Piera Degli Esposti, l'attrice geniale che rivoltò il teatro

di TONI JOP*

Non sono un critico teatrale, e quel che è stata Piera merita bene una lettura analitica, storica da parte di ogni bravo e severo critico di questa arte spaventosamente bella che lei ha illuminato per decenni, come prua di una nave scuola eccitante, spesso sovversiva. Ma posso parlare di lei, di quel che a me pare di lei e perfino, violando senza presunzione i confini che mi sono dato, della sua arte. Cominciando dalla fine: ogni tanto le telefonavo - ci sentivamo spesso, abitavamo a un tiro di sasso - fingendo d’essere il segretario del signor Harvey Weinstein. Potentissimo produttore cinematografico mentre, ma lo sapremo dopo, umiliava da immenso farabutto le “sue pollastre”. Le parlavo da immenso farabutto: “Sono colpito da lei, madame, dalla forza del suo stare in scena, vorrei scritturarla per dieci film…”. Per un attimo restava interdetta…esitava…poi esplodeva ridendo “Sei tu…che cretino…”. Non diceva “cretino” quando eravamo seduti accanto, men che meno si concedeva di ridere, le costava troppo, era al di sopra delle possibilità che le consentivano i suoi polmoni. Così, mi colpiva il braccio con la sua mano a pugno, era il segnale che stava ridendo dentro.

Ma era un’attrice di teatro, arte che non “merita” ricchezze e ingaggi da sogno. Benché in molti si possa affermare senza enfasi melò che Piera ha dato alla vita di tutti noi ben più energia e piacere di Ronaldo, per stare nel campo dei confronti impossibili. E sapeva che il soldo doveva venire da dove c’era, dal mondo cinematografico, dalle serie tv. Giocavo sui poli di tensione di questa coscienza: lei, la più strepitosa e innovativa attrice dei palchi italiani e anche europei degli ultimi quarant’anni, si rivolgeva ad un altro mondo dell’arte per proteggere le architetture immaginarie della sua “pensione”, per dire cosa sia oggi il teatro, quanto grande sempre sia, e quanto poco sia stimato dal sistema. Lo si intuisce anche seguendo molti tg che nelle ore trascorse hanno dato notizia della scomparsa di Piera. Certo, tutti positivi, ma sulla base di uno sguardo piatto, incapace di leggere quanto di davvero grande abbia visto la luce nel corso della sua bellissima, durissima vita.



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Piera non era una brava attrice, Piera era un numero unico che ha spostato il fare teatro non solo sui palchi italiani. Piera ha rivoltato come un calzino i fondamenti della recitazione, li ha fatti esplodere al culmine di una rivoluzione decisamente espressionista, sulle ali di Carmelo Bene, sicuro, ma non solo Bene. Parto sempre dalle emozioni: quando comparve sulle nostre scene - noi, ragazzi - Piera sembrava un miracolo venuto dal cielo. La morbida compostezza borghese delle forme veniva fatta a pezzi da una nuova, sorniona spigolosità il cui interprete principale era il corpo, il corpo dell’attore, non quello del personaggio. Anzi, i modi espressivi di Piera raccontavano con grande trasparenza il dominio assoluto dell’attore sul suo personaggio usato come marionetta di quel potere. E anche il testo subiva un colpo: l’attorialità lo rispettava ma ne faceva altra cosa, tendeva allo spasimo accenti e frasi, tanto per far capire alla sceneggiatura che il padrone del campo era lui, o lei, Piera, la padrona del tempo, almeno di quello teatrale. Ed era comunque una operazione sovversiva rispetto ai valori tradizionalmente difesi e venerati nel tempio del teatro, atto di una rivolta tremendamente salita dal basso, dai camerini incipriati, dai sottoscala di scarni a volte umilianti contratti di lavoro. Perfino il ruolo del regista perde terreno in questa nuova organizzazione dove il visibile è sovrano, l’attore è il visibile, a lui il potere, e regista e sceneggiatura stiano al passo.

Piera sboccia aprendo le braccia, ed eccole in scena con una forza sorprendente: le sue braccia disegnano linee, poche curve, molti gomiti, in un tempo preciso. Piera allarga le braccia come si aprono delle ali, e le allontana a volte moltissimo dal corpo e le alza ma non troppo fino a creare una insolita dimensione spaziale, un taglio orizzontale che unisce una mano protesa all’altra. E’ la geometria - totalmente corporea - che entra in scena, una rigida astrazione - a dispetto delle apparenze - che avvolge e fa volare la massa fluida delle parole e dei gesti sul palco. In Piera c’era Jules Feiffer, c’erano le sue danzatrici pensanti, c’era la determinazione fantastica di Meredith Monk, i tempi del Kabuki, per citare riferimenti di allora. Tanta roba, tanto teatro, ma tutto questo sapere non era più forte di lei, anzi erano clave e palle che, da irresistibile giocoliera, faceva volteggiare, con la sua davvero unica verve, con la sua forza, quella di una divina irrispettosa spietata “cialtroneria” ovviamente misurata con il metro dell’ordine costituito. Piera, in scena, creava, non interpretava, e sì, si può dire quasi di qualunque attore, è vero, ma in lei era saltato il contratto che tiene l’attore al guinzaglio di una sceneggiatura o di una regìa, era lei la terza via e lo stava dimostrando coi fatti.


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Quando, per la regia di Ida Bassignano, nel 1979, presentò “Molly cara” di Joyce, Piera era al colmo del suo “potere” e della sua vitalità: in quelle sequenze si muoveva un intrico di sensi e di segni enorme e tuttavia ciò che scosse, ciò che rubò la scena alla scena, fu la vividezza del suo vivere quasi per “dispetto”. Lì in teatro si vedeva, si capiva bene: era quel “dispetto” molto politico, vera insurrezione attoriale, anche femminista, - quanto si divertiva ad interpretare ruoli maschili - da compagna, l’onda più profonda della sua arte. Ecco perché ogni volta che torno su quei frammenti mi viene da piangere e ridere, contemporaneamente. Mi son chiesto a più riprese come riuscisse a imporsi, e con quella potenza di fuoco, senza violare la sostanza di testi e regìe. Ho provato a rispondermi così: capiva moltissimo delle cose e delle persone, con una rapidità e con un coefficiente di penetrazione, negli altri come nelle situazioni, eccezionali. C’era qualcosa di geniale alla base di quella eccezionalità. Era un cuore vecchissimo e saggio nel corpo e soprattutto nel cervello vitale di una bambina fissato in quel punto della storia umana in cui l’impertinenza è l’essenza della stessa vita.

Era come i Beatles che hanno cambiato la storia della musica partendo da banali giri di rock ma con qualcosa in più, che erano loro, per cui uno standard eseguito dai Beatles aveva tutt’altro sapore, sembrava nuovo, fenomeno apparentemente inspiegabile. Voglio dire che se Piera è stata la più grande, la più importante attrice teatrale del nostro Dopoguerra, è avvenuto solo in virtù del fatto che è stata una delle migliori menti di questo Paese. Con Scola, Risi, Pasolini, Maraini, Berlinguer, Zavattini, Strehler, Calvino, Tina Anselmi, per ricordarne alcuni. Piera è stata una grande donna della sinistra, e cioè si è mossa sulla barricata in cui militavano i testimoni che ho citato, ma ovviamente nei tg questo non si dice mentre si imbastiscono coccodrilli bolliti. Fra poco bolleranno la parola “sinistra”, così non se ne parlerà più. Piera se n’è andata proprio mentre mi pareva di avercela fatta: mi aveva promesso una pentola di polpette, le aspettavo da decenni, io, il suo Harvey Weinstein. (Un grandissimo abbraccio, grandissimo a Nicola Conticello, caro fraterno amico che ha seguito con amore fino in fondo la storia di Piera. Il dolore lo strazierà, almeno sappia che lo sappiamo e gli siamo davvero vicini).


*TONI JOP (nasce a Venezia nel 1951. Inizia a lavorare per l’Unità verso la metà degli anni '70 interrompendo gli studi di Medicina. Dirige l’inserto locale prima di trasferirsi a Roma e di fare l’inviato, poi caporedattore di notte, capo degli Interni, capo degli Spettacoli. Corsivista e opinionista. Collabora con Panorama diretto da Carlo Rognoni. E’ tra le firme del sito “strisciarossa.it”. Autore di testi teatrali e di trasmissioni radiofoniche nazionali. Docente presso i master in giornalismo dell’Università di Tor Vergata. Autore dei libri “Grillo in parole povere” e "Venezia siamo stati noi", Città del Sole Edizioni)

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