Peter e la sbarra di Berlino
di GOFFREDO LOCATELLI*
(rielaborazione di un reportage pubblicato nel marzo del 1967 su La Nuova Voce)
L'aereo della British European Airways atterra in perfetto orario all'aeroporto Tempelhof di Berlino ovest. Pioviggina. L'aria è fredda, mi aggiusto sciarpa e cappotto e sono già in strada. M'infilo in un taxi e chiedo dì essere portato al confine con la parte orientale della città.
Attraversando
le strade, Berlino mi appare grigia sotto la pioggia che viene giù a tratti. Mi
passano davanti i grandi palazzoni di inizio secolo. Corriamo per un quarto
d'ora. Poi il tassista dice: "Bitte schoen, die Grenze ist da!". Pago
quattro marchi e mi ritrovo in una strada che, a prima vista, non è affatto
bella: la Friedrichstrasse. Ma più giù scorgo la bandiera americana e un grande
cartello "Allied Check
Point Charlie". Un altro, scritto in quattro lingue, mi
avverte che sto per lasciare il settore americano di Berlino. Vado oltre,
l'arteria è sbarrata: è il confine con Berlino Est.
Due guardie comuniste mi indicano l'ufficio controllo passaporti. Le osservo. Hanno in testa un colbacco impellicciato sul quale spicca il simbolo della Deutsche Demokratische Republik. Nell'ufficio c'è altra gente che aspetta di ricevere il visto d'ingresso. Una soldatessa bionda mi controlla il passaporto. Mi fa riempire un modulo sul quale scrivo nome, cognome, nazionalità e quanta valuta occidentale porto con me. Mi è fatto obbligo di cambiare cinque marchi occidentali in cinque orientali, alla pari. C'è un secondo sbarramento dopo l'ufficio, mi ricontrollano il passaporto, e via col vento. Sono a Berlino Est, capitale della DDR, il primo paese a regime comunista in cui metto piede. Provo una strana attrazione nel trovarmi alle nove di sera da quest'altra parte del muro, e non m'accorgo che ha preso a piovere e sono senza ombrello.
Vado
avanti rasentando i palazzi, in questo tratto in penombra non c'è anima viva.
Poi sbuco in una piazza e leggo il nome: «Thälmannplatz». La voglia di scoprire
mi spinge ad andare verso le luci della strada in fondo, e all'improvviso mi
appare tutto diverso. Più illuminazione, più gente, più movimento. Dei ragazzi
mi passano davanti parlando ad alta voce, ne approfitto per chiedere dove trovo
un albergo. I ragazzi ridono, mi dicono di seguirli e mi ritrovo in una
stazione della metropolitana. La corsa costa pochi spiccioli, 20 pfennig. Le
vetture della U-Bahn sono piene di gente che ritorna dal lavoro. Ridono,
parlano ed io cerco di capire che aria tira in questo freddo marzo del 1967.
Attacco briga con chi mi sta di fronte. «Come si vive nella DDR?», gli dico in
tedesco, «Ganz gut! » mi risponde. Mi chiede di dove sono.
«Ah,
Neapel, wunderbare Stadt!» E comincia a parlarmi del film Le mani sulla città, che ha visto di
recente. Sono arrivato alla Ostbahnof. Esco dalla stazione e al primo passante
chiedo nuovamente di un albergo. È un giovane con una borsa in mano. Gli dico
che sono italiano. Lui mi osserva e per tutta risposta m'invita ad andare a
casa sua. «Quanto costa?» chiedo sorpreso. Il giovane mi guarda e fa:
«Nichts!». Non mi conosce e m'invita. Esito, ci penso e accetto. Lo seguo. Il
suo appartamento è all'angolo della Mulenstrasse, a pochi metri dal
"muro". Leggo alla porta il nome, Peter Heuer.
Questo Peter è un impiegato postale addetto alle teletrasmissioni. Ha moglie, Gisela, e due bambini, Simone e Andreas. Scocca tra noi la scintilla della simpatia. Parliamo quasi tutta la notte. È un'occasione per conoscere la vita di Berlino est. Peter ha 27 anni, guadagna 650 marchi al mese ed è un comunista convinto. Mi guardo intorno, l'abitazione è accogliente, pulita, con il pavimento di legno e mobili senza pretese.
***
Rimarrò
ospite di Peter Heuer per tutto il tempo del mio soggiorno e con lui,
l'indomani, inizio la visita della città partendo da Alexanderplatz, il cuore
dì Berlino est. Palazzi nuovi, la Casa dei Congressi elegante e moderna, i
grandi magazzini. M'interessano i prezzi, mi appiccico alle vetrine. Un
televisore costa 1500-2000 marchi (200-300mila lire). Peter mi dice che sono
generi ancora cari. "Ma molte cose da noi costano meno che nella Repubblica
Federale", aggiunge. È vero. A Berlino ovest il biglietto del tram costa
80 pfennig (120 lire), qui ne costa 20. All'ovest un chilo di pane 150 pfennig;
all'est 95 pfennig. Noto la differenza anche nei locali pubblici. Un pranzo con
zuppa di gulasch e birra 3 marchi (150 lire), l'ingresso in un modernissimo
cinema 1,5 marchi. In occidente, tre volte di più. Ma per una Trabant, l'unica
automobile prodotta qui, bisogna attendere più di un anno dalla prenotazione.
Perché così tanto? Peter mi dà la sua versione: "Tutto ciò che è genere di
prima necessità da noi costa poco: io pago per esempio 65 marchi mensili
(10.000 lire) per il fitto della mia abitazione di tre stanze e
accessori". (Per un'abitazione di 3 stanze all'ovest ci vogliono quattro
volte di più. Ma elettrodomestici, auto e televisori sono assai cari. Nella
Germania Est non esiste concorrenza; negozi e supermarket sono a gestione
statale).
* * **
La sera del mio secondo giorno Peter è andato a lavorare. Io invece ho voglia di uscire per conoscere gente. Con gran semplicità, Peter mi da le chiavi del suo appartamento: "Ritorna quando vuoi". Che sorpresa! Dopo due giorni di conoscenza mi dà le chiavi della sua casa, lasciandomi solo con una giovane moglie e due bambini. Incredibile.
La Karl-Marx-Allee è una immensa arteria. Qui tutto è stato ricostruito, vivace. La modernità delle costruzioni è il simbolo di una nuova città. Entro nel Moskau Restaurant, che non ha niente da invidiare ai locali di Berlino ovest. Ma non ha senso fare paragoni. La parte occidentale ha un volto e una vita completamente diversi. Di là c'è la società del benessere con i locali notturni, i supermarket strapieni, e di qua la società socialista che tenta di raggiungere il tenore di vita dell'ovest. Messe a confronto, è evidente che nella parte occidentale ci sono più auto in giro, negozi più ricchi e gente più elegante. Ma il discorso comporta anche altre spiegazioni. Nella stazione di Alexanderplatz incontro Gavino, un ragazzo sardo che ha in tasca l'Unità. Ci sediamo a parlare nel Caffè-ristorante Bukarest, un locale dove si gustano ottimi piatti e il servizio è di prim'ordine.
"Che
ci fai a Berlino est?".
"Ci
vengo da quando hanno costruito il muro perché qui ho la fidanzata, lavora in
un ospedale. Ma io vivo da sei anni a Berlino ovest e credo che presto tornerò
in Italia. Sono venuto in Germania a 18 anni dalla provincia di Sassari. Però
se torno dovrò fare il militare".
Gavino
mi racconta che fa il muratore: "Ma a Berlino ovest non c'è più il lavoro
di una volta. Molti compaesani sono rimasti disoccupati e anch'io forse perderò
il lavoro. C'è crisi. Di qua invece pare che comincino a fare le cose in
grande. Anno dopo anno le cose vanno meglio. I primi anni che venivo a Berlino
Est vedevo circolare solo qualche auto e nei magazzini c'era poca roba. Adesso
è diverso. C'è da fare per tutti. Gli stessi giornali occidentali hanno scritto
del miracolo economico della DDR, che è al quinto posto per produzione
industriale in Europa dopo l'URSS, la Repubblica Federale, l'Inghilterra e la
Francia".
* * *
In
un locale della Karl-Marx-Allee attacco a parlare con dei giovani. Sono
studenti. Anche a loro chiedo come si vive all'est. Mi spiegano che qui la
scuola è tra le istituzioni più avanzate. Obbligatoria e gratuita per tutti,
permette di raggiungere l'università solo a chi ha voglia di studiare. Gli
studenti ricevono uno stipendio proporzionato alle condizioni familiari. Molti
giovani vengono qui dai nuovi stati africani e dell'Asia. André Kahane, figlio
di un giornalista, mi parla di politica. Dice che i giovani sono molto
interessati ai problemi del mondo d'oggi: ballano, sentono la musica dei
Beatles, ma parlano anche dell'assurda guerra che da anni distrugge il popolo
vietnamita. Di domenica, con André, vado a vedere una manifestazione contro la
guerra nel Vietnam: decine di migliaia di persone, con bandiere e cartelli,
sfilano per ore, mentre gli altoparlanti ricordano ciò che sta avvenendo nel
paese asiatico.
* * *
Ma il «muro»? Che significa per un berlinese dell'est la costruzione del «muro»? Le cartoline illustrate di Berlino ovest lo mostrano come una frattura tra demoni e angeli, terrore e libertà. Peter Heuer e sua moglie non lo chiamano muro ma "confine di Stato": «La nostra repubblica è uno stato sovrano, e come tale ha costruito il suo confine».
André Kahane mi spiega: «Dalla costruzione del confine, cioè dal 1961 ad oggi, il tenore di vita da noi è notevolmente aumentato. Si vive meglio e la nostra ricchezza rimane nel nostro stato. Si è calcolato che merce per miliardi di marchi è andata via prima del 1961. Faceva comodo venire qua con i marchi occidentali e svuotare, grazie al cambio favorevole, i nostri negozi. Ufficialmente, un marco occidentale equivale fino a otto marchi orientali. Grazie a questo sistema, un berlinese dell'ovest poteva venire qui e comprare tutto a poco prezzo. Oggi non è più possibile. Oggi un marco ovest è uguale a un marco dell'est, senza privilegi».
«Ma perché c'è gente che scappa dall'altra parte?» chiedo a muso duro.
"In
un regime socialista come il nostro, dove le difficoltà non sono state ancora
superate, ci sono certamente gli scontenti, quelli attratti dal miraggio
dell'ovest che preferiscono la società capitalistica alla nostra. Questi
scappano dall'altra parte".
Ma
ti sembra giusto che un berlinese dell'ovest non possa venire da questa parte?
"La
DDR è una realtà scaturita dalla seconda guerra mondiale. Volerla ignorare
significa non aver compreso gli insegnamenti della storia. Per la Germania
Federale noi non esistiamo, questo è il punto. I tedeschi occidentali vogliono
venire da noi ma il loro governo non riconosce il nostro stato. Non si può
andare a casa di un altro e dire io non ti riconosco come padrone di
casa".
***
La
politica ha diviso Berlino. Ma il senso, assurdo, del «muro› affonda le radici
nella storia tedesca. Per due volte la Germania ha tentato di mutare i propri
confini scatenando due guerre mondiali, e per due volte si è ritrovata più
piccola e divisa. Oggi esistono due stati tedeschi e ognuno ha fatto la sua
scelta. Da una parte c'è la NATO, dall'altra il Patto di Varsavia. Da una parte
gli americani, dall'altra i russi. Ma qualcosa, prima o poi, dovrà cambiare. A
che serve fare di questa città il punto di scontro tra due mondi e due
sistemi?
***
E' ormai tempo di tornare. Quattro giorni sono volati via a Berlino est. Peter Heuer mi accompagna al punto di transito. Solo adesso sento di dover lasciare un amico che pochi giorni prima non conoscevo. «Ci rivedremo?» mi chiede Peter. «Lo spero» gli rispondo. Al Gasthaus prima del confine beviamo l'ultima birra insieme. Ma, ecco l'imprevisto...
C'è
molta stupida burocrazia nella Germania comunista. Me ne accorgo quando,
all'ultimo giorno, scopro di essere un "clandestino". Distratto da
altre curiosità, non avevo letto fino in fondo l'Einreisevisum, il permesso d'ingresso. Così
ho messo nei guai anche Peter: avrebbe dovuto denunciare alla polizia la presenza
di uno straniero in casa sua. Sentite com'è andata. Al quarto giorno, al punto
di transito della Friedrichstrasse l'ufficiale della Nationalvolksarmee mi
controlla permesso e passaporto e grida: "Verdammt! Sie sind vier Tage
lang illegal in der DDR geblieben!" (Maledizione!
Lei è rimasto illegalmente quattro giorni nella DDR). Gli rispondo
che si tratta di una semplice distrazione, non avevo letto che il permesso era
valido 24 ore. L'ufficiale mi ascolta con perfetta indifferenza e sbotta:
"Nein! Dies liegt nicht mehr in meiner Verantwortung". (No, la cosa non è più di mia
competenza). Ciò detto, mi impedisce di uscire da Berlino est. Io e
Peter veniamo spediti di corsa al Polizeipraesidium
(la Questura). L'Italia non ha una rappresentanza diplomatica nella DDR, e io
non posso protestare, devo solo ubbidire.
Al Polizeipraesidium il
povero Peter parla per me con un altro cerbero della Volkspolizei.
"Compagno ufficiale, permettete che vi spieghi...". L'ufficiale, con
una spocchia autoritaria, riguarda i documenti, telefona, ritelefona e,
considerato il mio aspetto bonario, conclude: il caso non riguarda il suo
ufficio. Ciò detto mi rispedisce al posto di confine. E così mi ritrovo davanti
a quell'antipatica figura dell'ufficiale di prima, che mi squadra a fondo e
vuol sapere tutto: dove sono stato, cosa ho fatto, con chi ho parlato per
quattro giorni nella DDR senza autorizzazione. Accanto a me, Peter è
ammutolito. Neppure la sua dichiarata militanza di partito serve a risolvere il
problema. E io intanto cerco di far capire in tutti i modi che non sono un
sobillatore anticomunista. Niente da fare, non ci sono santi. A questo punto
metto mano al portafoglio dove, per mia fortuna, conservavo un vecchio
tesserino di corrispondente locale del giornale l'Unità. Gesù! È come se a un cieco fosse
tornata improvvisamente la vista: l'ufficiale osserva il tesserino su cui
spicca la scritta in oro "Organo del Partito Comunista Italiano". E
fa: "Bist du ein Genosse?" (Sei
un compagno?). Peter dice subito: "Ja, ja!" Il Compagno Ufficiale
stavolta cambia tono. Ora è gentile e sorride. Facendo uno strappo al
regolamento, si decide ad aprire lo sbarramento per farmi uscire dalla DDR.
Ho rivisto Peter dopo 22 anni, con la caduta del muro di Berlino
*GOFFREDO LOCATELLI (Giornalista e scrittore, è nato a Sarno dove suo nonno, ufficiale dei carabinieri, arrivò da Bergamo. Iniziò la carriera al quotidiano Paese Sera ed ebbe per direttore Arrigo Benedetti. Ha scritto anche per l'Unità, la Domenica del Corriere, il Mondo, il Globo, l’Espresso, Panorama, la Repubblica, il Mattino e, come inviato speciale, per i giornali del gruppo Class - Milano Finanza. Per i suoi articoli sul terremoto in Irpinia del 1980 fu insignito della Medaglia al Valor Civile. Dalle cronache di inviato nelle zone devastate dal sisma nacque il suo primo bestseller Irpiniagate- Ciriaco De Mita da Nusco a Palazzo Chigi (Newton Compton, 1989)
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