Saluto a San Siro, e a una montagna dentro Milano
di ORESTE PIVETTA*
Come mi è già capitato di confessare, amo le montagne. Ho nel cuore anche una montagna che si alza per un centinaio di metri, forse meno, a uno o due chilometri da casa mia, casa mia a Milano, casa mia immersa come tutta la città nella pianura padana, la pianura più piana, costruita nei millenni da quel generoso fiume che è il Po, talvolta spaventoso quando lo si vede salire scuro “oltre il livello di guardia”, a suo modo generoso di sabbie e di detriti, come i suoi affluenti, il Ticino o l’Adda...
Una pianura che può essere suggestiva, quando appare nella nebbia, scandita dai filari di pioppi o di gelsi, sommersa dall’acqua quando ci si avvicina alle risaie di Novara o di Vercelli, dalle quali emergono cascine spesso ormai in rovina. O quando, nelle giornate limpide di fine inverno, l’aria è tersa, il cielo è azzurro intenso e, a nord, oltre lo smeraldo dei prati, appaiono il monte Rosa, le vette imbiancate della Svizzera, e via via, volgendosi a est, ormai vicine, cioè a poche decine di chilometri, le Grigne, il Resegone e le colline della Brianza, che ancora difendono angoli di tranquillità sopra la statale 36, che è un continuo di fabbriche, capannoni, supermercati, fumi inquinanti.
Siamo “tra due catene non interrotte di monti”, dalle parti di Renzo e Lucia, “su quel ramo del lago di Como” circondato da pareti rocciose, torri di calcare, boschi. Potrei raccontare qui della Corna di Medale, lo scudo dolomitico che si erge sopra Lecco, del Sasso Cavallo, del Fungo, del Torrione Cinquantenario, del Sigaro Dones, dei Magnaghi, dell’Ago Teresita, del Canalone Caimi o del Campaniletto, dove per una cinquantina di metri provò la sua prima arrampicata il grande Walter Bonatti.
Ma la casa chiama e quindi ripasso accanto
alla montagna di casa, che una volta si chiamava semplicemente Montagnetta,
cioè “Muntagneta”, “Muntagneta de San Sir” in dialetto, San Siro per via di una
chiesa demolita quattro secoli fa di cui sopravvive l’abside, addossato ad un
edificio neorinascimentale di inizio Novecento in cui nel 1944 si insediò la
banda Koch, la banda dei nazifascisti torturatori: da allora, per i milanesi
più vecchi e per i meno smemorati, fu Villa Triste. Ma la Montagnetta era nata
con un nome proprio e sempre di più (in particolare dai tempi in cui a
ridosso e sulle sue prime balze
s’organizzava la Festa dell’Unità) con
quel nome la si chiama: “Monte Stella”. Di Monte Stella credo che in Italia,
sulle Alpi o negli Appennini, ne esistano una infinità.
Nella vicenda milanese, Stella era semplicemente il nome della moglie dell’inventore di quella piramide, un grande intellettuale, un indimenticabile urbanista e architetto, Piero Bottoni (le cui lezioni ebbi la fortuna di seguire al Politecnico). A proposito di Piero Bottoni, che morì nel 1973 ad appena settant’anni, si sono scritti molti libri. Mi limiterò a ripetere che fu tra i primi italiani ad interpretare le nuove tendenze dell’epoca, che partecipò nel 1933 alla stesura della Carta di Atene, manifesto dell’urbanistica razionalista (una bella foto lo ritrae insieme con Le Corbusier a bordo della motonave Patris, in mare da Marsiglia alla Grecia), che realizzò i suoi progetti architettonici in molti luoghi d’Italia.
Accompagno sempre gli amici a visitare la sua casa di Corso Sempione, diciotto piani espressione del più coerente funzionalismo, e il QT8, cioè Quartiere Triennale Otto, ai piedi della Montagnetta, cioè del Monte Stella, completamento di quella altura. Un’impresa che, pensando ai tempi, sa di miracolo, un’impresa divenuta caposaldo di riferimento della cultura urbanistica italiana del Novecento, avviata nel 1947 sulla base dei progetti presentati proprio quell’anno alla Triennale, la rassegna di architettura e design nata nel 1923 e ancora in vita, ospitata nel grande Palazzo dell’Arte, lavoro nei primi anni trenta di Giovanni Muzio, uno dei più illustri architetti della scuola lombarda, grazie ad un lascito di sei milioni dell’industriale tessile, senatore del regno, Antonio Bernocchi, un mecenate: generosità d’antica borghesia.
Anche qui, sul limitare del centralissimo Parco Sempione, guido i miei amici in visita, perché l’edificio è bello, all’esterno una nave in clinker rosso e granito rosa, all’interno di un biancore e di una luminosità scanditi dai pilastri e dallo scalone di marmo che conduce al primo piano e alla terrazza che si affaccia sul Parco Sempione...
Il cammino del Qt8 fu singolare e irripetibile: dai pannelli di una mostra ai mattoni e al cemento, case di tipologie diverse, unifamiliari, a quattro piani, alte a parallelepido, la chiesa di Santa Maria Nascente (di Vico Magistretti e Mario Tedeschi), gli spazi collettivi, la biblioteca, il campo giochi, gli alberi e sopra tutto il Monte Stella. Traduceva una speranza di esistenza comunitaria in un ambiente “sano”, come dettava la cultura razionalista, in contrapposizione alla situazione ristretta e chiusa degli isolati popolari. Il Qt8 con la sua “montagna” era un quartiere sperimentale e resta di una qualità architettonica e urbanistica estranea a qualsiasi altra realizzazione a Milano e non soltanto a Milano, allora. Per me, anche oggi, qualcosa di straordinario, pure di fronte ai grattacieli di City Life o di piazza Gae Aulenti.
Il Qt8 fu un gesto di intelligenza, una prova di coraggio, un esercizio di cultura, nel segno per giunta di quei valori di convivenza che la lotta di Liberazione aveva espresso.
Il Monte Stella salì di metro in metro per una intuizione geniale, dettata dallo stato di necessità. Colpiti dai bombardamenti nel primo dopoguerra, ci si dovette misurare subito con un compito: sgomberare le macerie. Si cominciò riempiendo alcune cave di sabbia. Poi la svolta impressa da Piero Bottoni: perché limitarsi a tappare buchi, perché non pensare invece a accumulare, a costruire una montagna che muovesse il paesaggio piatto, un giardino in salita. Fu così che seguendo i disegni del Qt8 esposti in Triennale si cominciarono a muovere i camion carichi di detriti. Si andò avanti per anni ed anni, tale era stato il disastro. Ho fatto in tempo a vedere qualcuno di quei camion arrancare lungo le prime strade che circondavano il nostro nuovo K2, la nostra milanese vetta himalayana in costruzione (mentre, nel 1954, gli italiani per primi scalavano proprio il secondo ottomila della terra). Allora ero bambino e conservo il ricordo di sassi, mattoni, blocchi di cemento affioranti e polvere, ma anche della fontana, costruita lungo la massicciata di contenimento, inaugurata nel 1956: non ho mai visto scorrere acqua dal suo beccuccio.
Il Monte Stella è diventato un bosco di faggi, olmi, querce, ippocastani, aceri, tante varietà dalle fogge e dalle dimensioni ormai antiche: accanto ai pochi che erano cresciuti spontaneamente, nel 1970 si cominciarono a sistemare seicento arbusti di varie specie, tutti provenienti dalla Toscana. Un bosco tra i prati che dall’alto sembrano scivolare verso le strade. Siamo nel nord-ovest, all’altezza degli incroci che aprono le porte verso i laghi o verso le cime del Piemonte e della Valle d’Aosta.
Le stradine, alcune asfaltate, altre sono sterrati, conducono tutte ad un punto: dove comincia lo strappo finale, ripido, ghiaioso. Dalla cima la vista va dall’arco alpino all’Appennino e, appena sotto, allo stadio, ai nuovi grattacieli, alle guglie del Duomo, alle case. Una città cambiata, è cambiato contro l’orizzonte il suo profilo, che una volta era mosso solo dalla Torre Velasca, dal Pirellone, della cattedrale, dalle ciminiere, dai gasometri.
Sulla Montagnetta sono salito decine di volte, attraverso quei vialetti o lungo sentieri disegnati sulle pendici dai podisti in allenamento (qui e nella pista di atletica appena sotto, il campo XXV Aprile, si era allenato anche Alberto Cova), adesso dai ciclisti in mountain bike, dai cani che fanno festa. Si possono immaginare corse di ogni genere. Capitò che si tenessero anche gare di sci. Persino Gustav Thoeni ci provò. L’ultima nevicata del 2020 ha rinvigorito questa pratica: le pendenze del Monte Stella si sono prestate alle sorprendenti e irrefrenabili passioni sportive dei milanesi, frustrate dal covid e dalla chiusura degli impianti di risalita, e per fortuna al divertimento dei bambini.
L’ultimo tratto è il più duro: se lo fai di corsa senza fermarti, puoi andare orgoglioso. Lo conosco metro per metro: so dove posso accelerare senza temere di bloccarmi esausto. Lo conosco pietra per pietra: a metà non mancavo mai di sfiorare il resto di un muro che faceva da gradino, piastrellato di quelle piastrelle piccole che si usano (e sono tornate di moda) nei bagni. Adesso, non so perché non so come, è stato dissepolto e collocato di lato in mezzo all’erba. Qualcuno ha lasciato accanto un piccolo cartello, infisso nel terreno alla maniera di una lapide, con una scritta: “Pietra misteriosa”. Ho sempre guardato con rispetto quel calcinaccio piastrellato, chiedendomi da quale casa provenisse, da quale bomba fosse stato colpito, a quale storia avesse assistito, che fine avesse fatto la famiglia (probabilmente della buona borghesia cittadina, considerando l’eleganza di quelle piastrelle) che ne aveva goduto. Mi emoziono ancora calpestando quelle pietre, che sono il simbolo di una immane sofferenza: sotto i miei piedi i marmi della Galleria Vittorio Emanuele, gli intonaci della Scala, il cemento dei capannoni dell’Alfa del Portello, che sorgeva lì, poco lontano, la fabbrica di “Rocco e i suoi fratelli”, mattoni di una infinità di case. Nanni Svampa cantava: “Muntagnetta de San Sir, tumba dei noster ca’...”. Montagnetta di San Siro, tomba delle nostre case.
Il Monte Stella è un parco di quasi quattrocentomila metri quadri, senza retorica un monumento alla città martoriata e alla città che risorge (anche all’ingegno del suo creatore).
Scendo di solito dalla parte opposta per la quale sono salito. Una serie di giravolte mi conduce in basso. Sulla sinistra è la pista d’atletica, rifatta di recente di un azzurro intenso. Se giro a destra costeggio il Giardino dei Giusti. Incisi sulle pietre si leggono i nomi di Andrej Sacharov, Anna Politkovskaja, Marek Edelman, colui che guidò la rivolta del ghetto di Varsavia, Sophie Scholl, la studentessa tedesca giustiziata nel ’43 per aver guidato nel gruppo della Rosa Bianca la protesta contro il nazismo, Primo Levi, Nelson Mandela, Rocco Chinnici, papa Giovanni, Simone Weil, Hetty Hillesum, Felicia Impastato. Scopro una pietra anche per la Guardia costiera italiana, che tante persone ha salvato... Si deve rallentare per leggere e rileggere questi nomi e molti altri: insieme sono la storia del nostro Novecento, un’altra storia, quella dei Giusti contro gli orrori di questo e di quel secolo.
Il mio giro è finito. Devo ancora imboccare una strada che costeggia i palazzi alti e il mercato comunale, superare la chiesa, traversare e risalire verso gli ippodromi tra altri palazzi alti, la biblioteca, le case monofamiliari a schiera: da alcune spuntano le paraboliche, che s’affacciano sul mondo. Corro lungo tutto il repertorio edilizio del Qt8. Seguirò il muro di cinta degli ippodromi, il Lido, fino alla stadio di San Siro. Chiudo il cerchio, cercando di immaginare come sarà quel quartiere tra qualche anno, quale sarà la sorte dello stadio che le due società di calcio milanesi, Milan e Inter, vorrebbero abbattere per costruire un altro impianto, centri commerciali, residenze e chissà che cosa d’altro. Da anni se ne discute, di fronte ai rendering progettuali presentati dalle squadre, avveniristici, nuove invenzioni di vetro, acciaio, aiuole, passerelle, laghetti... Occorrerebbe un piano, per non disperdere un patrimonio immenso di prati ed alberi che dal Monte Stella s’allarga verso il Parco di Trenno, il Bosco in Città, il Parco delle cave, un cuneo verde di milioni di metri quadri: ci si può arrivare da qualsiasi angolo grazie a due linee di metropolitana, con gli autobus, con le biciclette...
A demolire hanno già iniziato: a cadere sono stati per primi i muri ormai corrosi dall’umidità delle scuderie al servizio dell’ippodromo del trotto, da tempo in abbandono. Resta l’anello del galoppo e restano le piste di allenamento, altre scuderie, altre case, condomini cintati, di lusso, che furono del finanziere Ligresti, dimora scelta da molti calciatori, discosta dai grandi assi del traffico, un territorio un poco misterioso, da scoprire, dove capita di passeggiare o correre accanto a poderosi destrieri.
Non so dove siano state dirottate le ultime macerie, inquinate dall’amianto. Quelle dell’Alfa Romeo e di alcune altre fabbriche sono state raccolte proprio accanto al Monte Stella. Sono diventate un cono tronco risalito da un percorso a spirale fino alla cima. Quasi perfetto, senza le divagazioni della vicina montagna, la montagna storica, l’esempio magistrale, l’avventura irripetibile di una collettività unita. Una prodezza come quella che vissero nel 1917 gli abitanti di un piccolo villaggio del Galles, Taff’ Well, orgogliosi, ambiziosi al punto di volere una montagna là dove spuntava una collina, Ffynnon Garw. Una questione di metri, anzi di piedi per stare al sistema di misurazione britannico. Perché la collina potesse raggiungere i mille piedi di altezza e quindi meritare dai cartografi inglesi d’esser classificata come montagna, i paesani di Taff’ Well decisero semplicemente di colmare la differenza trasportando in cima terra e sassi. Il reverendo Jones nobilitò l’opera: “I giovani che tornano distrutti da una guerra non meritano di essere anche privati dell'orgoglio di vivere vicino alla prima montagna del Galles”. La storia è narrata con garbo da un film, “L’inglese che salì la collina e scese da una montagna”. L’inglese in questione, il giovane che incoraggia i cittadini gallesi e partecipa alla fatica arrancando con i sacchi in spalla su e giù per il pendio della collina in procinto di diventare montagna, era uno dei due cartografi, interpretato da Hugh Grant. Naturalmente di mezzo, tra un carico e l’altro di terra, sboccerà anche una storia d’amore.
Il Monte Stella non salirà a quei vertici, ai mille piedi necessari per guadagnare il titolo di montagna. Non ne ha avuto bisogno. Ugualmente è riuscito a meritarsi un posto d’onore nella storia milanese, un posto che sa di affetto, di tradizione, di identità, naturale nella sua artificialità, quasi un baluardo a difesa di una idea di città possibile, della memoria di giorni terribili, di una religione civile.
*ORESTE PIVETTA (Milanese, laureato in architettura, giornalista professionista, ha lavorato all'Unità come caporedattore, inviato, editorialista. Ha collaborato con numerose riviste, con Radiotre e con Radio Popolare. Ha scritto alcuni libri, tra i quali "Io, venditore di elefanti" (Garzanti, con Pap Khouma), "Candido Nord" (Feltrinelli), "Franco Basaglia. Il dottore dei matti" (Baldini Castoldi). Ama gli sport che pretendono tanta fatica: l'alpinismo, la corsa in montagna, il ciclismo (naturalmente in salita)
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