Siracusa / 1 Un medicane nell'Orecchio di Dionisio
di ROBERTO ORLANDO*
Ci sono luoghi in cui la storia si è concentrata e sedimentata nel corso dei secoli in modo pressoché inevitabile e per i motivi più disparati. Luoghi in cui tutto è accaduto e tutto può ancora accadere e che sono sempre rimasti lungo le rotte dell'umanità, non necessariamente per ragioni di turismo.
Ecco, a Siracusa sono andato con l'intenzione di compiere un viaggio anche nel tempo o forse di apprezzare la metafora del viaggio. Perché qui si respira aria di Odissea, anche se non è provato che Ulisse ci si sia davvero fermato, come invece si può intendere da certi resoconti omerici.
"Eccoci or dunque a dirti quello di che m'interroghi e cerchi. Evvi cert'isola, Siria nomata, se forse l'udisti, al di sopra di Ortigia, dove si volta il sole". Questo nell'Odissea racconta Eumeo (porcaro ufficiale del re di Itaca) a Ulisse stesso per descrivere i luoghi delle sue origini. Esiodo, poeta pure lui epico anche se di fama minore, e a quanto pare contemporaneo di Omero, sostiene che Ulisse sia passato proprio da qui nel suo viaggio di ritorno a Itaca. E Esiodo, secondo Eratostene da Cirene che era poeta pure lui ma anche geografo, era uno che la sapeva lunga e che nella fattispecie conosceva molte tappe del pellegrinaggio di Ulisse, senza tuttavia sentire la necessità di raccontarle in modo fantastico come invece faceva Omero, al quale l'idea di indicare i luoghi dell’Odissea con la precisione di un nome interessava certamente meno.
Ora però qui non si tratta di dimostrare se Ulisse sia sbarcato davvero a Ortigia, l'isoletta che tuttora sta di fronte a Siracusa, benché collegata all'isola maggiore da un paio di ponti. Il punto è che questo luogo mi attrae come una calamita e che finalmente sono qui a capire perché.
Forse perché questa è la città del Sole, sempre secondo Omero? Non saprei, magari lo fu, ma di certo quando sono arrivato io era inequivocabilmente una delle località della Sicilia sud-orientale dove si stava abbattendo uno dei primi Medicane della storia dell'umanità. E giuro che pur essendo genovese non sono un portatore sano di alluvioni, per cui non esiste rapporto di causa ed effetto tra la mia presenza a Siracusa e le cateratte del cielo.
Ma poi la prova sta proprio in quella definizione in inglese: Medicane. Quando un fenomeno si merita un neologismo in lingua anglosassone vuol dire che è davvero importante e senza precedenti. E Medicane è frutto della fusione di due parole inglesi: Mediterranean e hurricane. Precisiamo: non è che nel Mediterraneo non si siano mai formati uragani prima; è che sono sempre più frequenti e violenti e quindi, come dicevo, si meritano una definizione dedicata, come quando gli entomologi scoprono una nuova specie di insetto.
Me l'hanno confermato anche diversi siracusani del resto. Fino a qualche anno fa certi nubifragi, sospinti da venti fortissimi e accompagnati da mareggiate particolarmente potenti, qui non si vedevano proprio o comunque erano rarissimi, epocali. E invece adesso...
Mentre eravamo nel Parco Archeologico di Neapolis, nella zona nord di Siracusa, le nubi hanno cominciato ad addensarsi cupe sopra di noi e poi giù acqua. Sto cercando un'immagine letteraria che possa descrivere la violenza delle precipitazioni, ma mi vengono in mente soltanto luoghi comuni. Se non odiassi l'iperbole, potrei dire di essere stato centrato in pieno da una bomba d'acqua.
Una bomba che mi ha sorpreso tra l'ingresso e l'Orecchio di Dionisio, dentro il quale avrei magari voluto sussurrare parole d'emozione per l'incanto di Neapolis sperando che mi si sentisse da lontano e invece ho dovuto tacere per evitare espressioni sconvenienti in luogo pubblico. Persino Dionisio, tiranno di Siracusa, inventore delle intercettazioni ambientali già nel IV secolo, probabilmente si sarebbe scandalizzato. Lui rinchiudeva i nemici in questa grande cavità artificiale alta 23 metri e poi si appostava in una cavità superiore per ascoltare facilmente i loro discorsi amplificati dalla conformazione dell’ambiente.
Noi invece, prigionieri della pioggia, abbiamo dovuto accontentarci di trovare riparo sotto un basso arco scavato nel tufo: testa asciutta sì, ma rapidamente l'acqua è cominciata a salire oltre il tacco delle scarpe e allora, approfittando di una pausa parziale del rovescio, ci siamo diretti verso l'uscita. Sinceramente speravo che la tregua tenesse, perché io fin qui ero venuto per vedere il Teatro Greco, quello in cui, nelle mie fantasie di studente di liceo classico, avevo idealmente ambientato tutte le tragedie greche. Quel teatro con la platea scavata in un unico blocco di tufo, quello dall'acustica leggendaria, costruito nel V secolo a.C., rivisitato nel III e poi modificato ancora in età augustea. I romani cambiarono addirittura i connotati della cavea, in origine a ferro di cavallo, rimodellandola con una forma semicircolare.
Annotazioni storiche che per me continuano a restare sulla carta perché io il teatro non l'ho ancora visto. Ho visto invece con quanta rapidità un Medicane riesce a trasformare una breve discesa asfaltata, quella che dà accesso alla Neapolis, in un torrente in piena, con tanto di gorghi e anse spumose, con l'acqua che in pochi minuti ti arriva alle caviglie. Tanto che abbiamo dovuto rifugiarci dentro la biglietteria fuori servizio del teatro in attesa che spiovesse.
E quando finalmente il nubifragio si è spremuto ben bene, a un paio di centinaia di metri dal teatro greco è andato in scena il tragediamento, e non la tragedia dei miei sogni di adolescente.
Il tragediamento è un termine che ho imparato a Palermo e si riferisce all'arte coltivata da un buon numero di siciliani di esagerare un po' i racconti di disgrazie e incidenti più meno gravi, in ogni caso sempre più gravi di quel che siano davvero. Nel nostro frangente il sipario si è alzato aprendo la portiera di un taxi. Il cui conducente, un trentenne gentile, scusandosi infinitamente, in pratica si è rifiutato di accompagnarci in albergo, a Ortigia, tre chilometri più sud, perché da lì ne veniva e c'era da aver paura. Ché lui in tanti anni di vita una cosa del genere non l'aveva mai vista, che i contenitori dei rifiuti (in realtà poco più grandi delle pattumiere per uso domestico) galleggiavano per le strade e che lui, poveretto, aveva persino rischiato di "fondere il motore", evento che sarebbe stato davvero magico considerando che la sua auto non aveva attraversato un fiume di lava, ma al massimo qualche decina di centimetri d'acqua. Però, tragediamento a parte, il nubifragio era stato davvero violento e fuori misura rispetto alle precipitazioni cui si è abituati da queste parti.
(1 - continua)
di ROBERTO ORLANDO*
Ci sono luoghi in cui la storia si è concentrata e sedimentata nel corso dei secoli in modo pressoché inevitabile e per i motivi più disparati. Luoghi in cui tutto è accaduto e tutto può ancora accadere e che sono sempre rimasti lungo le rotte dell'umanità, non necessariamente per ragioni di turismo.
Ecco, a Siracusa sono andato con l'intenzione di compiere un viaggio anche nel tempo o forse di apprezzare la metafora del viaggio. Perché qui si respira aria di Odissea, anche se non è provato che Ulisse ci si sia davvero fermato, come invece si può intendere da certi resoconti omerici.
"Eccoci or dunque a dirti quello di che m'interroghi e cerchi. Evvi cert'isola, Siria nomata, se forse l'udisti, al di sopra di Ortigia, dove si volta il sole". Questo nell'Odissea racconta Eumeo (porcaro ufficiale del re di Itaca) a Ulisse stesso per descrivere i luoghi delle sue origini. Esiodo, poeta pure lui epico anche se di fama minore, e a quanto pare contemporaneo di Omero, sostiene che Ulisse sia passato proprio da qui nel suo viaggio di ritorno a Itaca. E Esiodo, secondo Eratostene da Cirene che era poeta pure lui ma anche geografo, era uno che la sapeva lunga e che nella fattispecie conosceva molte tappe del pellegrinaggio di Ulisse, senza tuttavia sentire la necessità di raccontarle in modo fantastico come invece faceva Omero, al quale l'idea di indicare i luoghi dell’Odissea con la precisione di un nome interessava certamente meno.
Ora però qui non si tratta di dimostrare se Ulisse sia sbarcato davvero a Ortigia, l'isoletta che tuttora sta di fronte a Siracusa, benché collegata all'isola maggiore da un paio di ponti. Il punto è che questo luogo mi attrae come una calamita e che finalmente sono qui a capire perché.
Forse perché questa è la città del Sole, sempre secondo Omero? Non saprei, magari lo fu, ma di certo quando sono arrivato io era inequivocabilmente una delle località della Sicilia sud-orientale dove si stava abbattendo uno dei primi Medicane della storia dell'umanità. E giuro che pur essendo genovese non sono un portatore sano di alluvioni, per cui non esiste rapporto di causa ed effetto tra la mia presenza a Siracusa e le cateratte del cielo.
Ma poi la prova sta proprio in quella definizione in inglese: Medicane. Quando un fenomeno si merita un neologismo in lingua anglosassone vuol dire che è davvero importante e senza precedenti. E Medicane è frutto della fusione di due parole inglesi: Mediterranean e hurricane. Precisiamo: non è che nel Mediterraneo non si siano mai formati uragani prima; è che sono sempre più frequenti e violenti e quindi, come dicevo, si meritano una definizione dedicata, come quando gli entomologi scoprono una nuova specie di insetto.
Me l'hanno confermato anche diversi siracusani del resto. Fino a qualche anno fa certi nubifragi, sospinti da venti fortissimi e accompagnati da mareggiate particolarmente potenti, qui non si vedevano proprio o comunque erano rarissimi, epocali. E invece adesso...
Mentre eravamo nel Parco Archeologico di Neapolis, nella zona nord di Siracusa, le nubi hanno cominciato ad addensarsi cupe sopra di noi e poi giù acqua. Sto cercando un'immagine letteraria che possa descrivere la violenza delle precipitazioni, ma mi vengono in mente soltanto luoghi comuni. Se non odiassi l'iperbole, potrei dire di essere stato centrato in pieno da una bomba d'acqua.
Una bomba che mi ha sorpreso tra l'ingresso e l'Orecchio di Dionisio, dentro il quale avrei magari voluto sussurrare parole d'emozione per l'incanto di Neapolis sperando che mi si sentisse da lontano e invece ho dovuto tacere per evitare espressioni sconvenienti in luogo pubblico. Persino Dionisio, tiranno di Siracusa, inventore delle intercettazioni ambientali già nel IV secolo, probabilmente si sarebbe scandalizzato. Lui rinchiudeva i nemici in questa grande cavità artificiale alta 23 metri e poi si appostava in una cavità superiore per ascoltare facilmente i loro discorsi amplificati dalla conformazione dell’ambiente.
Noi invece, prigionieri della pioggia, abbiamo dovuto accontentarci di trovare riparo sotto un basso arco scavato nel tufo: testa asciutta sì, ma rapidamente l'acqua è cominciata a salire oltre il tacco delle scarpe e allora, approfittando di una pausa parziale del rovescio, ci siamo diretti verso l'uscita. Sinceramente speravo che la tregua tenesse, perché io fin qui ero venuto per vedere il Teatro Greco, quello in cui, nelle mie fantasie di studente di liceo classico, avevo idealmente ambientato tutte le tragedie greche. Quel teatro con la platea scavata in un unico blocco di tufo, quello dall'acustica leggendaria, costruito nel V secolo a.C., rivisitato nel III e poi modificato ancora in età augustea. I romani cambiarono addirittura i connotati della cavea, in origine a ferro di cavallo, rimodellandola con una forma semicircolare.
Annotazioni storiche che per me continuano a restare sulla carta perché io il teatro non l'ho ancora visto. Ho visto invece con quanta rapidità un Medicane riesce a trasformare una breve discesa asfaltata, quella che dà accesso alla Neapolis, in un torrente in piena, con tanto di gorghi e anse spumose, con l'acqua che in pochi minuti ti arriva alle caviglie. Tanto che abbiamo dovuto rifugiarci dentro la biglietteria fuori servizio del teatro in attesa che spiovesse.
E quando finalmente il nubifragio si è spremuto ben bene, a un paio di centinaia di metri dal teatro greco è andato in scena il tragediamento, e non la tragedia dei miei sogni di adolescente.
Il tragediamento è un termine che ho imparato a Palermo e si riferisce all'arte coltivata da un buon numero di siciliani di esagerare un po' i racconti di disgrazie e incidenti più meno gravi, in ogni caso sempre più gravi di quel che siano davvero. Nel nostro frangente il sipario si è alzato aprendo la portiera di un taxi. Il cui conducente, un trentenne gentile, scusandosi infinitamente, in pratica si è rifiutato di accompagnarci in albergo, a Ortigia, tre chilometri più sud, perché da lì ne veniva e c'era da aver paura. Ché lui in tanti anni di vita una cosa del genere non l'aveva mai vista, che i contenitori dei rifiuti (in realtà poco più grandi delle pattumiere per uso domestico) galleggiavano per le strade e che lui, poveretto, aveva persino rischiato di "fondere il motore", evento che sarebbe stato davvero magico considerando che la sua auto non aveva attraversato un fiume di lava, ma al massimo qualche decina di centimetri d'acqua. Però, tragediamento a parte, il nubifragio era stato davvero violento e fuori misura rispetto alle precipitazioni cui si è abituati da queste parti.
(1 - continua)
*ROBERTO ORLANDO (Nato a Genova in agosto, giornalista
professionista dal 1983. Ultimo capocronista del Lavoro. Dopo uno scombinato tour
postrisorgimentale che lo conduce in molte redazioni di Repubblica è rientrato
tra i moli della Lanterna. Viaggia, fotografa e scrive. Meno di quanto vorrebbe)
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