Quei giorni a Isca, pesca, ragù e chiacchiere nell'isola dei De Filippo

di GIANFELICE IMPARATO* 


La geografia

Sulle carte nautiche è segnalata, non so perché, come “Scoglio d’Isca”, ma non è uno scoglio. È una piccola isola che si trova a poca distanza dalla costa tra Nerano e Positano, ma ricade nel territorio del comune di Massalubrense, ed è conosciuta come l’isola di Eduardo. In barca, una volta doppiata Punta Campanella per entrare dal golfo di Napoli in quello di Salerno, si vedono già gli isolotti de Li Galli che furono proprietà del coreografo Massine e in seguito di Nureyev. Più vicino alla costa c’è Isca, ma se si passa al largo quasi non si distingue dalla costa stessa.

La storia

Isca era di proprietà di un agiato signore di Massalubrense, tale Astarita. Questo signore, in un primo momento riluttante, alla fine si decise ad accettare la proposta del Maestro De Filippo e gli vendette l’isola. Ciò avvenne verso la metà degli anni cinquanta e, si narra, ci fu un avvenimento preciso che fece cambiare idea a Astarita. 

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(Isca dalla Costiera amalfitana)

Lui amava recarsi sull’isola anche d’inverno per andare a caccia di tordi ed altra selvaggina, ma una di quelle volte non riuscì a rientrare perché sorpreso da una burrasca. Il mare flagellò l’isola e la costa per tre o forse più giorni. Astarita rimase bloccato per tutto quel tempo senza poter far nulla se non trovare precario riparo nella parte alta dell’isola, non raggiunta dalla furia delle onde. E fu lo spavento provato, pare, a fargli decidere di vendere.

La telefonata

Seconda metà degli anni Ottanta, estate '87 o, forse, '88. Luca De Filippo, che trascorreva le sue vacanze a Isca, mi chiamò a casa, non c’erano i cellulari e sull’isola non c’era nemmeno la linea telefonica. Luca chiamava dalla sua base logistica sulla costa: il ristorante “Lo scoglio” di Marina del Cantone. Ci conoscevamo da quando entrai nella sua compagnia, che nacque nel 1980 con i primi lavori diretti ancora da Eduardo. C’era da fare uno spettacolo a Positano, una sola serata. Luca aveva pensato ad un atto unico, “Pericolosamente”, una scena di “Uomo e galantuomo” e, a completare la serata, la lettura di alcune poesie di Eduardo. Oltre me furono chiamati anche Vincenzo Salemme e Antonella Cioli, ma lei ci avrebbe raggiunti solo gli ultimi giorni. Un paio di settimane di prove. Avremmo provato sull’isola e io e Vincenzo saremmo stati ospiti di Luca. Tra noi tre c’era, oltre l’affiatamento artistico, anche un rapporto di amicizia e complicità che si era cementato nel corso delle lunghe tournée fatte insieme. Però, mi chiedevo, non è strano che Luca prenda un impegno che gli spezza le vacanze? Mi venne da pensare che forse, ma era un’ipotesi astratta e senza nessun riscontro, il tanto tempo sull’isola da solo con la moglie Paola e i loro piccoli Tommaso e Luisa gli avesse fatto venire la voglia di stare un po’ con i suoi compagni di tournée. Ma veniamo a noi. Io e Vincenzo accettammo di buon grado.

L’incontro

Nerano, Marina del Cantone. Luca ci aspettava lì, nella sua base costiera. Saluti, abbracci. Qualche caffè sotto l’incannucciata che dava frescura al pontile di legno appoggiato sulla scogliera. Presentazioni e un po’ di chiacchiere con l’Anfitrione Peppino e sua madre, la granitica Antonietta, che teneva sotto controllo tutto, forse pure i polpi che si annidavano tra gli scogli sotto il tavolato. Poi Luca, beato e abbronzato, ci fece imbarcare sul “San Luca”, il gozzo che era stato di Eduardo, e mise la prua verso Isca.

L’approdo

Quindici o, forse, venti minuti di splendido mare e arrivammo a Isca. Non c’era un pontile, il mare qualche anno prima l’aveva portato via. Sbarcammo direttamente su di un gradone scavato nella roccia. Due passi, sempre sulla roccia, e poi una scalinata che si inerpicava fino alla grande terrazza, rivolta verso la costa, sulla parte bassa dell’isola. Per me fu una grande emozione. Sulla sinistra la casa che si estendeva sul piccolo promontorio rivolto a Nord-est assecondandone i piccoli dislivelli. Sulla destra la casetta di Eduardo. Sì, Eduardo, anche se sulla sua piccola isola, aveva bisogno di un piccolo spazio solo suo. Anche nel giardino della bella casa di Roma c’era, e credo ci sia ancora, una sua casetta. Forse solo in questi piccoli ed esclusivi spazi riusciva a trovare il raccoglimento e la pace che gli erano necessari. O forse i tanti decenni di camere d’albergo lo facevano sentire a disagio in spazi troppo vasti. O, forse ancora, solo lì gli era più facile dare forma alle sue idee per nuove opere. Chissà. Ad accoglierci sulla grande ed assolata terrazza c’erano Paola con i piccoli Tommaso e Luisa ed Evole, una sorta di anziana governante, alla quale dovrò dedicare un paragrafo a parte.

La casa

Dalla terrazza battuta dal sole entrammo in casa e fummo accolti da una frescura profumata di salmastro. I pavimenti di ceramica della costiera. Da qualche angolo faceva capolino il cotto a cui il tempo aveva tolto lo smalto. Ambienti dagli ampi volumi. Tinte chiare alle pareti. Le persiane di cannuccia e le tende leggere, mosse dolcemente dalla brezza che arrivava da mare, filtravano la luce prepotente che avvolgeva la casa. Arredi essenziali ma di buona fattura. Mobili che avevano resistito ad una mareggiata entrata in casa durante una tempesta. Luca mi raccontò che una volta, arrivato sull’isola in primavera, aveva trovato tutti i mobili della grande sala ammassati sul muro che guardava la costa. La furia delle onde aveva forzato i portelloni delle finestre che affacciavano verso il mare aperto.

luca dal profilo facebookjpg (Luca De Filippo)

La grande cucina con focolare in muratura, anch’esso rivestito con piastrelle vietresi. Al centro un grande tavolo con tante sedie. Maria, una donna robusta dai bei tratti popolani e mediterranei, era già ai fornelli. Ogni giorno arrivava a Isca da Massalubrense con le provviste necessarie e si occupava della cucina. Luca ci accompagnò nella camera che ci aveva assegnato. Una stanza molto ampia con una finestra da cui si vedeva il mare, poi lo scoglio, quello sì, di Vivara, poi Li Galli e poi ancora mare. Mentre si disfacevano i bagagli un po’ di chiacchiere e infine Luca ci istruì sulle regole dell’isola. Uso strettamente essenziale dell’acqua, che non era potabile; la sera stesso uso parco per le luci; attenzione tra la folta vegetazione della parte alta perché potrebbe spuntare qualche vipera… Poi il pranzo era pronto. A tavola.

Il primo giorno

Dopo il pranzo, semplice ma squisito, poche parole sullo spettacolo da preparare e poi un riposino. Al risveglio, dopo il caffè e parecchi minuti di smarrimento per metabolizzare quella atmosfera magica, mi avviai verso la terrazza e trovai Luca intento, con una “cucchiarella”, a rimestare la passata di pomodoro che in un grandissimo piatto si asciugava al sole per diventare ottimo concentrato da usare per il ragù. Poi con gesti da cerimoniale poggiò la cucchiarella, ricoprì il piatto con un grande tulle e ne fermò gli angoli con delle pietre. Ancora qualche ora al sole, dico il piatto, e poi dentro al riparo dall’umidità della sera.

-         Che facciamo, Luca, ci facciamo una prima lettura?

-         No, vabbe’, cominciamo domani. Ora ci dobbiamo preparare.

In effetti di cose da fare ce n’erano, per trovarsi pronti. Bisognava mettere in ordine tutte le lenze ed armarle con le esche artificiali. Portarle giù sul “San Luca” insieme al secchio, qualche bottiglia d’acqua, i cappelli di paglia. Sciogliemmo l’ormeggio e ci dirigemmo verso Amalfi. Perfetto, eravamo pronti. L’ora era giusta. Poteva cominciare la pesca a traina lungo la costa mantenendoci a circa cento metri e con una velocità di tre-quattro nodi. Nei giorni successivi, perché l’attività era quotidiana, avemmo più fortuna, ma quel giorno il bottino fu magro. Solo io riuscii a prendere una piccola ricciola che non superava i tre etti e al ritorno fui scherzosamente immortalato in una foto sulla terrazza con la preda esibita a mo’ di trofeo. Forse dovrei cercarla quella foto, ma dove potrebbe stare? Bah. Anche se piccola, la ricciola, fu prenotata da Evole. Sarebbe stata la sua cena.

Evole

Era stata ballerina, e nonostante gli anni aveva conservato un fisico asciutto ed agile. Verso fine carriera Eduardo la tenne in compagnia come sarta, affidandole piccoli ruoli da attrice. Inoltre, avendo di lei grande fiducia, le affidò anche le chiavi dell’archivio che era custodito in certe stanze sulla soffitta del “San Ferdinando”. A noi ragazzi, dopo pressanti richieste, concedeva di farci entrare per qualche minuto, ma uno alla volta, sotto sua stretta sorveglianza e con l’obbligo di non toccare nulla. 

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Evole col passare degli anni era diventata una sorta di fiduciaria di Eduardo. Aveva le chiavi della casa di Posillipo e quando Eduardo o Luca dovevano venire a Napoli provvedeva ad approntare tutto per il loro soggiorno. E così anche per l’isola. Era molto compresa nel suo ruolo di plenipotenziaria e il fatto che Luca, sebbene col garbo che gli era solito, le avesse fatto accettare che Maria provvedesse a tutto ciò che riguardava le provviste e la cucina, rappresentò per lei una piccola ferita. Ben dissimulando l’irritazione, non mancava di dare consigli culinari e istruzioni a Maria che a sua volta, con bonomia, mostrava di darle ascolto facendo poi comunque a modo suo. Inoltre noi, involontariamente, contribuivamo ad esacerbare lo stato d’animo di Evole facendo sempre complimenti sperticati a Maria per ogni pietanza. Un giorno, quasi pronti per il pranzo, eravamo tutti in cucina. Entra Evole e così, a bruciapelo, si rivolge a Maria.

-         Vuie ‘a sapite fa’ ‘a spaccata?

-         E ched’è?

chiese Maria pensando forse a qualcosa da cucinare. Rispolverando il suo istinto di teatrante, Evole allargò le braccia, una brevissima pausa e in un sol gesto divaricò le gambe fino a toccare col bacino il pavimento. Io Luca e gli altri ci guardammo con stupore, ma dopo un attimo esplodemmo in un fragoroso applauso per Evole. Era giusto. Aveva bisogno di mettere un punto, di stabilire un suo primato ineguagliabile e noi la sostenemmo. Anche Maria sorrideva, ma era chiaro che non capiva il senso di quel gesto e soprattutto non sapeva cosa fosse una spaccata. Da quel giorno nello sguardo di Evole ricomparve la fierezza che negli ultimi tempi s’era un po’ appannata.

Gli altri giorni e le prove

Le prove non occupavano, in verità, molto tempo. D'altronde erano testi che avevamo già fatto e di cui conoscevamo le dinamiche, le intenzioni e i tempi. Si trattava soltanto di far riaffiorare le battute da quella strana memoria di noi attori che, anche dopo anni e senza averci più pensato, riprendendo un testo, ci permette di ricordare quasi tutto. Si comincia e tutte le battute si inanellano magicamente l’una all’altra. Qualche ora per le prove, interrotte più volte da digressioni e aneddoti, e poi le giornate trascorrevano in un clima piuttosto vacanziero. I bagni nelle calette o in mare aperto. Passeggiate sul sentiero sterrato che portava alla parte alta dell’isola, a raccogliere un po’ di frutta o erbe aromatiche. Poi, quando il sole si nascondeva dietro le montagne, si poteva godere della frescura sulla grande terrazza. Prima che facesse buio, però, c’era un ultimo impegno. Si andava con Luca nella parte più alta per accendere il generatore di corrente elettrica. Uno di quelli enormi e rumorosi, alimentato a gasolio. Il rumore, però non raggiungeva la casa se non sotto forma di lontano ronzìo. Per tre o quattro volte i nostri “impegni” si protrassero anche di notte. A tarda sera passava Peppino e con la sua barca, con tutte le attrezzature del caso, si usciva di nuovo in mare per la pesca a totani. Si rientrava quasi all’alba, stanchi ma felici, con i secchi a volte pieni e a volte no.

Lo spettacolo e i saluti

Arrivò il giorno dello spettacolo. Quella mattina niente mare. Preparammo i bagagli. In un borsone i costumi, inventati, e i pochi attrezzi necessari per la messa in scena. Dopo pranzo un breve riposo e poi in barca verso Positano. La scia della barca, lenta e inesorabile, allontanò Isca alle nostre spalle fino a renderla invisibile. Sbarcammo a Positano. Luca aveva bisogno di un po’ di tempo per dare istruzioni ai tecnici. Allestimmo la scena con i pochissimi arredi necessari, tutta roba reperita sul posto. Ancora una prova tecnica. Aspettammo il buio. Pochissimo tempo per puntare le luci e poi il sagrato della chiesa fu aperto al pubblico.

La donna  mobile 1980 Luca Gianfelice e Nicola Di Pintojpeg (1980, La donna è mobile, regia di Eduardo de Filippo.  Da sinistra. Luca De Filippo, Gianfelice Imparato, Nicola Di Pinto)

Lo spettacolo andò benissimo. Poi la cena. E poi i saluti. Ci saremmo visti dopo poco più di un mese per l’inizio della tournée, ma sembrava un addio straziante. Tornammo a Napoli in macchina. Lungo la strada guardavo giù in mare. Sapevo che non era possibile, ma forse, per un attimo e nonostante il buio, avrei potuto intravedere Isca. Un po’ di nostalgia mi accompagnò fino a casa. E una nostalgia più struggente m’è venuta, scrivendo queste pagine, di Luca. Della sua gentilezza, della sua ironia, dei suoi sorrisi.

*GIANFELICE IMPARATO (Nasce a Castellammare di Stabia nel 1956. La sintesi estrema delle sue passioni di una vita sta nella risposta che la figlia Francesca, all’età di sei anni, diede alla maestra che le chiedeva cosa facesse il suo papà: “Mio padre fa il marinaio, il falegname e poi fa anche l’attore”. Scampato al colera del ’73, alla Sars del 2002 e, finora, al Covid 19, è impegnato in campo teatrale, cinematografico e televisivo almeno fino alla prossima epidemia)


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