Quindicesima tappa, Grado-Gorizia - Dalle antiche Venezie alle colline di Slovenia

 di MARCELLA CIARNELLI*

Una tappa “elastica” la quindicesima del Giro. Nel senso che da Grado a Gorizia, inizio e fine della prova friulana che sconfina in Slovenia, ci sono in realtà meno di cinquanta chilometri, che diventano 147 grazie a un disegno del percorso che prevede tre giri concentrici con inizio a Gornije Cerovo per assegnare tre successivi gran premi della montagna e consentire di guadagnare punti per la maglia azzurra finale, prima di puntare al traguardo di Piazza della Vittoria, con la fatica finale di un pavè. 

Si parte dal mare. Dal Campo dei Patriarchi di Grado, dal cuore di una città che è terra e mare con vicino la foce dell’Isonzo. E’ lì da 1600 anni, nel mezzo della più settentrionale delle lagune dell'Adriatico che comprende circa trenta isole e si estende per novanta chilometri. Trieste, il sontuoso capoluogo della regione, resta a distanza, a meno di un’ora. “L’isola del Sole”, come viene anche chiamata Grado che per molti è anche “la prima Venezia”, è un luogo tutto rivolto a sud che cominciò a svilupparsi nel 452,  quando diventò rifugio di una popolazione che scappava dagli Unni guidati da Attila. In questa terra nei secoli hanno cercato di farla da padroni pirati, austriaci, francesi, austriaci, inglesi, il regio esercito ai primi del ‘900. E anche la Chiesa fece pesare la sua pressante e condizionante presenza.

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(Grado)

 Un luogo di barene, canali, lagune e corsi d’acqua che la sua vocazione turistica cominciò già a manifestarla verso la fine dell’800. Qualche albergo, molti di charme, stabilimenti balneari, le colonie per i bambini. Determinante per lo sviluppo fu il collegamento alla terra ferma con un ponte girevole. E una diga con passeggiata a mare e porto interno oltre al tracciato ferroviario. Tra le attrazioni le Terme, cui si appassionò per prima la nobiltà austro-ungarica e che affascinarono anche un impegnato e razionale Sigmund Freud.

 Il centro storico fatto di calli e campielli, la Basilica di Sant’ Eufemia, il Battistero e Santa Maria delle Grazie, e via, verso l’interno della regione che è confine d’Italia verso oriente. Subito Aquileia, fondata nel 181 avanti Cristo, che con Ravenna e Brescia è il più importante sito archeologico dell’Italia settentrionale, una delle capitali storiche del Friuli, il cui vessillo discende proprio dallo stemma di Aquileia. Una regione dolce e aspra legata nella memoria a Pier Paolo Pasolini e la sua Casarsa, paese d’origine della madre, un “rustic amòur” in cui lo scrittore visse negli anni della seconda guerra mondiale e anche dopo. Qui si avverte l’origine della cultura alta e coinvolgente del triestino Claudio Magris, uno dei massimi scrittori contemporanei. Si comincia a salire, Monte San Michele segnalato da Giuseppe Ungaretti come luogo capace di stimolare la sua creatività tanto da citarlo nel componimento “Sono una creatura”. Monte che in realtà è una collina, un rilievo fino a trecento metri. Si comincia ad avere in vista  il Carso che passando da Trieste arriverà fino all’Istria. Da qui si vede ancora in lontananza il mare. Da queste parti c’è il Sacrario di Redipuglia che accoglie i resti di centomila soldati italiani caduti durante la prima guerra mondiale.

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(Aquileia)


 Scorre l’Isonzo e prosperano i vigneti. La regione è terra di vini pregiati. In prospettiva il panorama è splendido. Ribolla del Collio, Traminer, Chardonnay, Pinot grigio, Picolit. Dal mare ai monti si passa assaggiando il boreto di pesce, zuppa fatta con i pesci della laguna di Grado fino alla jota, zuppa di terra fatta di crauti, fagioli e patate che di colpo ti fa sentire mitteleuropeo. Ovunque il frico di patate, i Cjarsons, ravioli ripieni di mele e la Gubana come dessert. La coltivazione delle mele, il cui inizio risale alla fine del ‘700, è quasi ovunque presidio Slow Food. A Mariano del Friuli oltre al vino si fanno per tradizione anche le seggiole. In tutta la regione, sui monti e nella campagne fin dall’’800 ma forse anche prima, si confezionano le friulane, a Venezia le chiamano scarpets, l’alternativa agli zoccoli da lavoro, le scarpe della domenica, quelle della sposa nel giorno del matrimonio, confezionate all’inizio con materiali poveri, di scarto. Ora sono una tradizione di gran moda.

 Questa è terra di gente solida, forte, tenace. Un esempio è la reazione al tragico terremoto del 1976, il quinto peggior evento sismico che abbia colpito l’Italia nel ‘900. Rimboccarsi le maniche e ricostruire, fu l’imperativo. “Non si vede più nessuno piangere il secondo giorno dopo il terremoto” scrisse Gianni Rodari su Paese Sera. In dieci anni la ricostruzione fu conclusa.


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(La zona di  Gornje Cerovo)


 A Gornje Cerovo, da cui parte il triplo anello, si scavalla in Slovenia. Terra quieta che nel 1991 difese la sua scelta di indipendenza sancita l’anno prima con un referendum che fu approvato con l’88 per cento dei voti. Ci fu un breve conflitto armato tra la Slovenia e la Repubblica socialista federale Jugoslavia, la “guerra dei dieci giorni” segnata più da scaramucce che da battaglie e, fortunatamente, pochi morti. La parola fine fu messa dagli accordi di Brioni, favorevoli alla Slovenia.

  E’ un continuo di verde e di altopiani questa terra, ma anche di laghi e alte montagne. Le rudezze carsiche. Terre in continuità a volte separate dagli uomini. Paesaggi e tradizioni contadine che si ritrovano nelle opere di Zoran Music, grande artista nato a Boccavizza, che è già Slovenia ma a qualche chilometro da Gorizia, poi vissuto tra Trieste, Venezia e Parigi dopo la detenzione nel campo di concentramento di Dachau. La tragica esperienza della prigionia e la sua vita sono un Leitmotiv nelle sue opere. Gli scheletrici perseguitati ritratti nella memoria del ritorno. E i cavallini, gli asinelli, le donne con l’ombrellino, gli scorci veneziani poi evocati insieme nella stanza di Zurigo.


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(Gorizia, il castello)


 “La più bella porta aperta sull’Italia” ha detto Max Klinger, scultore e incisore tedesco. Parlava di Gorizia, la “Nizza austriaca” come veniva definita nell’Ottocento per il clima mite, la bellezza dei paesaggi, l’atmosfera tranquilla. Luogo di conflitti e divisioni in certi periodi, testimone del dialogo ormai compiuto tra l’Italia e la Slovenia. La città, luogo di congiunzione tra culture romanze, slave e germaniche, forma un’area urbana integrata con i comuni sloveni di San Pietro-Vertoiba e Nova Gorica che fu parte del comune fino al 1947, quando l’Istria e gran parte della Venezia Giulia vennero cedute alla Jugoslavia con il trattato di Parigi. Un luogo simbolo del secondo dopoguerra è piazza della Transalpina, rinominata nel 2006 piazza dell’Europa dopo l’ingresso nel 2004 della Slovenia nella Ue. Nel dopoguerra  divenne confine diviso, e oggi invece è luogo condiviso, immagine della nuova Europa, dove i visitatori della piazza possono tenere nello stesso istante un piede in Italia e uno in Slovenia. Un confine che non c’è più segnalato, però, da una pavimentazione che indica la vecchia linea di divisione, un altro muro cancellato dalla storia. Le due città, insieme, sono state proclamate capitale europea della cultura per il 2025.


*MARCELLA CIARNELLI (Romana di ritorno, napoletana per sempre. Giornalista per passione sempre all’Unità. Una vita a seguire le istituzioni più alte fino al Quirinale senza perdere la curiosità per ogni altro avvenimento. Tante passioni: il cinema, il teatro, i libri, gli animali, il mare, i viaggi, la cucina, gli umani nelle loro manifestazioni più diverse…e la squadra del Napoli)

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