Polenta dolomitica, farina grossa e crauti

SINTESI - Torniamo a parlare di polenta. Stavolta è Nereo Pederzolli che ci porta nelle terre alte del Trentino, dove la polenta è stato per anni l’unico cibo delle popolazioni più povere. Anche qui la sua diffusione, in tempi in cui la povertà era dilagante, ha provocato malattie come la pellagra. Tuttavia si scopre che l’antidoto venne trovato in un altro cibo assai popolare: i crauti. Mai scomparsa dalla tavola, in versione dolomitica la polenta viene proposta con antiche ricette. Ma avanzano nuove proposte, in abbinata con la produzione Doc di bollicine.

di NEREO PEDERZOLLI* 

Dura o molle? Preparata a pranzo o per cena? La polenta di mais è sinonimo di cibo dolomitico. Si differenzia da tutte, le tante altre, per metodo di preparazione, tempi di cottura, paiolo sul fuoco vivo di legni ardenti, per diversi e sfiziosi abbinamenti.

Polenta di e per tutti, in campagna come in città.  Non a caso i trentini, al pari dei popoli della Bassa, sono chiamati polentoni. Orgogliosi di versarla ancora fumante, prevalentemente nella pausa del pranzo.  Dopo la cottura per diverse decine di minuti -  almeno 50!  - di mirate selezioni di mais, per avere una pietanza molto consistente, una sorta di tonda zucca, più alta che bassa. Montagnola o dosso dorato, il profumo che stimola accostamenti.

Come si elabora una vera polenta trentina? Si sceglie farina di mais macinata più grossa del solito, granaglia vistosa, destinata a cuocere prevalentemente in pentole di rame - il tradizionale “paról” - anche se l’immagine della massaia che mescola pazientemente il mais è retaggio del passato, foto ostentata per promozioni agrituristiche.

La farina si deve versare a pioggia quando l’acqua (appena salata) inizia a bollire, oppure anticipando di qualche minuto il bollore? La tradizione è per la prima procedura, mentre la consuetudine torna a dividersi sulla tipologia del mais, legata alle variegate colture delle valli, dove viene garantita l’identità territoriale.



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Si usa, di preferenza, mais di selezioni operate da schiere di contadini, scaturite da scelte rispettate dagli ultimi mugnai ancora in attività.  La varietà più diffusa è il Marani, anche se proposta con indicazioni zonali - come ad esempio la Storo, in valle del Chiese, importante qualificata zona d’elezione - mentre la Valsugana e le zone più montane difendono con fierezza il mais Spin, dal chicco a punta acuminata, appunto spinoso.

Per salvaguardare la biodiversità, gli agricoltori più accorti selezionano meticolosamente la granella da mettere a dimora in specifici terreni, distanti da colture dove il mais transgenico - quello solitamente usato come foraggio per bovini - devasta anche il paesaggio alpino. Tradizione e valori, per tutelare i sapori della vera polenta.

Farina di mais, la polenta come polvere d’oro, non a caso parola scaturita da “puls”, granaglie di cereali macinate e cotte, a base di farro, spelta, orzo e miglio, sfruttati per molti secoli, quando il mais era sconosciuto nel Nuovo Mondo, coltivato nel suo luogo d’origine, in America latina.

Nell’evoluzione di questo vegetale - come raccontato da Alberto Grandi (https://www.foglieviaggi.cloud/blog/polenta-così-il-cibo-dei-poveri-diventò-partner-di-formaggi-e-sa...) -  il Trentino riesce a dimostrare la sua specificità storica.

Nei documenti del Museo degli Usi e costumi della Gente trentina custoditi negli archivi a San Michele all’Adige i riferimenti sono precisi. Il mais è arrivato nelle valli dell’Adige dalle pianure di Venezia nel corso del XVII secolo. Ci sono documenti che attestano la sua presenza sul mercato. Subito messo a dimora, con rese molto consistenti, raccolti copiosi, molto più vantaggiosi del frumento, a partire dal 1750 il mais, macinato per cucinare polenta, diventa la base dell’alimentazione di quasi tutta la popolazione, specialmente tra i residenti nei paesi più sperduti.

Facile da cuocere, il paiolo sull’unica fonte energetica, il fuoco del focolare domestico. Della pianta nulla si sprecava: con le foglie si imbottivano materassi e cuscini, si fabbricavano poi le sedute delle seggiole. La pannocchia, una volta sgranata – “sgraolòt” - era utilizzata come materiale da costruzione delle abitazioni, si facevano pure tappi per le bottiglie. Infine, lo stelo era utilizzato per la lettiera degli animali da stalla.

Nessuno a quei tempi avrebbe immaginato che il mais sarebbe diventata una merce di scambio per la più intrigante quanto eterogenea industria agricola. Perché il mais fornisce materia grezza per nutrire i bovini da latte e da carne e dunque è presente nella carne che noi mangiamo, anche nel latte e in tutta la filiera casearia. È inoltre parte caratterizzante nello zucchero, addirittura nella produzione del biogas, nella fabbricazione di materie plastiche e in tutta una serie d’involucri dell’usa e getta.


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Torniamo alla consuetudine dolomitica.

Il flagello della pellagra anche qui è stato devastante, però in parte mitigato dall’abbinamento con i crauti. Proprio così: grazie alla polenta fumante servita con cavoli fermentati, appunto i crauti. Chiamati così perché il termine deriva dal tedesco “sauerkraut”, letteralmente “erba acida”.

L’acidulo al servizio della nutrizione, per sopperire a drastiche carenze di vitamine, sali minerali, dovute all’abuso nel consumo di mais - sulle tavole dei contadini la polenta era scodellata anche tre volte al giorno, per mancanza di pane, companatico e verdure fresche. Domava la fame, con un senso di sazietà decisamente malato, causa di malattie endemiche, come appunto la pellagra.

I crauti prodotti dalle famiglie contadine meno abbienti hanno fortunatamente giovato nelle abitudini alimentari. Non hanno comunque svuotato le decine di pellagrosari disseminati a suo tempo nelle vallate, ma sono riusciti a rafforzare, rilanciandola, una delle specialità trentine più diffuse della gastronomia popolare abbinate alla cottura del mais.

Nei menù delle osterie polenta, crauti e carni di maiale sono sempre un ‘must’, mentre le scuole di cucina più sopraffine recuperano - rivisitandole - ricette golose, riservate alle occasioni più importanti dell’anno. Ossia polente condite con dosi pantagrueliche di burro, aggiunta di latte, tra salsicce e formaggi d’alpeggio, senza tralasciare i funghi del bosco.

E ancora, altra variante polentosa che sfrutta il giallo del mais solo per una lievissima nota di colore: è la polenta di patate, vanto delle comunità cimbre/mochene, messa nel piatto con immancabile contorno di pancetta, puntine, braciole di porco.

Non mancano altre divagazioni culinarie, con polente a base di grano saraceno - chiamato “formenton” - miscelato con macinature di mais, anche se il piatto più identitario continua a essere comunque quello rafforzato dai crauti.  Ottenuti dalla fermentazione del cavolo cappuccio finemente tagliuzzato, salato e messo a macerare per qualche settimana in fusti di legno o di coccio vetrificato. Dove vari microrganismi presenti sulle foglie dell’ortaggio metabolizzano gli zuccheri, danno il via alla fermentazione spontanea, trasformando il composto e consentendo pure una lunga conservazione. Crauti per sfidare il tempo, superare la stagionalità, acidificare con grazia il pasto, pulire il palato dal grasso in eccesso, esaltando il gusto della polenta stessa.

Tre personalissimi consigli finali: prima di versare nel paiolo la farina sciogliete nell’acqua un cucchiaino di miele (meglio di sulla o millefiori) per fragranze tutte da esplorare.

Tagliate poi la polenta appena adagiata sul tagliere di legno con un filo di cottone sottile, tipo sartoriale. E per gustare la prestanza di un pasto a base di polenta, crauti e maiale… stappate una buona bottiglia di spumante classico. Come i tanti della Trento DOC.

 

 

*NEREO PEDERZOLLI  (nato a Stravino, tra le Dolomiti di Brenta e il Garda trentino, per 36 anni giornalista/inviato speciale RAI in programmi e rubriche agroalimentari, film-maker, da oltre 30 anni degusta vini per la guida del ‘Gambero Rosso’ e ha pubblicato numerosi testi di cultura enogastronomica. E’ editorialista del quotidiano online ‘ilDolomiti.it’)


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