Sedicesima tappa, Sacile-Cortina - Dolomiti, il cuore della corsa rosa

di ANGELO MASCOLO*

Tanto tempo fa mio padre mi parlò di Sacile. C’era stato nel lontano 1978, soldato carrista dell’esercito italiano. E in quella occasione mi raccontò di quanto a Sacile fosse inverno quasi tutto l’anno. Un freddo che parte dalle viscere di una terra solitaria e generosa, porta d’ingresso alle Dolomiti e abbrivio alla tappa di oggi della corsa rosa. Eppure questo eremo, posto ad appena 25 metri s.l.m, si presenta a corridori e turisti nelle sembianze di un grazioso centro prealpino. Ricco di acqua e canali (attraversato dal fiume Livenza) con un suggestivo centro storico punteggiato di numerosi palazzi nobiliari risalenti al periodo veneziano. D’altronde gli appellativi di «piccola Venezia» oppure «Giardino della Serenissima» stanno lì a dimostrare quanto Sacile sia una gemma in un territorio segnato dalle asperità di rocce e montagne.


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(Sacile)


Le montagne, già. Sono loro le protagoniste di questa tappa. In particolare le regine indiscusse di tutte le montagne del mondo: le Dolomiti. Di loro si è detto di tutto. Fiumi di inchiostro si sono buttati per raccontarle da ogni punto di vista: turistico, geologico, paesaggistico. Il punto è che le Dolomiti sfuggono a ogni umana comprensione. A ben guardarle non sono nemmeno montagne ma incredibili architetture di bellezza. Un intarsio di calcio e sali cristallizzato in un paesaggio vicino all’Eden di antidiluviana memoria. Nessuno di noi, nessun essere umano intendo, potrebbe mai concepire il fatto che proprio queste montagne – che tanto ristoro danno agli occhi e allo spirito – siano teatro ogni anno di una via Crucis di inesprimibile sofferenza. Perché due piedi che spingono pedali appesantiti dai morsi di pendenze inimmaginabili costituiscono una Passione sportiva che in nessun altro sport troverete. 

Questa tappa è per uomini veri, si è sempre detto. La verità è che chi si mette in sella e per 210 km affronta curve d’asfalto così inquietanti è soltanto un eroe. Al pari dei «classici» dell’epos e della fantasia. Alta montagna, valichi, pendii, passi alpini. C’è qualcosa di metafisico che spinge queste biciclette, su queste strade. Chiamatela dignità dell’uomo solo, inspiegabile bramosia umana a sfidare se stessa e i propri limiti. Ognuno di noi pagherebbe oro per sapere cosa pensa un ciclista che arranca sopra uno di questi tornanti. Cosa si prova ad affrontare una salita che non finisce? Cosa si sente, nel cuore, quando si sente che le gambe ti stanno abbandonando?


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(Verso il Passo Fedaia)


Tutte queste domande si affollano, come le nuvole sulle vette dolomitiche, nell’istante in cui la corsa rosa transita sopra la prima delle alture di questa tappa: lasciata Sacile, infatti, ecco che a quota 1100m appare la Crosetta. Una piccola croce, in gergo locale. Ed è una verità terribile: questo valico alpino è solo l’antipasto a quella croce di sudore e sacrificio che i corridori dovranno portare per i km successivi. Tutto sembra placarsi all’improvviso, però. Per ottanta chilometri la strada fa respirare la carovana rosa. Ma è solo l’illusione che l’alta montagna propina ai corridori. Come il materializzarsi di un incubo, a quota più 2mila metri, ecco il passo Fedaia. Molti lo conoscono con il nome innocuo di «Marmolada». Fidatevi: questo passo è tutt’altro che innocuo. Perché un valico con punte massime di pendenza del 14% ha in sé un istinto mortifero. Nemmeno il tempo di scollinare che la strada risale e arriva al Pordoi.

Sulle carte questo mostro di roccia è segnato come Passo Pordoi. Ma è solo una cortesia che si vuole usare a un tiranno. 2239 metri sopra il livello del mare, il Pordoi è il Giro d’Italia. Un connubio inscindibile, uno snodo per chiunque vada in bici. Non si può dire di amare il ciclismo se non si è respirata per una volta la fatica del Pordoi. A ragione è stato definito il Monte Olimpo delle due ruote. Perché sulle sue vette abitano gli dei, i grandi che hanno fatto grande questo sport. Il Pordoi non è solo sport: è natura, è musica, è cultura. Quanti di voi stanno rimandando a memoria i versi (stupendi) della canzone «Mi alzo sui pedali» degli Stadio dedicata al commovente ed eroico Pantani? P&P: Pantani & Pordoi. Da qui il Pirata tante volte ha ricacciato indietro le nuvole e fatto mangiare la polvere ai suoi avversari. Sempre da qui – primo fra gli uomini – ha avuto il privilegio di chiudere gli occhi e vedere la chimera del mare. Ma di questo, se permettete, parlerò a breve. 


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(Al Pordoi)


Sopravvivere al Pordoi equivale ad Odisseo costretto ad attraversare la morsa di Scilla e Cariddi. Se Pordoi è Scilla, Cariddi è senza dubbio Passo Giau. Altimetria di poco inferiore al Pordoi, Giau è territorio di confine. Uno spazio che sembra essere nato come stazione di posta tra l’umano e l’inesprimibile. Non è un caso infatti che proprio alla sommità del passo sia ancora oggi visibile il cippo confinario fra i territori della Repubblica di Venezia e l’Impero austroungarico.


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(Dal passo Giau)


Scollinato il Giau la strada perde quasi tutti i connotati della vera montagna. Certo: l’arrivo a Cortina d’Ampezzo – perla del turismo dolomitico – è pur sempre in altura. Ma la ruvidità della montagna non c’è più. Tutt’intorno vi abbraccia l’aria gentile di un centro colto e mondano. Cortina può esistere come conseguenza all’esistenza primigenia del Pordoi e del Giau. Non il contrario.

Per chiudere vorrei raccontarvi un aneddoto personale.


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(Cortina d'Ampezzo)


Mi sono innamorato del Giro a dodici anni. Era il 1999. E mi sono innamorato della bici grazie a un elefante. Cosa c’entra un elefante con una gara ciclistica?, vi starete chiedendo. Quell’elefante, in realtà, aveva sembianze umane. E si chiamava Marco Pantani. L’elefante magrolino, come lo chiamavano gli Stadio in quella canzone ricordo struggente citata poco fa. Sebbene il Giro d'Italia degli ultimi decenni abbia portato alla ribalta grandi ciclisti, questa corsa per me sarà sempre legata, come un nodo indissolubile, al pirata Pantani. Alle sue scalate, ai suoi scatti, a quella bandana improponibile, sberleffo a tutti i sistemi del mondo, ai suoi occhi affaticati e sbarazzini, a quelle leve essenziali che dipingevano i miei sogni, i sogni di un dodicenne ragazzino, con i capelli rossi e le lentiggini, che da allora, anche grazie a lui, ha iniziato a vivere di poesia.


*ANGELO MASCOLO (Sono archeologo, giornalista e scrittore. Ho collaborato con i quotidiani «Roma», «Metropolis» e «Il Mattino». Nel 2016 il mio romanzo "Palestra Italia" si è classificato secondo al Premio Letterario RAI «La Giara». A novembre 2017 è uscito «La primavera cade a novembre», giallo edito dalla casa editrice Homo Scrivens, arrivato alla seconda ristampa, che ha ottenuto diversi riconoscimenti a livello nazionale)

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