Senza eskimo da papà Cervi, nella nebbia di Campegine

di MATTEO COSENZA*

A Reggio Emilia! Con un desiderio covato da anni. Da quando avevo letto il libro, che era entrato ancora fresco di stampa in casa del“compagno Saul”, l’operaio comunista che era anche mio padre. Volevo conoscerlo, stringergli la mano, sentirlo parlare, sperando che raccontasse anche a me la sua storia. E ora ero in treno verso l’Emilia insieme ai delegati napoletani per partecipare al congresso della Fgci. Era il 2 gennaio 1969, ci aspettavano giorni di discussione, che si annunciava tempestosa come quei tempi di cambiamento, avevamo in tasca un biglietto di andata e ritorno che durava diversi giorni. Il ritorno era previsto per il sabato, ma potevamo anche prolungare.

Non so come ma io e Ciro Oliviero ci ritrovammo con lo stesso desiderio. Ciro aveva 21 anni, io due in meno. Barbe d’ordinanza, non indossavamo l’eskimo perché tanti giovani comunisti già avevano qualche riserva. Tutt’e due della provincia, lui di Ercolano, io di Castellammare. Anche lui aveva letto il libro. Durante il viaggio ne parlammo. Certo, ricordammo i sette figli fucilati dai fascisti nel dicembre 1943 ma ci affascinava quello che loro e tutta la famiglia avevano fatto per affermare il diritto a coltivare i campi senza dover dare il cinquanta per cento del ricavato ai padroni terrieri. Il livellamento! Di un terreno di 20 ettari, tutto gobbe e buche, fecero una pianura: tonnellate di terreno sparivano dalle gobbe e riempivano le buche, e contemporaneamente si realizzava una canalizzazione con una pendenza perfetta che non faceva disperdere neanche una goccia d’acqua. Il raccolto si raddoppiò. Guardati all’inizio con sospetto e curiosità e poi a cose fatte con meraviglia dagli altri coltivatori, finirono con il diventare un esempio per tutti. Quando ci si chiede quale sia stato il segreto del modello emiliano bisognerebbe ritornare a quelle storie che intrecciavano laboriosità, fantasia, intraprendenza e senso di comunità trasformatosi quasi naturalmente in coscienza politica. Lui, Alcide Cervi, poteva orgogliosamente scrivere: «Da allora, tutti i contadini della zona impararono a livellare. E oggi nel reggiano non si trovano più appezzamenti a gobbe e buche».18055635_1871984103044632_7162075340005426527_ojpg(foto di Matteo Cosenza)

«Perché non andiamo a trovarlo?». Non so chi dei due lo disse, ma decidemmo subito che non saremmo ripartiti il sabato, tanto il biglietto ce lo consentiva. Alloggiammo in un albergo adeguato alle quasi inesistenti risorse finanziarie dell’organizzazione, mangiavamo in una mensa nei pressi della federazione del partito, circondata da casa del popolo, qualche circolo e anche, se non ricordo male, un sindacato, ma i giorni e anche qualche notte li trascorremmo nel teatro Ariosto perché in una città dove il partito era tutto ce lo potevamo permettere.

Quel sito magnifico fu investito dall’impetuoso vento del tempo. Al punto che il congresso, quando terminò, fu praticamente e clamorosamente cancellato dalla storia del Pci e della sua organizzazione giovanile. Eravamo in pieno ’68 anche se avevamo già un piede nel ’69 e la Fgci si trovò ad essere un fragile ponte tra il partito e il mondo, soprattutto giovanile, che premeva per il cambiamento. Uscivamo dalla Primavera di Praga e dal Maggio Francese. I giovani comunisti nelle piazze, nelle scuole e soprattutto nelle università partecipavano al sommovimento profondo della società mentre nel partito spesso dovevano difendersi dalla critica di essersi spinti troppo avanti. Non da tutto il partito, ovviamente, se si pensa alle novità della linea del Pci che aveva già dovuto superare traumaticamente la rivolta ungherese del ’56, ma le resistenze non erano mai cessate. E in quei giorni reggiani ne avemmo conferma.

Tensione, polemiche, un dibattito acceso, si stava dentro il teatro e si pensava a quello che accadeva nel Paese, spesso anche scontri duri. L’epilogo più clamoroso, e che segnò la ricordata cancellazione, avvenne appena prese la parola il compagno della Direzione che era venuto a dettare la linea. Il tramestio in sala fu un presagio. E, mentre lui andava al microfono, dal tavolo della presidenza il segretario della Fgci, Claudio Petruccioli, mostrava in viso chiaramente la preoccupazione per quello che temeva potesse accadere. Non si sbagliò. Ugo Pecchioli, responsabile della cultura per il partito, non le mandò a dire, entrò subito in argomento parlando di Dubcek e di quello che si agitava negli atenei, ma quando a proposito del Maggio Francese invitò a fare attenzione agli evidenti rischi “controrivoluzionari” successe il finimondo, il teatro scattò in piedi e fischiò a lungo. Il volto di Pecchioli, che non si aspettava certo applausi scroscianti, divenne a tratti rosso per la rabbia e a tratti bianco per la sorpresa. Il resto avvenne di conseguenza. A conti fatti il congresso, che era già alla giornata conclusiva, finì lì e fu presto archiviato per essere sepolto sotto la polvere di qualche deposito.

18034233_1871983329711376_8472868922536010368_n66311jpg(foto di Matteo Cosenza)

Tutti tornarono alle loro case, tranne io e Ciro. Ci eravamo preparati all’appuntamento che ci premeva di più. Il sabato sera avevamo appuntamento con un compagno di Boretto, il comune sul Po confinante con Brescello. Ciro lo aveva conosciuto nella campagna elettorale della primavera del 1968 quando era venuto dalle sue parti come aiuto della Rossa Emilia ai compagni del Mezzogiorno. Dormimmo a casa sua. La domenica, quando ancora non albeggiava, andammo via. Ci mettemmo in marcia in una strada che non vedevamo perché eravamo dentro una nebbia così fitta che, se non fossimo stati quasi attaccati l’uno all’altro, ci saremmo persi. Quando finalmente, con un‘umidità che ci era penetrata nelle ossa, entrammo nella stazione di Boretto ci guardammo e quasi non ci riconoscemmo: le nostre barbe erano diventate bianche. Andammo alla federazione di Reggio dove il partito ci aveva messo a disposizione una macchina e un autista per accompagnarci. E così raggiungemmo Gattatico di Praticello, una frazione di Campegine.

«Siete missionari?», papà Cervi ci chiese dal letto dove si trovava. Le barbe, sempre loro! Il nostro accompagnatore gli spiegò che eravamo compagni venuti da Napoli, mentre la figlia lo aiutava a stare più sollevato sui cuscini. Aveva 94 anni, dopo pochi mesi sarebbe morto, in qualche momento non era lucidissimo ma quando incominciò a raccontare il suo passato i pensieri furono chiari e precisi: l’aia, la terra, la fatica nei campi, la lotta contro i padroni, i diritti conquistati, l’impegno politico dei figli, in particolare di Aldo, fino alla loro morte, qualche frase ripetuta chissà quante migliaia di volte come quella sull’andare avanti perché “dopo un raccolto ne viene un altro”. Non so quanto tempo stemmo seduti accanto a quel letto mentre la figlia ci girava attorno e ci serviva ora un caffè ora un bicchiere d’acqua. A pensarci bene lui con la sua saggezza non era andato lontano dal vero quando ci aveva scambiato per missionari, in fondo eravamo dei pellegrini che, per le loro convinzioni, invece di andare a venerare le stimmate di Padre Pio erano venuti lì per pregare laicamente sulle ferite di sette uomini, legati dallo stesso sangue e da un atroce destino di morte, che il loro padre testimoniava con la sua vita e la sua parola, quella sì una missione straordinaria. Una sensazione così forte provata poche volte nella vita, sicuramente quando in un altro pellegrinaggio volai sull’oceano per andare nell’isola caraibica a sostare religiosamente davanti al “Treno di Santa Clara”.

Avevamo ormai dimenticato i tumulti del congresso quando ritornammo a Reggio per spostarci in treno a Bologna in attesa di quello per Napoli che partiva attorno a mezzanotte. Senza un centesimo in tasca, con un freddo per noi inusuale, vagammo per ore sotto i portici distraendoci, mentre battevamo i denti, davanti alla vetrina di un negozio di elettrodomestici chiuso che trasmetteva la finale di Canzonissima.

17966178_1871983613044681_541582686644539832_ojpg(foto di Matteo Cosenza)

Sono tornato con Anna tre anni fa a Campegine, alla casa che ora è il Museo Cervi. Un luogo visitatissimo nonostante i tempi di smemoratezza che viviamo. Naturalmente io vedevo tutto, per quanto così diverso da cinquant’anni fa, con gli occhi di allora e sentivo la voce di Alcide Cervi. E ora, prima di scrivere, ho telefonato a Ciro Oliviero, che vive a Oristano dopo aver girato mezza Italia tra le sedi dell’Inps. Con una memoria più sveglia della mia, è lo stesso di allora e se fosse possibile fischierebbe di nuovo Pecchioli. Come me ha ancora la barba e pure la sua è bianca, ma la nebbia non c’entra.


*MATTEO COSENZA (nato nel 1949, è un giornalista. Napoletano di Castellammare di Stabia, meridionale con un quarto calabrese, italiano a 24 carati, nonostante tutto europeo, ospite transitorio della Terra)


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