San Pietroburgo, caccia alla Camera d'ambra

di PAOLO SOLDINI*

Non fatevi imbrogliare. Se un giorno vi troverete nel palazzo di Caterina di Russia a Carskoe Selo, un’oretta di treno da San Pietroburgo, non credete alla guida quando vi mostrerà “l’ottava meraviglia del mondo”. I russi, si sa, tendono ad essere un po’ enfatici, e va detto che di ottave meraviglie del mondo ce ne sono parecchie decine rivendicate dai più vari paesi e sparse appunto per il vasto mondo. Però la camera d’ambra nella quale entrerete in punta di piedi, col fiato sospeso e con apposite sovrascarpe da camera operatoria, vi rapirà con la sua bellezza. Cinquantacinque metri quadrati con le pareti e gli arredi interamente ricoperti con sei tonnellate di ambra, con le sole eccezioni di una serie di specchi contornati da foglie d’oro: riflessi e magici giochi di luce diversi da quelli che avrete potuto vedere nei palazzi più ricchi di materiali e di arte nella fattura.

Uno spettacolo che vi farà capire uno dei motivi per cui quella Katherine von Anhalt-Zerbst, nata principessa tedesca e diventata zarina dopo la morte (sospetta) di Pietro III Romanov, nipote un po’ debosciato e troppo filoprussiano di Pietro il Grande, amasse starsene quaggiù, lontano dai fasti del Palazzo d’Inverno della capitale nella sua “dimora di campagna”, come chiamava lei, con un understatement da vera snob, il grandioso edificio barocco che un’altra Caterina, la seconda moglie di Pietro il Grande, aveva fatto costruire nel parco dai soliti architetti italiani che allora dominavano la scena.

Non fatevi imbrogliare, però, perché quello che vedrete è un falso. Quella che avrete sotto gli occhi non è la vera camera d’ambra. È una ricostruzione, realizzata una ventina di anni fa per un ghiribizzo di due potenti di allora: l’eterno Vladimir Putin e il più effimero Gerhard Schröder, all’epoca cancelliere della Germania e ai giorni nostri manager di prestigio prestato all’industria estrattiva russa: gas. Petrolio e milioni di dollari.

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(Il Parco e il Palazzo di Caterina a  Carskoe Selo)

 Intendiamoci: che cosa vuol dire che la camera non è “vera”? L’ambra è ambra ed è stata lavorata e messa su con certosina pazienza in 107 pannelli da un formidabile team di tecnici e di restauratori basandosi su un set completo di foto in bianco e neo e una a colori che, scattate nel 1931, rendevano agli occhi dei riproduttori anche i minimissimi dettagli dell’originale. Ci sarebbe da evocare lo spirito di Walter Benjamin e chiedere consiglio a lui: se la camera “falsa” è proprio uguale uguale a quella vera perché dovremmo relegarla nel mondo delle finzioni?

Quesito da filosofi. A noi, più prosaici, viene una domanda molto terra terra: se quella a Carskoe Selo è solo una copia, l’originale che fine ha fatto?

Bella domanda senza risposta. La vera camera d’ambra è scomparsa settantacinque anni fa nessuno sa come e, soprattutto, nessuno sa dove. L’hanno cercata dappertutto, la stanno ancora cercando e se avete tanta pazienza, buona conoscenza dell’arte del XVIII secolo e soprattutto molti soldi, potete unirvi anche voi alla caccia al tesoro.

Ma è ora di cominciare dall’inizio. La camera d’ambra, quella vera, fu realizzata tra il 1701 e il 1709 sul progetto di Andreas Schlüter, il più famoso architetto prussiano dell’epoca. Avrebbe dovuto essere collocata nel castello di Charlottenburg che gli Hohenzollern, ancora duchi di Prussia, avevano fatto costruire a Lietzenburg, allora alla periferia di Berlino. Il compito di adornare con preziosi arabeschi i pannelli di ambra che avrebbero coperto le pareti venne affidato in un primo momento a un incisore danese, Gottfried Wolffram, la cui prestazione era stata raccomandata al duca Federico di Hohenzollern, che di lì a poco sarebbe diventato re della Prussia elevata a regno, da Federico IV di Danimarca, il quale aveva ottimi motivi politici e dinastici per ingraziarsi il rampante vicino del sud. Al momento di firmare il contratto, però, si scoprì che i servigi di Wolffram non erano affatto a buon mercato. La famiglia degli Hohenzollern – si sapeva – non era propriamente di manica larga e così Wolffram fu rimandato a Copenaghen con tanti ringraziamenti al re danese e i lavori vennero affidati a due bravi artigiani di Danzica: Ernst Schacht e Gottfried Turau.

Nel 1709 i rivestimenti per la Bernsteinzimmer, la camera d’ambra della quale si favoleggiava in mezza Europa, erano belli e pronti: c’era solo da attaccarli alle pareti della sala più luminosa del castello di Charlottenburg. Solo che nel frattempo Federico I di Prussia si era ammalato e aveva cominciato a cedere poteri reali e competenze di governo a suo figlio Federico Guglielmo (in famiglia non c’era molta fantasia nella scelta dei nomi). Il rampollo, a differenza di suo padre e, poi, di suo figlio, era un tipo piuttosto rude e il suo carattere non migliorò quando, morto il padre nel 1713, gli succedette con il titolo di Federico Guglielmo I.

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(Uno scorcio della camera d'ambra)

Il nuovo re amava la guerra e le battaglie e trattava male non solo i sudditi ma anche la moglie, Sofia Dorotea di Hannover, i suoi quattordici figli e tutta la corte dove, per volere di suo padre, si parlava francese mentre a lui piaceva sbraitare in tedesco con i servi e con la truppa, il cui addestramento era la sua grande passione, tanto che ben presto cominciarono a chiamarlo il Re Soldato. Si dice che quando era di cattivo umore, cioè molto spesso, uscisse di casa con un bastone con il quale colpiva alle gambe e sulla schiena tutti i borghesi che gli capitavano a tiro e una volta fece condannare a morte il suo primogenito, il futuro Federico II, perché aveva disertato ed era fuggito a Parigi con un ufficiale della Guardia. Ci vollero molte insistenze di Sofia Dorotea e del gabinetto di Corte perché la condanna non venisse eseguita.

Si capisce che a un tipo simile la raffinata bellezza della camera d’ambra non facesse né caldo né freddo. D’altra parte neppure il castello di Charlottenburg, con le sue frivolezze barocche all’italiana, gli piaceva più di tanto e lo frequentava solo quando andava a caccia. Perciò quando gli proposero di spostare la collocazione della camera da Charlottenburg al castello di Berlino disse che per quanto lo riguardava potevano fare come volevano.

Non aveva molti amici, Federico Guglielmo, ma c’era un uomo che ammirava sinceramente: Pietro il Grande, lo zar che aveva preso in mano la Russia e la stava modernizzando a colpi di decreti e di ruvidi interventi dell’esercito contro i boiardi e gli esponenti dell’ancien régime. La nuova capitale San Pietroburgo, costruita in pochissimo tempo sulla foce della Neva, in pochi anni era diventata una metropoli al pari di Parigi e Londra (altro che quella povera provincia che era Berlino) e dal Palazzo d’Inverno sprigionava un’aria di potenza e di modernità. Pietro stava applicando in patria tutto quello che aveva imparato durante i suoi lunghi viaggi di studio in occidente, nei Paesi Bassi, innanzitutto, e poi in Inghilterra, in Austria, in Sassonia, nel Brandeburgo, dove aveva affascinato già il padre di Federico Guglielmo, il futuro re di Prussia Federico. Ma ciò che più piaceva all’uomo di Berlino era quello che il suo nuovo amico ed alleato nelle perenni ostilità contro gli svedesi aveva fatto del suo esercito. Uno strumento agile, ben inquadrato, dotato delle più raffinate tecniche di artiglieria. E con un corpo di élite creato ex novo e diventato, in pochi anni, leggendario in tutta Europa: la Guardia Imperiale.

Anche il re prussiano aveva la sua Guardia, formata prima dai rampolli dell’aristocrazia arruolati a forza tra i 12 e i 18 anni e poi da giovanottoni alti che i funzionari della corte andavano a cercare in tutti paesi d’Europa. Ma i russi… Così a Federico Guglielmo balenò in testa un’idea: chiedere al suo amico di San Pietroburgo un manipolo dei suoi uomini della Guardia in prestito permanente, un po’ come fanno ai giorni nostri le squadre di calcio. Ma che cosa offrire in cambio? A differenza del re prussiano lo zar di tutte le Russie non era solo un grande condottiero militare ma un uomo che amava l’arte e la bellezza e in quei tempi andava raccogliendo capolavori da tutta Europa. La camera d’ambra, che intanto era stata sistemata provvisoriamente in una sala secondaria del castello di Berlino, gli avrebbe sicuramente fatto gola.

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(Pietro il Grande)

Nel 1816, quando Pietro arrivò in visita a Berlino, l’intesa era già stata raggiunta: la camera sarebbe stata trasferita a San Pietroburgo e un reparto della Leibgarde russa avrebbe preso servizio alla corte degli Hohenzollern. Una serie di ritratti di Giganti Russi, con la divisa impeccabile, l’alto cappello a punta e il moderno fucile a retrocarica comparve nelle esposizioni d’arte e sulle pareti delle case aristocratiche della Prussia.

Ecco fatto. Nel 1717 la Bernsteinzimmer, divenuta jantarnaja komnata, viene sistemata al piano nobile del Palazzo d’Inverno. Ma non ci resterà a lungo. Il 9 luglio del 1762 Caterina di Anhalt-Zerbst, Romanoff per matrimonio, diventa la zarina e autocrate di tutte le Russie. Si capisce subito che sotto il suo regno molte cose cambieranno, a cominciare dalle alleanze. Lei, tedesca, sconfessa la politica filoprussiana del defunto marito Pietro III. Come il nonno di suo marito, Caterina è una innovatrice. Chiama a corte intellettuali, scrittori e filosofi illuministi, promuove l’industria, combatte il feudalesimo nelle campagne, riforma l’amministrazione pubblica. È, con Maria Teresa d’Austria, la protagonista del dispotismo illuminato che svecchierà l’Europa ponendo le premesse della Grande Rivoluzione.  

La zarina non ama il Palazzo di San Pietroburgo. Soprattutto non ama la confusione, il chiacchiericcio, i pettegolezzi, gli intrighi, le piaggerie della corte. Ordina agli architetti di costruirle un piccolo rifugio in un’ala dell’edificio - l’Ermitage lo chiama, alla francese - nel quale potrà leggere, studiare, ricevere le persone più intime. Ci fa portare alcuni quadri, qualche statua. È il primo nucleo di quello che diventerà uno dei musei più importanti del mondo.

Ma il romitaggio pietroburghese non le basta, cerca qualcosa di più isolato. E lo trova. A 25 verste dalla capitale, verso sud, vicino alla città che oggi si chiama Puškin, c’è un villaggio finlandese con un nome che alla sua omonima Caterina I, seconda moglie di Pietro il Grande, era sembrato quasi profetico: Sarskoe Selo. Bastava cambiare la prima lettera, metterci l’iniziale della parola zar (c o ts nella traslitterazione dal russo) e si poteva leggere come “villaggio dello zar”. Il palazzo fatto costruire a Carskoe Selo da Caterina I – non proprio una dimora di campagna quanto piuttosto una copia in scala del palazzo di San Pietroburgo – viene scelto da Caterina II come il suo buen retiro nella quiete della campagna russa. E quando deve scegliere le opere d’arte da portare con sé “al villaggio”, la camera d’ambra è al primo posto.

È ancora lì quando lassù nella capitale le cannonate dell’incrociatore Aurora il 7 novembre (del nostro calendario) 1917 segnano l’inizio della rivoluzione d’ottobre. Qualche mese dopo, il nuovo regime trasforma il palazzo dei Romanoff a Carskoe Selo in un’istituzione per bambini indigenti. San Pietroburgo è diventata Leningrado e alla camera d’ambra, chiusa a chiave, sembra che nessuno pensi più.

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(Le collezioni del palazzo di Carskoe Selo)

Il 21 giugno del 1941 Hitler dà il via all’operazione Barbarossa, l’invasione dell’Unione Sovietica. Il 30 agosto i tedeschi raggiungono la Neva, il 7 settembre il cerchio intorno a Leningrado si chiude e comincia il più lungo assedio della storia moderna: 900 giorni, quasi due milioni di morti, vittime dei bombardamenti e più ancora della fame e del freddo.

Carskoe Selo è nelle immediate retrovie dello schieramento tedesco intorno alla città. Il palazzo di Caterina viene requisito per ospitare il comando delle operazioni. Nessuno sa che dietro i pannelli di legno che i russi hanno fatto appena in tempo a montare per proteggere l’ambra dai bombardamenti e forse – chissà – per cercare di nasconderla agli invasori, si cela un tesoro inestimabile. Finché un giorno – pare – un operaio incaricato di riparare un asse scopre quello che c’è sotto. Il comando della Wehrmacht avverte Berlino, vengono convocati degli esperti d’arte, si consultano le vecchie foto, si interrogano gli abitanti del villaggio. Non ci sono dubbi: la camera d’ambra è stata ritrovata. Ora deve ritornare in Germania.

Non è facile. Nell’autunno del ‘43 la controffensiva sovietica è cominciata e l’opera di Schlüter, smontata e inscatolata in 27 casse metalliche, intraprende in condizioni molto difficili e pericolose il viaggio inverso a quello compiuto due secoli e mezzo prima. Pare che sia stato Hitler in persona a decidere che fare: la Bernsteinzimmer è un prodotto del genio prussiano e in Prussia deve tornare. Le casse vengono portate perciò in una sala del castello di Königsberg, la capitale della Prussia orientale. Ma non ci sarà il tempo per svuotarle. Stavolta tocca a Königsberg subire un assedio lunghissimo, che si protrarrà fino al 9 aprile del ’45, quando gli alleati anglo-americani ad ovest e i sovietici ad est avranno occupato quasi tutto il territorio di quello che era stato il Reich che si voleva millenario.

Quando i russi entrano a Königsberg, che ribattezzeranno Kaliningrad e con la sua regione sarà (ed è ancora) una exclave della federazione russa, della camera d’ambra nel castello non c’è traccia. Chi se ne è impossessato? Dove è stata nascosta? È stata fatta a pezzi dai bombardamenti, pur se nelle macerie non è stato trovato un pur minimo pezzo di ambra?

Fioriscono le ipotesi. Forse il tesoro è stato portato via subito prima che si stringesse l’anello dell’assedio ed è stato nascosto da qualche parte della Germania non ancora occupata, magari in una delle tante miniere abbandonate. Oppure è stato imbarcato di nascosto su una delle poche navi che durante l’assedio riuscivano a salpare, piene di profughi, dal porto di Pillau, ancora in mano ai tedeschi? Nel gennaio del ’45 molte imbarcazioni vennero affondate dai sommergibili sovietici o dagli aerei anglo-americani nel tratto del Baltico tra Pillau, Danzica e Gdynia. Fu un’ecatombe: nell’affondamento di una sola di queste navi, la Wilhelm Gustloff, il 30 gennaio, morirono tra 10 e 12 mila profughi. In questo caso la camera d’ambra si troverebbe su uno dei fondali, non troppo profondi, di quel tratto del Baltico. Ma molti l’hanno cercata da quelle parti, anche con le tecniche più raffinate e nessuno ha mai trovato alcunché (o forse sì, e si è ben guardato dal farlo sapere?). Oppure i manufatti d’ambra sono stati trafugati da qualcuno quando erano ancora nel castello di Königsberg e poi rivenduti pezzo per pezzo? Quest’ultima ipotesi potrebbe essere suffragata dal ritrovamento, negli anni passati, di alcuni oggetti venduti illegalmente, come un piccolo armadio che era in possesso di una signora tedesca negli anni ’60 e che parrebbe essere identico a quelli visibili nelle foto del 1931.

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Insomma, la fantasia può galoppare liberamente. Oppure ci si può acconciare all’idea che quella che si può vedere nel palazzo di Caterina se non è proprio la vera camera d’ambra le somiglia così tanto che nemmeno Schlüter e i decoratori di Danzica si accorgerebbero del trucco.  Alla copia, d’altronde, un team di espertissimi specialisti russi ha lavorato ininterrottamente dal 1979 al 2001, quando la ricostruzione fu interrotta per mancanza di fondi statali. Fu l’allora cancelliere Gerhard Schröder a chiedere alla società tedesca Ruhrgas del gruppo E.ON di finanziare la ripresa e la conclusione dei lavori. Poi fece il bel gesto di presentare la cosa a Vladimir Putin come un regalo in occasione del trecentesimo anniversario della fondazione di San Pietroburgo, un bel gesto di riconciliazione anche a voler sorvolare sul fatto che in quei giorni Schröder pare stesse già trattando il suo passaggio dalla politica al management come presidente del colosso russo del petrolio Rosneft.

Il 31 maggio del 2003 i due inaugurarono insieme la vecchio-nuova camera d’ambra nel palazzo di Caterina a Carskoe Selo e da quel giorno è lì che aspetta voi. Sempre che intanto qualcuno non abbia trovato quella “vera”.


*PAOLO SOLDINI (E' stato corrispondente a Bruxelles e a Berlino per l’Unità, capoufficio stampa del Comune di Roma e vicedirettore del Riformista. Ha raccontato la caduta del Muro di Berlino su cui ha scritto un libro - “Quando il Muro cadde anche in Italia” -, edito da strisciarossa, sito del quale è tra i fondatori. Collabora con la trasmissione di Rai Radio Tre Wikiradio)

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