorgoglisce
ciclista, motociclista e automobilista per il semplice fatto di essere lì, col
sole che splende e gli hamburger che sfrigolano sulle braci tra wurstel,
salamelle, crauti, cipolle e pomodori (tutto delizioso).
E poi certo la vista che da quassù cristallizza in un solo frame il mazzo che
ti sei fatto per arrivare, sballottato dai quaranta tornanti valtellinesi,
nell’attesa di affrontare gli altri quarantotto che decorano, quasi come
all’uncinetto, il pendio ripidissimo del versante altoatesino. (foto di Roberto Orlando)
Ecco, le montagne qui intorno le vedi bellissime e pensi che paradiso. Però adesso senti un po’ i nomi, sono quelli dell’inferno di ghiaccio della Prima Guerra Mondiale: intanto il passo da cui ti godi il panorama fu teatro di battaglie all’ultimo uomo, e poi Ortles, Cevedale, Scorluzzo, cime che stanno tra i 3.500 e i 4.000 metri di altitudine e che hanno costituito il palcoscenico surreale della cosiddetta “Guerra Bianca”, alpini contro italiani contro kaiserschutzen austroungarici. Nemici che udivano il suono delle reciproche cannonate e che magari cantavano insieme la notte di Natale, ma che non si vedevano mai, nascosti nelle loro trincee di ghiaccio dove anche gli ideali più solidi erano destinati a prendersi una pausa.
Se te la senti di provare un milionesimo (e già basta, ti assicuro) di quell’angoscia e di ricordare da dove veniamo e a che prezzo, qui intorno l’occasione non manca: nelle trincee si sale in jeep affrontando le buche spezzareni delle vecchie strade militari oppure scarpinando sui sentieri degli alpini: Rifugio Garibaldi, trincee di Ròsole, Rese dello Scorluzzo...
(foto di Roberto Orlando)
Qui la guerra fu difensiva e di logoramento, se si esclude qualche sortita degli alpini, perché il clima non lasciava molto spazio alla tattica e quindi non restava che soffrire: di freddo, di fame, di paura. Però se sei ben equipaggiato, nello spirito più che nell’abbigliamento, puoi scegliere una delle escursioni che vengono proposte con varietà di tariffe e dovizia di particolari in uno degli efficientissimi info point per turisti a fondovalle. Ma prima devi sapere perché lo "Stilfser Joch" fosse così conteso. Il passo nasce austriaco, nel 1825, voluto dall’imperatore Francesco II d’Asburgo che voleva raggiungere comodamente Milano dalla Val Venosta. Cinque anni di lavori, affidati alla sapienza di un ingegnere del luogo, Carlo Donegani, che dalla sua aveva l’esperienza di aver già costruito la strada per il passo dello Spluga.
Quindi, allo scoppiare del conflitto, la storia, forse a dispetto dell’incanto
del luogo, ma certamente a causa dell'utilità dell'opera stradale, non poteva
che finire a botte.(foto di Roberto Orlando)
Però calma: se ritieni che la Grande Guerra possa restare sullo sfondo della
visita allora puoi comprare un souvenir bilingue, e made in China, a cavallo
del passo e poi scendere a rotta di colla in Alto Adige. Non so quanto tu sia
abile a guidare in discesa, ma in ogni caso devi stare attento agli altri, a
prescindere dal mezzo che provano a governare tra i tornanti: vanno tutti
fortissimo.
Del resto in queste righe non ho mai cercato di girare intorno al concetto: qui
si sale per correre e si scende per correre più forte. Vincere è un concetto
relativo, che va preso in considerazione fuori da qui, in un vero campo di
gara. Come ha fatto per esempio Gustav Thoeni, il quale nel giorno della sua
nascita, il 28 febbraio 1951, deve già fare i conti a Trafoi - frazione del
Comune di Stelvio con una chiesa minuscola, un albergo di proprietà della
famiglia Thoeni e un pugno di case intorno al prato - con un muro di neve alto
sette metri.
Lui sicuramente ne prende subito atto, così a tre anni inforca il primo paio di
sci e comincia a far pratica proprio nel prato davanti a casa. Qui del resto
che cosa avrebbe potuto fare d’altro se non provare a correre con qualcosa
sotto il sedere o i piedi che siano? Non ci credi, eh? Allora ti dico che anche
il padre Georg avrebbe tanto voluto pure lui diventare sciatore professionista,
ma poi scoppiò la Seconda Guerra Mondiale e lui, giovane promessa dello sci al
tempo dei fasci, fu costretto ad abbandonare il progetto. E allora, poi, che fa
papà Georg? Apre una sciovia proprio sopra il passo dello Stelvio dove il
figlio e suo cugino Roland si possono allenare anche d’estate, con i risultati
che conosciamo (Gustav ha vinto quattro coppe del mondo, è stato campione
olimpico e campione del mondo di cinque specialità). Thoeni padre aveva in
pratica seguito la scia - parlando appunto di sci - di Giuseppe Pirovano e
della moglie Giuliana Boerchio che proprio agli inizi degli anni 50 ebbero l’idea di aprire una scuola di sci sul ghiacciaio (prendi la
funivia, naturalmente, e vai a vederlo: meraviglia, meraviglia...) e di
costruire tre rifugi nei dintorni per accogliere turisti e sciatori. ((foto di Roberto Orlando)
Ora Gustav è il prestigioso testimonial dell’albergo di famiglia, il Bella
Vista di Trafoi, che fa decisamente onore al nome considerando anche solo
distrattamente il panorama che lo circonda. Così tu prendi alloggio lì e ti
sembra che la guerra sia tornata definitivamente nel suo cassetto della memoria
remota. Poi ti vai a fare un giro. Il prato di Trafoi è ampio e verdissimo,
delimitato su tutti i lati dai pendii scoscesi delle montagne. Passeggi sui
sentieri e ti sembra di essere in pace con l’universo. Pace assoluta, altro che
guerra. La chiesetta si trova forse nel punto più basso della valle: si
raggiunge attraverso uno stretto sentiero leggermente in discesa. (foto di Roberto Orlando)
Quando arrivo io è chiusa ed è chiuso anche il cancello del minuscolo cimitero che custodisce le sue memorie sacre tra le facciate della chiesa e la recinzione in ferro battuto che delimita la terra consacrata. Nel cimitero hanno trovato infine pace, come si conviene, molti abitanti del villaggio, alcuni dei quali durante le due guerre mondiali avevano combattuto prima con gli austriaci, da sudditi dell'impero austroungarico, e poi tra il '39 e il '45 al fianco dei tedeschi. E ancora oggi sotto la lapide che ricorda i caduti di entrambe le guerre, ai piedi di un grande crocefisso ligneo, ci sono due elmetti dalla forma inequivocabile: sono quelli degli eserciti di Austria e Germania. Nomi e cognomi dei caduti del resto sono tutti sudtirolesi. Così ora, passato l’attimo di disorientamento - sei sempre in Italia, tranquillo - puoi tornare indietro in pace, ma senza dimenticare la guerra.
*ROBERTO ORLANDO (Nato a Genova in agosto, giornalista professionista dal 1983. Ultimo capocronista del Lavoro. Dopo uno scombinato tour postrisorgimentale che lo conduce in molte redazioni di Repubblica è rientrato tra i moli della Lanterna. Viaggia, fotografa e scrive. Meno di quanto vorrebbe)
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