Rustìn negàa, l’arrostino annegato che piaceva alla Marchesa

di MASSIMO CECCONI*

Quando ero piccolo, tanti ma tanti anni fa, pensavo che il rustìn negàa fosse un’imprecisata pietanza a base d’arrosto che a qualcuno era negata, come sicuramente lo era alla mia famiglia che non l’aveva né mai cucinata né mai mangiata.

Poi col tempo, grazie al Cinto che mi aveva preso a ben volere, ho imparato che di arrosto pur sempre trattasi però annegato. Soavemente annegato, diremmo, nei suoi stessi umori, nel burro, nel vino bianco, negli aromi che durante la lenta cottura ne esaltano il profumo.

Il Cinto, sant’uomo, ben voluto da tutti sulla ringhiera, da giovane aveva lavorato come factotum in casa della marchesa Mazzali Bon Vien dal Monte, una signorona che abitava in pieno centro della città, in via della Spiga, ed era un campione nel preparare el rustìn negàa così come gli aveva insegnato la marchesa stessa, attenta sia ai piaceri della vita che allo spessore del borsellino.


Nodino 2jpeg


Per la qual cosa il rustìn non era piatto di tutti i giorni, era la pietanza della domenica perché il nodino, persino sulla tavola dei signoroni, era considerato un cibo da ricchi.

Al Cinto era un piatto che gli riusciva proprio bene e di cui andava giustamente orgoglioso tanto da vantarsene in famiglia e con gli amici.

In verità, la moglie gli dava del lungo che lei c’aveva cose più importanti da fare, mentre gli amici dell’osteria, tra una partita di Marianna e l’altra, facevano almeno finta di ascoltarlo e anzi gli chiedevano quali fossero gli ingredienti, se ci metteva la salvia, quale carne usasse e il vino eccetera eccetera.

Allora il Cinto pazientemente spiegava alla sua compagnia di carte come si cucinava tale soave piatto.

Anche in questo caso è fondamentale avere un buon macellaio e il Cinto, su indicazione della marchesa, si recava in un negozietto dietro via Manzoni che aveva vanto di servire la meglio clientela della città.

Il nodino si ricava dal carrè del vitello ed è assolutamente composto da filetto e controfiletto, separati da un sottile osso che segna il confine tra le due consistenze.

Bisognava poi procurarsi una fetta spessa di pancetta tesa, possibilmente più magra che grassa, gli aromi necessari, un q.b. di vino bianco, diremmo Soave o Lugana, e un tot di burro.

Quest’ultimo ingrediente proveniva, su richiesta espressa della marchesa, dalla Valsassina, dalle parti di Introbio, paese già ben noto per via di una certa robiola che faceva resuscitare i morti.


spigajpg

(Via della Spiga a Milano)


Acquisito il necessario, il Cinto procedeva così.

Metteva in una capiente padella di ferro un bel tocco di burro e lo lasciava sfrigolare in compagnia di una significativa dadolata di pancetta, debitamente sminuzzata.

Al momento opportuno, che ogni cuoco c’ha la sua interpretazione, il Cinto calava in padella il nodino, preventivamente passato in un velo di farina bianca, salato e pepato.

A rosolatura avvenuta su ambo i lati, occorreva versare un bicchiere raso di vino bianco, lasciare evaporare lo spirito per qualche minuto, abbassare la fiamma, incoperchiare e lasciare cuocere almeno per un’ora.

A parte, è buona norma preparare un ciccinino di brodo che può essere utile nel caso l’intingolo si asciughi troppo.

A cottura (quasi) ultimata, il Cinto aggiungeva in padella un trito al coltello di rosmarino, che sul balcone della cucina della marchesa profumava l’aria, così come, in verità, sulla ringhiera dove le piante degli aromi non mancavano mai, e qualche fogliolina di salvia, di cui come sopra.

Ancora qualche minuto di cottura, giusto per aromatizzare adeguatamente la carne e verificarne la tenerezza, e il piatto era pronto. Prima di combinare guai, ricordatevi però di aggiustare di sale.

Con la sua saporita puccia, l’arrostino annegato veniva servito, così come piaceva alla marchesa, accompagnato da un purè di patate, oppure da una bella insalatina mista nella quale non poteva mancare qualche spicchio di ravanello, possibilmente piccantino.

E se mi chiedete con quale vino veniva servito il rustìn negàa? Anche se non me lo chiedete vi dico che alla marchesa piaceva un bel bicchiere, anche due, di Freisa del Monferrato che buscia quanto basta per accompagnare gli aromi di un piatto che sulle tavole di Milano, direbbero oggi, si colloca nella top ten.


Rustin 2jpeg

Va da sé che al Cinto era impedito cogliere tutta la bontà del piatto, al massimo ne coglieva i profumi, usmando la pietanza prima di portarla sulla tavola della marchesa.

Ma, per non essere da meno, che qualche soddisfazione nella vita bisogna pur togliersela, una domenica ogni due mesi si concedeva anche lui il lusso del rustìn, con buona pace della moglie e della compagnia della Marianna, intesa come gioco di carte.

Da parte mia, posso solo testimoniare che quando il Cinto preparava il rustìn negàa gli effluvi penetravano anche nelle fessure della ringhiera suscitando le invidie di tutti coloro che, se andava bene, si potevano solo consolare con una piatto di busecca. Ma anche quella “buttala via”, come dicono dalle parti della Capitale che il sarcasmo non gli fa difetto.


*MASSIMO CECCONI (Milano, 1950. Città in cui ha curato e coordinato numerose iniziative in tema di letteratura, cinema, teatro e musica. Ha ideato la collana di video “Gente di Milano” ed è coautore di due documentari dedicati ai poeti Maurizio Cucchi e Umberto Fiori. Fondamentali esperienze nel Consiglio di amministrazione del Piccolo Teatro di Milano con Giorgio Strehler e nella Commissione Teatro del Ministero della Cultura. Ha recentemente pubblicato la raccolta “La Piazzetta. Racconti milanesi)

 


clicca qui per mettere un like sulla nostra pagina Facebook

clicca qui per rilanciare i nostri racconti su Twitter
clicca qui per consultarci su Linkedin
clicca qui per guardarci su Instagram

e.... clicca qui per iscriverti alla nostra newsletter