RECENSIONE - I monti del Velebit, una magica ghirlanda con i piedi nell'Adriatico

di MICHELE SARTORI* 

(foto da pixabay)


Frequento fin da ragazzo, e ora ci abito la maggior parte dell’anno, l’isola di Cherso. Quando mi affaccio ad est vedo vicinissimo, al di là del mare e di qualche altra isola, tutto l’arco iniziale delle alpi dinariche, dal Gorski Kotar a nord alla lunga catena del Velebit che inizia di fronte e si perde a sud, in una divergenza parallela dalla mia costa. Mi attira incredibilmente, così vicina e così lontana. Il Velebit è una ghirlanda di montagne lunga, più o meno, 150 chilometri. Hanno i piedi piantati nel mare, al di là del crinale c’è, invisibile, la Lika, l’altopiano continentale. Spesso, con un teleobiettivo decentemente forte, esploro palmo palmo la parete affacciata all’Adriatico. Non trovo un segno di vita, non paesi, non strade, non mulattiere (qualcuna c’è, lo so, ma si infratta subito o si infila in gole nascoste), solo un misto di nudo calcare e bassa vegetazione: di qua parte la bora.


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Molto spesso sul crinale approda dall’interno un lunghissimo rotolo di nuvole, un gigantesco paraspifferi, che là si ferma. Scendiamo a mare? sembrano chiedersi le nubi infingarde. Macché. Si aggrappano alla sottile cresta di confine mediterraneo-continente con le unghie e coi denti. Le nuvole hanno unghie e denti? Di solito no, queste del Velebit sì. Non si stancano di guardare dall’alto la Dalmazia, uno dei più bei panorami del mondo. Beate loro. Di notte, quando è tempo, gli spuntano dietro lune piene gigantesche, come forme pubblicitarie di parmigiano.

Possibile, oggi come oggi, centocinquanta chilometri di montagna deserta, vergine, selvatica, inaccessibile? Qualcosa di inesplorato, di ignoto, di hic sunt leones (in questo caso, orsi)? Sì. Però bisognerebbe rigirare la domanda. Il Velebit “era” frequentato, abitato (poco), lavorato, percorso, conosciuto. Poi è stato abbandonato dai poveri coltivatori, dagli allevatori transumanti, dagli avventurosi tagliaboschi, dai commercianti itineranti che portavano sale dal mare all’interno; nulla (cioè il turismo) è arrivato al loro posto e il bosco di abeti, faggi, pini neri ha ripreso il sopravvento, da un secolo scarso in qua. “Riforestazione” naturale, si chiama il fenomeno, antitesi buona della deforestazione umana. Oggi il Velebit è integralmente parco naturale, con vari gradi di tutela, riservato, di fatto, ad escursionisti molto appassionati.


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Tra questi c’era Chiara Schiavato Veranić, naturalista fiumana da poco scomparsa. Scriveva periodicamente delle sue ricorrenti salite al Velebit sulla “Voce del popolo”, il quotidiano dell’Unione degli Italiani, e prima di morire ha fatto in tempo a selezionare e sistemare i suoi rapidi racconti per farne un libro, appena stampato da Ediciclo: “Magico Velebit”. Il tono generale non è retorico, né fiabesco, a dispetto del titolo. Non riporta leggende, miti, storie esoteriche di elfi, folletti, gnomi, driadi, orchi, l’irritante spezia di tanti libri sulla montagna. Il piglio è stupito, piuttosto, ammirato, pervaso da un’ansia didattica tesa a raccontare l’ispida selvatichezza vecchia e nuova del Velebit. Si rivolge, ovviamente, ad intenditori, non al gitante della domenica.


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Leggendola, mi è venuto da pensare: ma questo è l’inferno di Dante, capovolto. Prendete l’inferno sotterraneo della Commedia, rovesciatelo come un calzino esponendolo al sole, ed avrete il Velebit. La pietra “color ferrigno” si schiarirà. Resteranno il paesaggio carsico, le rocce scheggiate, i passaggi crollati, le frane, le grotte (qui tra Istria e Dalmazia “grotta” non significa grotta ma, esattamente come per Dante, pietra sconnessa), le pareti bucate, gli archi, i massi in bilico, le forme bizzarre ricamate da pioggia, vento, aerosol marino, le caverne, gli inghiottitoi improvvisi, le doline… Nel suo inferno il cittadino Dante sbuffa, arranca, lamenta, scende da un cerchio all’altro aggrappandosi a “ronchioni”, “chiappe”, “borni”, “rocchi”, “scogli”, cioè alle variabili sporgenze delle rocce, sugli archi di pietra procede carponi, le pietre gli franano sotto i piedi, soffre di vertigini, si sfiata, si accascia recalcitrante a proseguire e Virgilio deve sollecitarlo, spingerlo, tirarlo, portarlo di peso nei passaggi difficili…

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Questo libro-guida, molto onestamente, non fa nulla per stimolare un nuovo Dante a visitare il Velebit, a cominciare dagli scoraggianti consigli agli escursionisti che si accingano ad affrontare tutto o in parte il “Velebitski planinarski put”, sentiero segnato che percorre la catena da nord a sud, per 115 chilometri in nove tappe. Tanto per dire: mai d’inverno (è il luogo più freddo della Croazia, neve oltre i 3 metri, bore terrificanti) mai d’estate, e comunque non salire dalla costa (caldo micidiale, assenza di acqua). Mai da soli, mai in più di otto – limite massimo di capienza dei rari bivacchi. Portarsi cibo e acqua, calcolando almeno tre litri al giorno. Portarsi anche tende, materassini, batterie di ricambio per i cellulari, pannelli solari per trekking, pastiglie potabilizzanti. In alcuni tratti ancora non bonificati, non uscire di un solo centimetro dal sentiero: il Velebit è stato abbondantemente minato nell’ultimo conflitto balcanici, dal suo crinale i serbi dell’entroterra avrebbero potuto comodamente bombardare la strada e le città costiere croate. Se si incontra l’orso, caso non raro, stendersi a terra e fare i morti. Quando si incrocia l’irascibile vipera dal corno, caso frequente, girare alla larga, lei non è una che si sposta. In certi tratti critici, aggrapparsi alle scalette di ferro ed ai passamano metallici piantati appositamente; però meglio di no se è in corso una delle ricorrenti tempeste di fulmini…


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(Magico Velebit  di Chiara Schiavato Veranić   -     Ediciclo    pagg. 128    euro 14)    

Non è luogo, si capisce, per pic-nic. Il compenso, per chi è disposto a sudare, non è da poco. Chiara Schiavato Veranić e, in contributi paralleli, Roberto Valenti, Livio Poldini e Christian Gallo, elencano: panorami mozzafiato sull’azzurro dell’Adriatico, sull’intrico sottostante di isole verdi o brulle. Flora, fauna, geologia eccezionali. Scoperta di testimonianze culturali, di antiche fatiche, muretti a secco, pozzi, cisterne, stradine letteralmente scalpellate a mano – e di inutili nuove fatiche di Sisifo, come il montacarichi mare-monte subito abbandonato fatto costruire negli anni cinquanta ai prigionieri politici (comunisti non titini, inclusi parecchi italiani) di Goli Otok, l’Isola Calva, per portare giù il legname, quando c’erano nell’adiacente Lika fior di segherie. Incontri con gli immancabili solitari, l’ultima pastora, il meteorologo-eremita… E molto altro. La guida non lo dice, ma su internet sta apparendo la pubblicità di giri organizzati per scoprire il Velebit “con trekking su jeep”. Ahi-ahi.


*MICHELE SARTORI (Tosco-cimbro - mamma di Lamporecchio, papà di Asiago -, nato nel 1949, cresciuto a Padova. Parecchi decenni a “L’Unità” occupandomi soprattutto di giustizia, terrorismo, nordest. Un paio di libri sul terrorismo. Ora, in pensione, vivo tra Genova e - prevalentemente - l’isola di Cherso. Leggo, fotografo, cammino. Sposato. Nonno disimpegnato. Estremamente pigro)