Simonetti e un Tour di cinquant’anni fa. "Quella tappa vinta nella squadra di Martini"

di MARCO PASTONESI*


Quel Tour de France di cinquant’anni fa. Ventitrè giorni, un prologo e venti tappe ma in tutto venticinque frazioni perché erano di moda le semitappe, anche se sarebbe stato più onesto chiamarle doppie tappe. Come quel giorno, venerdì 2 luglio 1971, la mattina la Roubaix-Amiens di 127,5 chilometri, il pomeriggio la Amiens-Le Touquet di 133,5.

Mauro Simonetti è nato in un giorno da Tour de France, anche se quel giorno non si correva. Era il 14 luglio 1948. A Roma, in via della Missione, l’uscita secondaria di Montecitorio, Palmiro Togliatti  - il segretario del Partito comunista - fu colpito da tre dei quattro proiettili sparati da Antonio Pallante - uno studente universitario. Cranio, milza e polmone. Operato, se la cavò. Poche ore più tardi Alcide De Gasperi - presidente del Consiglio, democristiano - telefonò a Gino Bartali – capitano della squadra azzurra al Tour: e Bartali risorse, tre vittorie in tre giorni, fino a conquistare la maglia gialla, dieci anni dopo la prima vittoria, un record mai più eguagliato.

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Simonetti, 73 anni, morto il 31 dicembre 1986 secondo Wikipedia, e invece pimpante e sorridente: “Seconda semitappa. Fuga. Via in sette o otto, dentro io e Wilmo Francioni, compagni di squadra. Stiamo bene. Andiamo all’arrivo anche se il gruppo ci bracca. Ci accordiamo. Ci provo io, a un paio di chilometri dall’arrivo. Se vengono a prendermi, ci prova lui, in volata. Perché io più passista e lui più veloce. E perché bisogna darsi da fare, il gruppo è ormai lì vicino, quasi se ne avverte il fiatone, quasi veniamo risucchiati dall’effetto aspirapolvere. A due chilometri dall’arrivo scatto, allungo, guadagno. Gli altri si guardano, si studiano, aspettano. Quando reagiscono, è tardi. Vinco. Francioni si rivela il più veloce, giunge a qualche secondo, secondo, il gruppo sopraggiunge poco dopo. Festeggiamo. La seconda delle tre vittorie italiane di quel Tour, la prima e unica della nostra squadra, la Ferretti. In ammiraglia Alfredo Martini direttore sportivo e Franco Vita meccanico. Martini, prodigo di consigli e incoraggiamenti, e Vita, bici a tracolla, come un gatto sul tetto della macchina. Festeggiamo con la giusta serenità, anche perché il giorno dopo finalmente si riposa, il primo dei due giorni in cui si tira il fiato”.


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Simonetti aveva quasi ventitrè anni: “Dilettante, medaglia di bronzo nella cento chilometri all’Olimpiade di Città del Messico nel 1968. Un giorno, in corsa, a vedermi, c’era proprio Martini: vieni da noi?, mi domandò. Avevo ricevuto anche un’altra proposta per passare professionista, dalla Magniflex, ma scelsi la Ferretti perché la sede era vicino a casa e perché Martini era serio e affidabile, come un secondo padre. Fu la scelta giusta. Rimasi con lui tre anni alla Ferretti e altri due nella Sammontana. Il suo ciclismo era umano e ragionevole, non come quello di oggi che è studiato e scientifico. I suoi comandamenti erano: fare la vita da corridore e gli allenamenti da professionista. La vita? Mangiare sano, bere giusto, a letto presto, niente grilli per la testa. Gli allenamenti? Tanti chilometri e tanta salita anche se fatta piano. Così due volte la settimana, spesso da solo, partivo da casa e salivo sul Passo delle Radici o sull’Abetone, fino a 250-260 chilometri, sei-sette-otto ore in sella. Il primo anno fui settimo alla Milano-Sanremo, vinsi a Camaiore, feci il Giro, ventunesimo. Il secondo anno corsi prima il Giro e poi il Tour. Il Giro lo vincemmo con Gosta Pettersson, ma io soffrii per una bronchite presa alla Tirreno-Adriatico e poi trascurata, al Tour conquistai quella vittoria, la più prestigiosa della mia carriera”.

Quel Tour del 1971: assente Gimondi, il duello era fra il belga Eddy Merckx e lo spagnolo Luis Ocana. “Merckx sembrava imbattibile. Dopo il giorno di riposo, quando si ricominciò a correre, qualcosa si spezzò. Nella tappa che finiva sul Puy de Dome vinse Ocana, e fra lui e Merckx altri due, l’olandese Zoetemelk e il portoghese Agostinho. Nella tappa alpina di Grenoble, primo il francese Thevenet, Zoetemelk guadagnò la maglia gialla, Ocana gli si appiccicò a un secondo, Merckx distanziato di un minuto. Poi fu il giorno di Orcières-Merlette, quando Ocana si prese tappa e maglia, e Merckx, terzo, ma in crisi, lui che sembrava – appunto – imbattibile, invincibile, addirittura onnipotente, gli arrivò a quasi nove minuti, e io undicesimo. Si stava scrivendo la storia del ciclismo, e di questo ci rendevamo conto. Ma Merckx aveva una forza impressionante e un orgoglio smisurato”.

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“Il giorno dopo, a Marsiglia, pronti, via, attaccò come se non ci fosse un domani, tutto il giorno il gruppo in fila indiana, primo Armani, secondo lui, Merckx: arrivammo un’ora e mezza prima del previsto, tant’è che al traguardo il pubblico non c’era. Nella crono di Albi, Merckx rosicchiò a Ocana pochi secondi, ma forse gli sbranò molta fiducia, e io fui sesto. Ed ecco i Pirenei. Nella tappa di Luchon, sotto una grandinata, ricordo Ocana sdraiato a terra, ferito, svenuto, poi ritirato. Io mi salvai. E a Parigi fui quattordicesimo nella crono finale e diciannovesimo nella generale”.

"Il Tour de France allora non era ancora grandioso come lo è adesso, il Giro d’Italia era organizzato meglio. Là spesso si dormiva nei conventi e ci si trasferiva in treno, in corsa ciascuna squadra disponeva di due ammiraglie e due furgoni, meccanici e massaggiatori diventavano matti nel cercare di assisterci decentemente, ma il pubblico – quello sì – era esagerato, alla partenza, all’arrivo, soprattutto sulle salite. E sulle salite sfoderai la prima parola francese imparata, ‘pousser’, spingi, e poi la seconda, ‘s’il vous plait’, per favore. La Francia – il territorio, il paesaggio, le città, gli orizzonti – scorreva velocemente. La testa bassa, sul manubrio, non aiutava a godersi lo spettacolo. C’era da faticare, da sudare, da sopravvivere. L’unico libro era quello della corsa: mappe, cartine, altimetrie. E un conto alla rovescia”.

Simonetti avrebbe corso fino a metà del 1979: “Da gregario uno dei miei compiti era prendere le borracce dall’ammiraglia e portarle ai capitani. Poi, invece, da agente di commercio, assunto alla San Pellegrino, il mio lavoro era vendere bibite e minerali. Così rimasi nel mio mondo. Liquido”.



*MARCO PASTONESI (Ha scritto per ventiquattro anni per la “Gazzetta dello Sport”. Si divide tra due passioni: il rugby e il ciclismo. Su tutti e due ha scritto molti libri - tra cui Gli angeli di Coppi, Il diario del gregario, I diavoli di Bartali, con Fernanda Pessolano Attenzione ciclisti in giro. Ha affiancato Alfredo Martini nella scrittura dell’autobiografia La vita è una ruota)


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