Srebrenica, quel massacro così vicino e così lontano
di MASSIMILIANO DI GIORGIO*
Le prime settimane d’estate sono sempre le più belle, per la promessa di vacanza che portano con sé. Ma in questo strano 2020 a metà di luglio cade un anniversario terribile, quello del massacro di Srebrenica. Che pare così lontano nel tempo e nei luoghi, ma che è accaduto soltanto 25 anni fa non lontano dal vacanziero mare Adriatico, dalle spiagge della Dalmazia, a meno di 400 km da Spalato.
Nella storia resterà quel nome, Srebrenica. Ma l'assassinio di circa 8.000 persone - tutti maschi: adulti, giovani e anche ragazzini bosgnacchi, cioè slavi musulmani - considerato “il più grave assassinio di massa con motivazione etnica in Europa dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale” - si svolse nell’arco di pochi giorni anche a Bratunac e Zvornik, nella parte serba della Bosnia-Erzegovina, in una zona quasi equidistante dal confine con la Croazia e da quello con la Serbia.
Per quel genocidio ci sono state numerose condanne da parte del Tribunale Internazionale dell’Aja, e anche assoluzioni che hanno fatto gridare allo scandalo. La responsabilità dei fatti è stata attribuita all'esercito serbo-bosniaco, ma non alla Repubblica Serba di Bosnia: ai militari, ma non ai politici.
La vicenda, avvenuta negli ultimi mesi della guerra in Bosnia, che terminò nel dicembre 1995, è oggi ampiamente documentata. Ma per una decina d’anni almeno Srebrenica è rimasta “solo uno dei toponimi dei misfatti balcanici” che diventano luoghi comuni, scrive Ivica Ðikić in un libro pubblicato in italiano dalla Bottega Errante Edizioni, nella collana Estensioni, dedicata alle “voci dell’Est Europa”.
Ðikić lo dichiara onestamente, nelle prime pagine di “Metodo Srebrenica”: la cittadina, che per diverso tempo nel corso della guerra era stata un’enclave musulmana solo nominalmente difesa dai caschi blu olandesi dell’Unprofor, per poi cadere sotto gli attacchi serbi l’11 luglio 1995, non era lontana soltanto dagli occhi e dal cuore della comunità internazionale, ma anche degli stessi ex-jugoslavi, che ne erano rimasti, al più, sfiorati emotivamente.
Solo nel 2005 l’autore, un giovane giornalista che aveva cominciato a documentare la guerra e gli eccessi dei militari croati nel 1992, decide di occuparsene, e all’inizio pensa a un romanzo. Forse perché “la mia fantasia infine si era probabilmente arresa di fronte alla superiore forza di ciò che era realmente accaduto”, scrive. Alla fine ne esce una cronaca con pochissime incursioni nella fiction - magari per ricostruire un colloquio - che però non risponde alla domanda “perché”, scrive lo stesso Ðikić considerando questo un fallimento.
La narrazione, basata su documenti di tribunale e in parte su altri reportage, gira intorno alla figura del colonnello Ljubiŝa Beara, responsabile della sicurezza dello stato maggiore dell’esercito serbo-bosniaco, considerato l’organizzatore materiale del massacro, poi morto in carcere a Berlino nel 2017. Ufficiale di Marina di famiglia dalmata, che nel 1991 scelse di schierarsi con l’esercito dell’ex Jugoslavia, cioè di fatto con la Serbia di Slobodan Milosevic, tra l’11 e il 15 luglio 1995 Beara fu impegnato a organizzare l’uccisione di 8.000 prigionieri e la successiva sparizione dei loro corpi, come un contabile dell’orrore nazista.
Una vicenda che coinvolse numerose “rotelline del meccanismo di morte”, scrive Ðikić, tra soldati, operai, autisti di pullman e altri civili, in parte volontari, in parte costretti a uccidere e comunque a collaborare. Una vicenda che avrebbe dovuto restare segreta, ma che invece era nota a tanti, anche se tanti preferirono allontanare da sé qualsiasi sospetto di responsabilità.
Quella raccontata in “Metodo Srebrenica” è una storia che interroga anche sull’idea stessa della Jugoslavia costruita dal maresciallo Tito e dal gruppo dirigente comunista: “Come è possibile che a uccidere, al di fuori di ogni onore militare e di ogni regola di guerra, solo per ragioni di appartenenza e fede, fossero degli ufficiali nati, educati e formati nello spirito del dogma della fratellanza e unità dei nostri popoli e delle nostre nazionalità?”.
*MASSIMILIANO DI GIORGIO (Roma, 1965. Ha lavorato negli anni Novanta all’Unità, poi all’agenzia Reuters. Dal 2019 è un freelance. Scrive praticamente di tutto, tranne che di sport)
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