Sono entrata in quei saloni
di MARCELLA CIARNELLI*
L’ho vista quell’aula del Congresso violata dai seguaci di Trump, esaltati fino all’ultimo da un leader che la categoria della sconfitta per quanto lo riguarda non l’ha mai presa in considerazione. O, piuttosto, ha troppa paura di un "dopo" senza potere, con tutti i conti che dovrà regolare. Era quasi primavera, il primo marzo del 2006, e Silvio Berlusconi, allora presidente del Consiglio, parlò al Congresso a nome dell’Italia, sulle orme di De Gasperi, Andreotti e Craxi, gli unici politici italiani che prima di lui avevano ricevuto lo stesso invito.
Sotto la volta del luogo simbolo della democrazia americana risuonarono le parole enfatiche, omaggianti all’ospite in un eccesso di riconoscenza, del premier italiano alle prese con l’inglese che non è mai stato il suo forte; tant’è che, fatti i debiti ringraziamenti in lingua, anche quel giorno preferì tornare all’italiano, come poi è accaduto in tante occasioni a cominciare dai summit settembrini all’Onu. Comunque l’apprezzamento dell’uditorio, in cui tra i deputati erano presenti anche Hillary Clinton e Ted Kennedy ed un ancora poco noto Barak Obama, ci fu. E ci fu anche un gesto di cortesia verso l’ospite. Per rimpinguare la platea, che aveva ampi vuoti a causa di molte defezioni, furono fatti accomodare in sala anche un po’ di impiegati del Campidoglio che, in cambio di mezza giornata di ferie, per trenta minuti accettarono di entusiasmarsi alle parole elogiative della salvifica democrazia americana pronunciate con ossequio da un importante imprenditore che stava vivendo in prima persona l’esaltazione della politica. Trump non era ancora all’orizzonte. Poi è andata com’è andata.
A ripensarci, vengono i brividi a vedere le stanze devastate e i corridoi percorsi da gente armata pronta a sparare nel nome della esaltata difesa di una vittoria mai ottenuta, e però rivendicata fino all’ultimo da un leader la cui caratteristica principale è il disprezzo per qualunque regola e, quindi, delle persone che invece avrebbe dovuto civilmente rappresentare. E non, invece, illudere ed esaltare.
La scalinata, l’edificio neoclassico, l’enorme cupola centrale. Gli immensi lampadari. Ricordi tra cronista e turista nel cuore istituzionale di un Paese che ha mille facce e mille anime che guardano a Washington e in quei luoghi si rispecchiano. Per questo lo sfregio di queste ore è di quelli che sarà impossibile dimenticare. E’ ferma nel ricordo la sensazione che stavamo ripercorrendo, durante quella visita, l’itinerario in cui nei secoli si era consolidata una democrazia maestra per il mondo.
Pavimenti lucidi e stanze alveare come in ogni ufficio pubblico del mondo. Solo che alle pareti lì ci sono le facce dei presidenti degli Stati Uniti ed anche una prevedibile statua della libertà in bronzo. Grandi finestroni che sono diventati, distrutti dai manifestanti, la via d’accesso alle stanze fino ad ora considerate inattaccabili. Anzi da difendere. Si poteva immaginare che ci sarebbe stato bisogno di una protezione più solida? Si poteva immaginare che il parlamento non sarebbe stato per qualche ora solo il luogo del confronto ma quello della irrazionale forza delle armi?
A un chilometro e poco più dal Congresso c’è la Casa Bianca, sede dalla quale nonostante lo sfratto del voto popolare Donald Trump non se ne vuole andare. Dovrà farlo, anche se finora non ha seguito nessuna delle regole di cortesia previste per il cambio d’inquilino. Lui si presentò sollecito a segnare il territorio con Melania in quella che era ancora la casa di Barak Obama e Michelle. Portarono, i Trump, anche un regalo, dalla scatola si intuì un oggetto di Tiffany. Suscitò anche simpatia quella cafonata. Ma era già un segnale della abitudine a calpestare le regole. Allora di galateo, ora della democrazia.
(foto Pierre Blaché da Pixabay)
A vederla la Casa Bianca, in fondo a Pennsylvania Ave. dal 1800, sembra un edificio maestoso. Nell’immaginario collettivo è l’America. Entrandoci non dà questa impressione; certo qualcuno la penserà diversamente, ma l’impressione è stata questa. Sono sì quattro piani e 5.000 metri quadri di superficie, però uno se la immagina più imponente. Nello studio ovale sono sempre stati graditi ospiti i politici italiani. I presidenti della Repubblica, i premier da Prodi a D’Alema, da Monti a Berlusconi. Quando entri in quelle pareti curve ti sembra di passeggiare in una stanza di casa. Film, documentari, fotografie. Quante volte abbiamo visto quel camino e quelle poltrone. E la scrivania sotto cui giocava il piccolo John John Kennedy imitato anni dopo da Sasha Obama. Il giardino delle rose, la sala stampa, la stanza dove se il presidente Usa chiama per nome un giornalista lo rende famoso. Ricordi, immagini, luoghi di una democrazia che gli avvenimenti di questi giorni hanno reso come fragili. Ma che debbono tornare al più presto ad essere il simbolo di una democrazia che anche attraverso i palazzi del potere mostra la sua forza.
*MARCELLA CIARNELLI (Romana di ritorno, napoletana per sempre. Giornalista per passione
sempre all’Unità. Una vita a seguire le istituzioni
più alte fino al Quirinale senza perdere la curiosità per ogni altro
avvenimento. Tante passioni:
il cinema, il teatro, i libri, gli animali, il mare, i viaggi, la cucina, gli umani nelle loro
manifestazioni più diverse…e la squadra del Napoli)
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