Sant'Elena, l'ultimo scoglio di Napoleone
di ANNAMARIA PASSARO*
Il fascino che Napoleone ha esercitato su di me a scuola non era solo dato dalle vittorie, dalla genialità, dalla personalità. Per qualche oscuro motivo ero attratta dalle stampe che lo rappresentavano nel suo esilio sull’isola di St. Helena. Le immagini erano diverse, ma per lo più mostravano l’ex imperatore dei francesi ritto su un’altura, con lo sguardo che scrutava l’orizzonte.
Quelle stampe trasmettevano benissimo la desolazione e lo stato d’animo di una persona sola e prigioniera. Mi faceva una gran pena. Da romantica adolescente, sorvolavo sulle carneficine e ruberie che erano avvenute in Europa: così facevan tutti, ma lui mi sembrava il meno peggio.
A quei tempi l’ultima cosa che avrei potuto immaginare era che un giorno sarei stata sulle stesse rocce, avrei camminato nelle sue stanze, mi sarei fermata sullo stesso scoglio a guardare l’oceano.
(Sant'Elena foto di Annamaria Passaro)
Quando l’allora mio fidanzato (e adesso marito) mi propose un viaggio a St. Helena, pensai che fosse impazzito. Non immaginavo lontanamente che ci si potesse andare, e soprattutto non sapevo dove fosse. La trovai come un nome in mezzo all’Oceano Atlantico.
L’unica maniera per arrivarci era via nave: la RMS (Royal Mail Ship) St. Helena ogni mese faceva un tragitto di andata e ritorno, partendo da Città del Capo e terminando a Cardiff. Un viaggio di circa un mese con soste varie, una delle quali era St. Helena.
A quei tempi sull’isola non esisteva ancora l’aeroporto, la nave era l’unico modo per raggiungerla e rifornirla. Dall’apertura del Canale di Suez le vie commerciali avevano preso altre strade, le isole dell’Atlantico erano state tagliate fuori dalle rotte navali.
Ci siamo imbarcati in Namibia, nel porto di Walvis Bay, durante l’ultima sosta di carico. Il nostro viaggio sarebbe durato 3 notti in nave e 3 giorni sull’isola. Poi avremmo proseguito con la stessa nave per Ascension Island (ma questo è un altro viaggio, dedicato a Darwin).
I passeggeri erano per lo più sudditi di sua maestà britannica, che vivevano sparsi dalle Falkland a Tristan da Cunha. Tutti tranne quattro: due francesi e due italiani (noi). Correva l’anno 2006, il mese era agosto, i mondiali di calcio erano da poco finiti con l’ingloriosa capocciata di Zidane e l’inatteso trionfo di noi azzurri.
(Sant'Elena foto di Annamaria Passaro)
L’inglesissimo comandante del vascello, dopo averci fatto i complimenti “for your fantastic football team”, ci assegnò perfidamente il tavolo con i francesi per tutto il viaggio.
Colazione, pranzo e cena.
Furono pasti difficili, lo confesso. Anche perché una sera ci venne servita come antipasto una “caprese” (pomodoro e mozzarella) di cui conservo ancora la fotografia. Il resto della crociera fu però molto piacevole. Ogni sera organizzavano giochi di società o proiezioni di documentari. La nave, seppure di dimensioni lillipuziane, era dotata di ogni comodità: piscina, palestra, tavoli da gioco e una sala cinematografica. Poteva contenere al massimo 20 persone. L’unica cosa davvero mostruosamente grande era il pentolone di “beef broth”, il brodo di manzo, che veniva servito ogni mattina alle 10 (mai assaggiato). Si mangiava sei volte al giorno, tra colazioni pasti e merende.
Una sera venne proiettato un cortometraggio sull’isola di Tristan da Cunha, il posto abitato più remoto al mondo. Il nome mi ricordava uno dei personaggi di Corto Maltese, e mi immaginavo meraviglie. Niente di tutto questo. E’ un’isola al cui confronto St. Helena sembra un paradiso. Una montagna arida, spazzata dai venti e i cui abitanti, per camminare, spesso devono aggrapparsi a corde fissate nella roccia. Freddissima e visitata da piccole navi 5 o 6 volte l’anno. La cosa buffa sono i cognomi degli abitanti: 8 cognomi in tutto, di cui 2 italiani. Lavarello e Repetto, discendenti da naufraghi liguri.
(Sant'Elena, la prima dimora di Napoleone foto di Annamaria Passaro)
A parte il comandante della nave, i francesi e un prete (laureato con una tesi su Sant’Ambrogio e che conosceva il latino), ci siamo resi presto conto che per il resto dei passeggeri St. Helena era un luogo assai più famoso e conosciuto della nostra Italia. Una ragazza mi chiese se conoscessi l’italiano, e alla mia risposta affermativa rimase sbalordita come se avessi detto che parlavo zulu. Un altro disse che voleva visitare l’Italia partendo da Amsterdam, proseguendo per Vienna e Monaco… Sull’isola, nel museo della casa di Napoleone, avremmo avuto altre sorprese sull’argomento.
St. Helena è comparsa di mattina, tutti ci eravamo svegliati prestissimo per non perdere lo spettacolo di vederla spuntare dal nulla. Man mano è emersa dalle nebbie un’alta montagna rossiccia di origine vulcanica, un tronco di cono con pareti a piombo. Non c’era alcuna possibilità di approdo. Anche le rocce che la circondavano erano appuntite. La nave non poteva attraccare, doveva rimanere in rada. Per scendere a terra bisognava aspettare la marea giusta e una barca che venisse a prenderci. Esisteva solo un molo lunghissimo incassato nella roccia, dove venivano compiute tutte le operazioni di carico e scarico, sia dei passeggeri che delle merci.
Bardati da giubbetti di salvataggio e tra mille raccomandazioni, siamo sbarcati a Jamestown, capoluogo e allora unico villaggio dell’isola. È un paesino che si snoda in una fenditura di roccia lunga e strettissima. All’ingresso c’è la casa del governatore, con un giardino di piante gigantesche, molto ben tenuto. Poi prosegue lungo una strada (l’unica) fiancheggiata da case colorate, un ufficio informazioni/affitta auto quasi sempre chiuso, e un pub: il “White horse tavern”. Fine del paese. Per nuotare esiste una piscina pubblica sul porto. Impossibile tuffarsi o andare a pesca in mare: le correnti sono talmente forti che buttarsi in acqua equivarrebbe a un suicidio. L’esilio di Napoleone era stato scelto con estrema accuratezza.
Avevamo affittato una macchina per girare l’isola e per raggiungere il lodge dove avremmo dormito tre notti. L’isola ha due climi ben distinti: la parte bassa è brulla e arida; salendo sull’altopiano il clima cambia completamente, diventa tropicale e temperato. Ci sono coltivazioni e allevamenti di bestiame. Una volta esisteva anche una fabbrica per l’inscatolamento del pesce che veniva importato dalle Falkland, ma poi fu chiusa. Quando arrivammo noi, disoccupazione e alcolismo erano molto diffusi.
(La casa di Napoleone a Longwood foto di Annamaria Passaro)
Ci siamo dati subito da fare per andare a cercare i siti e le tracce della permanenza di Napoleone. La prima tappa fu un villino dove fu ospitato per un anno dal medico del luogo. La casa di Longwood, che doveva accoglierlo in maniera definitiva insieme con il suo seguito, non era ancora pronta. Nel suo anno di soggiorno in quella piccola casa, Napoleone conobbe la figlia adolescente del medico, l’unica che parlasse francese. Pare non fosse una storia d’amore, ma di semplice amicizia, dovuta alla lingua comune e all’estrema solitudine dell’ospite. L’ostilità da parte del governatore si manifestò immediatamente con un trasferimento.
A Longwood, sede definitiva dell’esilio, i dispetti del governatore furono sempre più evidenti. Proibizione di piantare alberi, nonostante il vento in quel punto fosse fortissimo, obiezioni sulla sistemazione delle camere, sulla scelta dell’arredamento… Napoleone detestava quella casa. Pare ne stessero costruendo un’altra in un luogo più ameno quando morì.
Per la visita a Longwood c’era come guida una signora. Spiegava in maniera dettagliata la dislocazione della casa, ma conosceva in modo assai vago la storia del suo illustre abitante. L’edificio era grande, con stanze per il seguito (che però ben presto partì), una stanza per la musica, un bagno con una vasca abbastanza lussuosa, pavimenti di legno, pareti decorate con carte da parati a fiori. Mi sembra fossero verdi e blu. Allora per colorare i parati si usava l’arsenico. Napoleone dormiva nel suo lettino da campo portatile, attaccato alla parete. Pare che la leggenda dell’avvelenamento derivi dall’intossicazione dovuta a questa vicinanza ai muri. L’ex imperatore di Francia morì proprio in quel letto.
(La tomba di Napoleone foto di Annamaria Passaro)
Alla fine del giro, la guida ci mostrò orgogliosamente una copia dell’atto di nascita di Napoleone, spiegandoci che era in spagnolo (!). L'abbiamo letto: era italiano arcaico. Quando discretamente le abbiamo fatto notare che lo spagnolo non c’entrava un bel nulla con Napoleone, nato in Corsica, e che la lingua del manoscritto era italiano, lei ci chiese se per caso fosse una lingua “francofona”. Lì ci siamo arresi e abbiamo proseguito in silenzio il giro del museo.
St Helena è grande la metà dell’isola d’Elba, e in gran parte priva di strade. Trovare la tomba di Napoleone però non fu per niente facile. Nonostante le mappe, le indicazioni erano poche. Aveva scelto lui il luogo della sua sepoltura. Per essere lasciato in pace, mi piace pensare. Trovammo alla fine un cartello che indicava un sentiero. Lasciata l’auto ai bordi della strada, siamo scesi per circa un chilometro fino a giungere in una conca verde. La tomba era lì: una pietra con una sola parola, “Napoleone” (il governatore non aveva permesso altre scritte), circondata da una cancellata. E’ un luogo pieno di fascino, immerso nel verde, silenzioso. Ha un’atmosfera rara. Purtroppo abbiamo goduto di questa solitudine per poco tempo. E’ arrivata una macchina di turisti (alcuni nostri compagni della nave), che di fronte al monumento hanno esclamato: “Tutta questa fatica per scendere e trovare solo un blocco di cemento e una ringhiera!”.
Leggendo la guida, avevano scoperto in quel momento che il corpo dell’imperatore non era più sull’isola da un pezzo.
L’ultima sera di permanenza sull’isola fummo invitati a un matrimonio: lo sposo, che era tornato apposta dalla sua bella per la cerimonia, ci trovava simpatici e forse anche molto “esotici”. Più di una volta, dietro richiesta dei negozianti, abbiamo firmato i registri delle presenze: dopo Napoleone pare che sull’isola fosse sbarcata solo un’altra persona con sangue italiano.
Anche in quel caso, trovare il luogo della festa fu difficilissimo. Ci siamo presentati con solo un’ora di ritardo, nascosti dietro un mazzo di fiori e delle bottiglie. Il matrimonio era divertente, gli ospiti cordialissimi, curiosi di fronte a queste due “bestie rare”.
In un angolo della sala c’era un registratore di cassa: qualsiasi alcolico si volesse prendere, andava pagato. Non conoscendo l’usanza, siamo stati richiamati cortesemente all’ordine sulla porta di casa, mentre andavamo via.
Ci siamo congedati con molto affetto da tutti.
La mattina dopo ci imbarcammo di nuovo sulla nave postale di sua maestà britannica. Direzione: Ascension Island.
*ANNAMARIA PASSARO (nata a Milano nel 1955 da famiglia napoletana. Laureata in Filosofia, illustratrice. "Onirico ironica" è la definizione che amo e che mi diede l' amatissimo agente Marcelo Ravoni (Quipos) )
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