Sara, la santa nera che vive nel cuore gitano
di DONATELLA ALFONSO*
Prima di tutto c’è lei, Sara. Sara la Nera, una piccola statua dal volto scuro ingigantita dagli strati di mantelli luccicanti, dalle collane e dalle corone d’oro o dorate, chi lo sa. Però solo le mani delle donne zingare possono adornarla per farla ammirare così, nella cripta della chiesa fortezza dall’entrata così bassa che devi per forza inchinarti.
Lo fai la prima volta, lo farai ogni volta: perché tornare da Santa Sara, a Les Saintes Maries de la Mer, un paesino dal territorio immenso – 2600 abitanti, 374 chilometri quadrati di spiagge e stagni, campi e fattorie, strade e borgate, la gran parte dell’intera Camargue – diventerà un punto fermo della tua vita. Perché forse Sara la Nera ti ha stregato: ogni volta che tornerai – e tornerai sicuro, perché la Camargue ti entra nel sangue, e soffrirai di nostalgia non appena avrai superato la rotonda di Arles, diretto a est, verso casa - andrai a renderle omaggio, ad accendere una prima candelina. E un saluto, se non una seconda candela, l’accenderai alla partenza. Anche se non sei religioso, se in chiesa non ci entri mai, se solo l’idea di accendere candele ti fa venire l’orticaria.
Peraltro, santa Sara sul calendario non c’è. Perché forse è una leggenda. Quella della serva nera che accompagnava le Sante Marie, Marie Jacobé e Marie Salomé: fuggite insieme dalla Palestina, forse – altra leggenda – insieme a Maria Maddalena, dopo la morte di Gesù Cristo. Sarà una leggenda ma diglielo alle migliaia di gitani, sinti, rom, manouches che la vengono a omaggiare, che la amano come una di loro: perché lo è. Ma Santa Sara sarà anche parte di te, se impari a tornare da lei: insieme ai gitani, il 24 e il 25 maggio, i giorni del pellegrinaggio. Quando Sara torna al mare, portata in mezzo alle onde, davanti alla spiaggia, dai gardians e dagli zingari per una benedizione che è lei a concedere al mare, per poi rientrare in chiesa; e il giorno dopo tocca a loro, alle Sante Marie, nella loro barca che è parte integrante della statua lignea che attende il suo turno vicino alla parete degli ex voti, nella navata superiore.
Avanti e indietro, dalla chiesa alla spiaggia, un itinerario che non cambia mai. Come non cambia la liturgia, con il “Vive les Saintes Maries! Vive la Sainte Sara!” gridato dai celebranti che hanno sulla veste ricamata i profili stilizzati di tori e cavalli e la croce di Camargue creata dal marchese Folco de Baroncelli nei primi del ‘900 – che chiama a gran voce alla preghiera, intervallata da canti, nella chiesa fortezza, quella che ti dà il segnale che stai arrivando, alta com’è, appena superi il curvone di Cacharel. Il nome vi dice qualcosa? Sì, è quello della casa di mode, in realtà preso a prestito da un uccello delle paludi e da questa località, diventato da molti anni quello di un hotel in un antico Mas, le fattorie di queste zone, nel silenzio e nel nulla meraviglioso degli stagni che lo fronteggiano.
Ma il Covid-19 quest’anno ce
li ha tolti, quei due giorni incredibili. Torneranno. E torneremo a cercare di
entrare in una chiesa gremita la mattina del 24 maggio, a veder scendere,
lentamente, lungo due corde costellate di mazzi di fiori, la cassa con i resti
delle Marie da quel piccolo locale in alto, dietro la cella campanaria. Già, le
Marie: ma chi sono? Non dimenticherò mai l’ispirata parrocchiana - che ci
aveva precisato di essere laureata in teologia a Tolosa - che qualche anno fa conduceva piccoli gruppi
di visitatori proprio al sancta sanctorum della chiesa, il luogo dov’è custodita
la cassa. “Non sapete chi sono? Ma sono le zie di Gesù! Le sue parenti più
prossime che possiamo incontrare!” aveva esclamato. Io non so se questa idea
domestica fosse vera: ma altri partecipanti la presero in parola, cadendo in
ginocchio davanti alla cassa di legno con i suoi ingenui disegni
ottocenteschi. Sia come sia, un’emozione. Di sicuro non date retta a Dan Brown,
che nel Codice Da Vinci dice che a Les
Saintes Maries ci sono le reliquie di Maria Maddalena, il vero Graal: ecco,
intanto a salutare la Maddalena andate a Saint Maximin de la Sainte Baume, 150
chilometri prima, nella cripta che, a sua volta, toglie il fiato; e poi, se Dan
Brown càpita qui durante il pèlerinage, secondo me rischia.
In fondo, le migliaia di zingari e gitani che la venerano da secoli qualche idea di chi sia davvero Santa Sara se la devono essere fatta. Lei, sempre più carica di scintillii, ci guarda e regala ai cuori - perché qui la mente e i suoi ghirigori bisogna lasciarli fuori dal portone - il dono di un momento che ognuno vive per sé. Poi, la festa degli zingari è anche altro, l’incontro di clan e famiglie (e qualche chiarimento in cui scintillano pure le lame; sia detto), due giorni di turisti, teleobiettivi e grandangolari ovunque, e di gendarmerie in stato d’assedio. Ma dentro la chiesa, la fortezza cresciuta tra il nono e il dodicesimo secolo per difendere la gente di lì dalle scorrerie saracene, questo non c’è. Ci sono le gitane che fino a poco prima hanno provato a leggerti la mano fuori dalla chiesa, ma ora sono impegnate solo a adornare la santa, a farla bella per la sua uscita tra le strade; ci sono i loro uomini che lasciano un altro biglietto attaccato all’ultima veste che la ricopre. Ci siamo noi che non abbiamo capito cosa realmente stia accadendo, ma siamo all’interno di questa magia.
Sara la Nera questo mese di maggio non uscirà dalla cripta. Chissà cosa ne pensa, chissà se ci pensa, a noi che non siamo riusciti ad arrivare alla rotonda di Arles per poi scendere giù, 36 chilometri fino a lei e al mare dove sfociano le Bocche del Rodano. Speri che abbia riaperto, intanto, il negozio di souvenir religiosi che si vede uscendo dalla porta laterale: con tutte le statue di tutte le misure. Perché Sara, in questo modo, entra in case e in roulotte, diventa di famiglia. Au revoir, la Noire!
*DONATELLA ALFONSO (Nata a Genova nel 1957. Giornalista, scrittrice e curiosa - delle persone e della storia - per natura e per professione. Confida di tornare a viaggiare oltre i confini)
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