Pionieri a Sofia, il comunismo all'acqua di rose

di FLAVIO FUSI*

Dalla foto, la ragazza mi guarda negli occhi e ha un sorriso che promette troppe cose. Indossa un costumino da coreografia ginnica e porta in mano una rosa, immagino rossa. Lei, e mille altre pioniere, fanno ala all’ingresso delle delegazioni nello stadio Vasil Levski in un tripudio di bandiere. Sofia, anno di grazia 1968, torrido pomeriggio del 6 agosto.

Ho diciotto anni appena compiuti, la patente di giovane comunista e una fame arrabbiata. Non mangio dall’alba, quando il treno ha fischiato alla periferia della città e nei vagoni surriscaldati e puzzolenti ci hanno servito l’ultima colazione: una fetta di pane, un grosso peperone crudo, un barattolo di yogurt e una scatoletta di tonno.

Stazione di partenza, Firenze. Il treno attraversa la Cortina di ferro, fa sosta con stridor di freni in piena campagna e in stazioncine desolate, è festeggiato da piccole folle entusiaste di contadini e operai (il comunismo incarnato), salutato da bande stonate, accolto da ragazze nei costumi tradizionali che offrono pane e sale. Stazione di arrivo: Sofia, capitale della lontana Bulgaria. Qui, nella periferia estrema dell’impero sovietico, il comitato promotore – una specie di Spectre politica – ha deciso di celebrare il Festival mondiale della gioventù comunista.

Di quei giorni assolati non ricordo molto. Una città di ampi giardini, lunghi viali e austeri monumenti. Serena all’apparenza, un po’ noiosa. Così doveva essere ovunque il socialismo realizzato: la quiete, dopo la tempesta della rivoluzione. Poche auto, e le vetrine dei negozi (quattro barattoli di yogurt, due bottiglie di liquore colorato e i soliti giganteschi peperoni) così deserte che stringevano il cuore.

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A Plovdiv ci portarono, in pullman. Plovdiv, capitale delle rose. Mentre il nostro piccolo corteo attraversava le vie della città, mentre una ordinata folla socialista ci abbraccia agitando bandierine tricolori, un piccolo aereo a elica scende in picchiata su di noi e sgancia una nuvola, un fiume, una cascata di acqua di rose.

Quella sera tornammo a Sofia soddisfatti e profumati come vecchi gigolò. Del resto, questo offriva il socialismo dei tardi anni Sessanta. Le matrioske, i negozi Beriozka (la betulla) per turisti politici, la vodka al peperoncino, i mestoli di legno pitturato, le belle scatole laccate, la favola della strega BabaYaga e del pesciolino d’oro. E a Plovdiv, la marmellata di rose, il dentifricio alle rose, la crema di rose, il profumo di rose, l’acqua di rose, l’unguento di rose.

Non lo sapevamo, alcuni facevano finta di non saperlo, ma sotto la superficie, nelle acque profonde dello stagno tiepido e calmo, si muovevano presenze inquietanti e ombre minacciose. Perché, a Sofia, i compagni cecoslovacchi erano le star dello spettacolo? Perché convocavano riunioni che finivano a urla e applausi? Perché il nome di Alexander Dubcek provocava entusiasmi, fischi e risse sanguinose? Perché i grossi compagni del Komsomol apparivano a volte bruschi e allarmati? Perché i compagni bulgari, e anche rumeni, e anche tedeschi, ci davano sotto con le fisarmoniche e le chitarre e “buttavano in caciara” ogni appuntamento politico?

In Cecoslovacchia la primavera di Praga stava maturando in una torbida estate, e la sorte del comunismo dal volto umano era già scritta. Noi eravamo giovani e ignoranti. A naso, stavamo dalla parte dei compagni cecoslovacchi, ci piaceva questo comunismo riformato di cui si parlava, ma del resto ci piaceva tutto quello che sembrava nuovo. E fu solo affetto - umano e politico - quello che ci muoveva, quando avevamo battezzato “comunista dal volto umano” il compagno di gran lunga più brutto della nostra Federazione.

I sovietici se ne infischiavano dei giovani internazionalisti chiamati a Sofia: che fraternizzassero pure con le compagne bulgare! Solo il tempo di fare le valigie, abbracciare le esuberanti compagne, sdraiarci con rassegnazione sui sedili di legno duro della tradotta, e i carri armati con la stella sovietica sferragliarono sbuffando per le vie di Praga. Era il 20 agosto 1968: avevo appena portato a casa i mestoli di legno colorato, i flaconi di acqua di rose, le coccarde e le spille, le magliette con slogan in cirillico: tutta la parafernalia delle fratellanza comunista.

La paccottiglia che tanto ci aveva incantato finì amorevolmente confinata nei cassetti dalla libreria – dove dorme ancora oggi – e in breve Praga diventò la nostra croce. A pensarci dopo – decenni dopo – fu quella la “maledizione” del Festival mondiale della gioventù. Una festa che preparava un lutto, come fu dimostrato con matematica esattezza cinque anni dopo a Berlino Est.

Sono tornato a Sofia trent’anni dopo. Non ero più il pioniere con il fazzoletto rosso al collo e la città non esibiva più le sue medaglie al valor comunista. Al tramonto del secolo, un vento tzigano aveva travolto le impalcature geometriche del socialismo realizzato, e dentro quella nuova capitale che non riconoscevo c’era più verità – e vita – nei brulicanti mercati di quartiere che negli ampi viali e nelle silenziose campate della cattedrale di Aleksandr Nevskij.

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In cerca di storie, andai a trovarle negli ampi spazi della Bojana Film, una specie di gigantesca Cinecittà che sorge in periferia e che per i suoi prezzi stracciati attira come miele le grandi  firme dell’ industria cinematografica occidentale: Hollywood tra il mar Nero e le Porte di ferro del Danubio.

Sul set principale si girava allora un film sulla guerra in Irak.  Nella via polverosa bruciata dal sole e costeggiata da facciate di cartapesta, tra scoppi e raffiche di mitra, una pattuglia di marines respingeva l’attacco delle truppe del califfato. La nostra guida ci portò poi a conoscere il sobborgo di una Los Angeles chandleriana – con i suoi negozi bui, le scale antiincendio, gli androni proletari - dove Brian De Palma aveva  appena finito di girare “La dalia nera”. A poche centinaia di metri tornammo infine indietro nei secoli, visitando - pronto per ogni occasione - un anfiteatro romano con tanto di gradinate, corridoi, arene per i gladiatori e massicce statue imperiali.

Immaginai allora che anche la Sofia della mia gioventù non fosse altro che un gigantesco villaggio Potemkin: uno di quei borghi di cartapesta e compensato fatti costruire dal principe Grigorij Alexandrovic Potemkin per impressionare l’imperatrice e amante Caterina la Grande durante il suo viaggio di ispezione nei territori appena strappati alla Turchia.

Allora – era l’inverno del 1787 - il cocchio imperiale scarrocciava veloce tra le quinte teatrali di un finto villaggio abitato da finti contadini felici. Nello stesso modo - ed era l’agosto del 1968 - noi ragazzi capitalisti eravamo condotti a marciare  sugli ampi viali della città imbandierata e  acclamati da finti pionieri felici.

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Di nuovo in città, eccoci a visitare un piccolo e ordinato “Museo della vita quotidiana comunista.” Nelle sale ritrovai tutti i non-ti-scordar-di-me della mia estrema gioventù: i mestoli di legno colorato, le matrioske, i flaconi di acqua di rose. E poi i portasigarette di latta con la bella faccia dell’ eroe del cosmo Yuri Gagarin, i quaderni di scuola dalla carta grigia e porosa, i blue jeans con la piega sapientemente stirata, le camicie azzurre degli iscritti alla Lega della gioventù popolare, i fermacravatte in oro finto, i borsetti da uomo in pelle sintetica. Al posto d’onore - infine - una sorta di tostapane cilindrico che in ogni appartamento di città e in ogni casupola di campagna  serviva alle casalinghe  per arrostire uno per uno i giganteschi peperoni, base della dieta bulgara.

Altro che villaggio Potemkin! Ogni oggetto raccontava una vita e ogni vita era stata vissuta, il tostapane era pieno di bozzi e annerito dall’uso e in tutte le stanze del piccolo museo aleggiava l’antico, inconfondibile profumo di rose. Così quell’ultimo giorno a Sofia salutai dovunque fosse  l’ antica ragazza in costumino, il suo sorriso e la sua rosa rossa. Come scrive Bertolt Brecht : “Forse i susini fioriscono ancora e quella donna ha forse sette figli, ma quella nuvola fiorì solo un istante e quando riguardai sparì nel vento.”


*FLAVIO FUSI (Ha imparato il mestiere alla vecchia scuola de L’Unità e per la Rai ha consumato le suole dietro ogni crisi internazionale del Secolo breve e oltre. Non ha mai vinto premi giornalistici e non ha mai ricevuto aumenti ad personam. Ha scritto “Cronache infedeli” - Edizioni Voland - e “Campi di fragole per sempre” - Edizioni Effigi -. Medita e scrive in Maremma)

 

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