Petroglifi del Tajikistan, sognando Alessandro e Marco Polo

immagini e testo di ANNAMARIA PASSARO*

E’ stato il nostro viaggio più bello e faticoso negli Stan. In un paesaggio straordinario, abbiamo ripercorso quasi con devozione alcuni dei luoghi che in passato avevano visto l’avanzata di Alessandro Magno e il transito di altri personaggi famosi. Indimenticabili i reperti che si possono ammirare nei ben curati musei della Sogdiana (la regione intorno a Samarkand, la Marakanda delle cronache alessandrine, a cavallo tra l’Uzbekistan e il Tajikistan) e della Bactriana (la regione intorno Balkh, l’antica Bactra, a cavallo tra gli attuali Afghanistan, Tajikistan e Uzbekistan). Sculture, vasi e altri manufatti d’ogni tipo, con influenze egizie, greco-ellenistiche, babilonesi, persiane e indiane, a testimonianza delle molte civiltà che si sono succedute o che si sono sovrapposte nel tempo, andando poi a plasmare una cultura sincretica unica nel suo genere, nel periodo del successivo impero Kushan (I-III secolo d.C.): un fenomeno nel quale non è forse eccessivo individuare i germi di una sorta di globalizzazione culturale e artistica ante litteram.

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Un libro straordinario che mi ha attirato verso quei luoghi è ”Il Grande Gioco”, di Peter Hopkirk. Narrando il “gioco delle spie” tra i due grandi Imperi, quello Russo e quello Inglese, per appropriarsi dei territori del Centrasia, descrive le popolazioni, i territori e le usanze di quella parte di mondo a partire dal 1600. Una menzione speciale va poi alla guida “Tajikistan and the High Pamirs” di Robert Middleton edita da Odyssey, una consistente parte della quale ricostruisce in decine e decine di pagine la storia dell’esplorazione della regione proprio nell’ambito della fase finale del Grande Gioco, verso la fine del XIX secolo. Territori del tutto inesplorati fino ad allora, nei quali poteva accadere che, raggiunti faticosamente gli oltre 4000 metri di quota di un passo alpino quasi invalicabile, i russi non trovassero l’India britannica come da loro aspettative (o i britannici un altopiano controllato dai russi), bensì una valle sconosciuta, delimitata sull’altro versante da un’altra catena montuosa sconosciuta, etc.

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(Fiume Penj e Afghanistan)

A volte capitava persino che un drappello di militari/esploratori britannici, in una di queste valli, si imbattesse per caso nel campo tendato di un drappello di militari/esploratori russi, con i quali – pur guardandosi in cagnesco – si scambiavano inviti a cena (cene molto spartane quelle britanniche, molto sontuose quelle russe, a base di cibi, vini e liquori prelibati), nella speranza per gli uni di riuscire a carpire le intenzioni degli altri. Oggi, ai tempi di Google Maps e Google Earth che ci consentono di esplorare ogni metro quadrato di quei territori standocene tranquillamente in poltrona, ci sembra incredibile che questi improbabili incontri possano essersi verificati solo un secolo e mezzo fa, talora dopo settimane o mesi di viaggio a piedi o (quando possibile) a cavallo, tra mille disagi e affrontando rischi imprevedibili (ma – per i russi – senza per questo rinunciare a una cantina ben fornita di bottiglie di champagne francese o di vodka della migliore qualità).

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(La veduta dal sito di Langar)

 Ci sarebbe molto da dire e raccontare del Tagjikistan, ma mi limiterò ad uno dei luoghi che rappresentano la sintesi e la testimonianza delle culture che sono passate di lì. Un concentrato di migliaia di anni raccontato su decine e decine di lastroni di roccia nel sito di Langar, alle falde del picco Engels (6507 mt), lungo le rive del fiume Panj, che in quel tratto costeggia l’Afghanistan. E’ il secondo sito di petroglifi più importante al mondo.

Una sterminata “storia a fumetti” incisa nella roccia. Circa 6000 intagli raccontano la vita degli abitanti della zona e dei carovanieri di passaggio. Quelle più antiche risalgono all’Età del Bronzo, dal 3000 a.C. circa, mentre le più recenti sono medioevali, se non addirittura contemporanee. Purtroppo alcune irrimediabilmente rovinate da sfregi di innamorati e altri, mi trovo a constatare mentre osservo un graffito che raffigura un bimbo intento a guardare quello che assomiglia in tutto e per tutto a un apparecchio TV.

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(La lastra che "racconta" Langar)

Forse tra 300 anni la televisione verrà annoverata tra gli strumenti “primitivi”, ma adesso sono costernata nel vedere reperti antichissimi sfregiati da nomi e dediche. Questo avviene nonostante ci sia una grande lapide che celebra l’importanza del posto. Lo sfregio della storia e della bellezza sembra diventare un “must” per affermare di esistere. Ebbene sì, ero e sono molto arrabbiata per quello che mi hanno “rubato”.

Con una faticosa arrampicata di mezz’ora sul costone della montagna raggiungiamo il sito, all’ingresso del quale c’è la lapide di cui parlavo.

Fino a pochi decenni or sono Langar era un importante snodo del traffico carovaniero tra Centrasia, India e Cina, dove i viaggiatori probabilmente non mancavano di lasciare un segno del loro passaggio. Il pensiero non può che andare a Marco Polo. Purtroppo il racconto dell’itinerario da lui seguito in questa parte del mondo è uno dei più confusi e contradditori del Milione, ma io sono “sicura” che lui o qualcuno della sua famiglia sia passato di lì, come sono “sicura” che ci sia passato anche Alessandro Magno con le sue armate – considerando pure il fatto che fu proprio Alessandro a nominare satrapo di quella regione montana il suocero Oxyartes, padre della bellissima Roxana, madre dell’unico, sfortunato figlio del Conquistatore. 

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(Sognando i fratelli Polo)

Le più antiche iscrizioni di Langar mostrano scene di caccia all’ibice (Capra sibirica), dalle imponenti corna ricurve, utilizzando come arma l’arco composito tipico dei popoli delle steppe. In uno dei disegni, i cacciatori sembrano avvalersi della collaborazione di un quadrupede, che interpreto come un cane: difficile che possa trattarsi di un leopardo delle nevi addomesticato. Non può mancare una grande quantità di svastiche (nulla a che vedere con il Terzo Reich: si tratta di un antico simbolo magico-religioso di cui si trova traccia addirittura in alcuni siti paleolitici, poi diffusosi in tutto il continente eurasiatico, e associato in particolar modo – ma non solo – alle culture dei popoli indo-europei). Mi colpisce una data (1265) incisa nella pietra: forse una testimonianza lasciata durante il loro primo viaggio in Cina dai fratelli Polo, il padre e lo zio di Marco? 

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(Scene di caccia)

Alcune incisioni raffigurano gli “stupa”, caratteristiche costruzioni buddiste che servivano per conservare le reliquie. Altre rappresentano strani animali dalla coda rotonda e costellata di puntini; che mi fanno pensare alle pecore dalle “terga grasse” che si incontrano ovunque nella regione.  Un simbolo ricorda una ruota, ma non sono sicura del suo significato. Non credo si tratti di una delle ruote a raggi di cui erano dotati i cocchi da guerra inventati dai popoli delle steppe, e poi esportati in tutta l’Eurasia, dalla Cina al Medio Oriente all’Europa: non riesco a immaginare che utilità potesse avere un carro da guerra in una valle dai fianchi scoscesi e dal fondovalle acquitrinoso, nel quale si dispiegano i primi meandri di uno dei fiumi più importanti del Centrasia, prima di incunearsi tra gole rocciose, per lunghi tratti impraticabili anche a piedi.

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(Stupa e svastiche)

Cercando la guest house dove trascorreremo la notte, incrociamo due ragazzini biondo-castani con gli occhi grigio-azzurri. Ci chiediamo da quale parte della Scandinavia essi provengano, e come mai siano stati portati in vacanza proprio lì, ma subito comprendiamo che si tratta in realtà di giovani residenti locali. Essi testimoniano la persistenza nella zona del DNA di antiche popolazioni indo-europee, probabilmente provenienti dalle steppe eurasiatiche nord-occidentali, e giunte fin lì chissà come in epoche remotissime, almeno uno-due millenni prima dell’arrivo delle armate macedoni. A queste ultime era stata originariamente (ed erroneamente) attribuita la loro ascendenza, grazie anche alle leggende locali tramandate per generazioni – molte popolazioni centrasiatiche si fanno vanto (senza alcun fondamento storico, linguistico o genetico) di discendere dalla nobiltà macedone al seguito di Alessandro, considerato localmente più come un prestigioso eroe nazionale mandato dal cielo, che come un invasore venuto da lontano.

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(Cammelli)

L’indomani, lasciando questo remoto crocevia di popoli e di civiltà, scorgeremo in lontananza una piccola carovana di cammelli (veri cammelli con due gobbe, quelli della della Bactriana) proprio nel punto in cui i fiumi Wakhan e Pamir confluiscono per formare il Panj. Probabilmente una carovana di mercanti provenienti dal passo Broghil, che mette in comunicazione il bacino dei grandi fiumi centrasiatici con quello dell’Indo. Una scena senza tempo, destinata a ripetersi uguale a sé stessa chissà per quanti anni ancora, e della quale mai avremmo immaginato di poter essere testimoni, all’alba del terzo millennio.

*ANNAMARIA PASSARO (nata a Milano nel 1955 da famiglia napoletana. Laureata in Filosofia, illustratrice. "Onirico ironica" è la definizione che amo e che mi diede l' amatissimo agente Marcelo Ravoni (Quipos) ) 


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