Procida, quelle fughe da ragazzi e lontana l'ombra del carcere

di MADDALENA TULANTI*

Se chiudo gli occhi e aspetto un po’ sento ancora l’odore forte dell’acqua salmastra mista a umido delle grotte in cui ci inquattavamo per fare l’amore. A Procida c’era l’imbarazzo della scelta: potevi rimanere   a Marina Grande appena scesi dal vaporetto, o a Marina Corricella, oppure andare verso la Chiaiolella, o a Vivara, dovunque ti dirigessi trovavi sempre una grotta. Soprattutto se il tuo ragazzo sembrava non facesse altro nella vita che lo scalatore di rocce e l’esploratore di anfratti. In tempi più tardi questo sarebbe stato un indizio di eccessiva libertà di costumi per un elemento della coppia, ma gli anni Settanta erano gli anni Settanta e il tradimento non era concepito nemmeno come sostantivo.

Si partiva da Napoli la domenica mattina con il treno della Cumana verso Pozzuoli e da lì si prendeva il vaporetto. Due cose erano indispensabili insieme all’asciugamano e (non sempre ) al costume : la marenna (il panino ripieno di quello che tua madre ti aveva preparato, spesso le melanzane sotto olio) e il sacco a pelo, entrambi utili a soddisfare il corpo. Per lo spirito il mare di Procida era più che sufficiente.

Risalgono a galla dolcemente questi ricordi, ora che l’isola “proletaria” viene scelta a rappresentare l’Italia come capitale della cultura 2022. “Proletaria” rispetto alla “borghese” Ischia e “alto borghese” Capri, come le definivamo noi figicciotti, i giovani comunisti dell’epoca.  E preferita proprio per questo, perché non era bianca come la altre due, aveva le case di tutti i colori (la leggenda dice che così i pescatori al ritorno riconoscevano subito la loro), non era leccata e pulita come le altre due e la gente quando arrivavi non solo non ti sorrideva come nelle altre due, ma ti seguiva con lo sguardo cupo fino a che non scomparivi dalla vista. Nei (pochi) bar trovavi solo vino alla mescita e l’unica cosa che potevi comprare era la frutta di stagione. O il pesce, se potevi ovviamente cucinartelo.

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(Corricella        foto di Tina Pane)

Un’ isola “verace”, insomma, urticante come ti aspetti debba essere un luogo tagliato fuori dal resto del mondo per molti mesi all’anno e perché non può essere innocuo il fatto che il più bel palazzo dell’isola è in realtà un carcere.

E lo è stato fino al 1988 quel fantastico edificio a picco sul mare costruito dalla famiglia d’Avalos nel ‘600 e che Ferdinando di Borbone trasformò nel 1830 in bagno penale per criminali comuni e rivoluzionari. In quelle celle, per fare alcuni nomi, ci finì lo scrittore nemico dei Borbone Luigi Settembrini e, per venire a giorni più vicini a noi,  nel dopoguerra, vi furono imprigionati gerarchi fascisti, come Iunio Valerio Borghese; e anche membri della banda di Salvatore Giuliano, il bandito della strage di Portella della Ginestra del Primo maggio del 1947. Non c’era anziano del molo che non ti ricordasse che in quel carcere era stato portato, il 16 giugno del 1946, il maresciallo del fascismo Rodolfo Graziani e che una notte tutta l’isola fu tenuta al buio perché il generale doveva essere operato di appendicite e si temevano attentati. Ora nel palazzo-carcere diventato museo si trovano tutte le tracce di questi passaggi, perfino il tavolaccio dell’operazione a Graziani.

Aspra, povera e bellissima: a noi andava bene così. E andava bene anche che per trovare i frutteti e i vigneti, di cui i procidani sono sempre andati fieri, dovevi inerpicarti su per la collina, fra stradine strette che improvvisamente si aprivano su veri e propri giardini reali.

Certo, in quegli anni  Procida era già “L’isola di Arturo”, avendo Elsa Morante vinto lo Strega con il libro ambientato nei suoi vicoli nel 1957. Lo aveva scritto nel giardino dell’Albergo Eldorado oggi diventato “Parco letterario Elsa Morante” . Lo stesso giardino amato da Alberto Moravia, da Vasco Pratolini.   Ma l’isola era ancora per pochi eccentrici. Bisognava attendere una ventina di anni perché Procida diventasse di moda per attori e registi, uno per tutti Massimo Troisi, con “Il Postino”, anno 1994.

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(Torre Murata       foto di Tina Pane)

Quando è cambiato il vento per l’isola che “non isola”, secondo il bel motto della campagna per capitale della cultura? Piano piano, come sempre accade, ma di sicuro dalla fine degli anni Ottanta, quando palazzo d’Avalos non è stato più un carcere.  Prima è stato dismesso e abbandonato, poi dopo, molto dopo, nel 2013, è stato acquisito dal Comune per diventare il cuore della promozione culturale dell’isola.

Si trova a Torre Murata, il nucleo più antico dell’isola.  Anche lì devono esserci grotte per gli innamorati, ma è l’unico luogo dove il mio scapestrato ragazzo non mi ha mai portato: il carcere faceva paura anche a lui.


*MADDALENA TULANTI (Napoletana, ha fondato nel 2000 e diretto fino al 2015 il Corriere del Mezzogiorno Puglia, dorso locale del Corriere della Sera, dopo essere stata capo redattore e corrispondente da Mosca per L’Unità. Oggi è editorialista di Telebari, la prima tv della città di Bari dove vive quando non si occupa dei suoi ulivi a Ostuni. Laureata in Russo con il massimo dei voti presso l’Orientale di Napoli è appassionata di politica internazionale e di geografia e lettrice avida e curiosa di ogni genere letterario. E’ separata, non ha figli, ha tre gatti e una splendida e geniale nipote)

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