Patagonia, lo spettro letterario e la voce dei nativi

di MARCO PATUCCHI*

«Ci sono paesaggi, come certi istanti della vita, che non si possono cancellare mai dalla mente. Tornano sempre ad attraversarci dal di dentro, con intensità ogni volta più forte. E volgere l’ultimo sguardo al mare fu uno di questi: avevamo voltato la testa per non perdere l’estrema visione di quella speranza e addentrarci definitivamente nella terra dell’oblio». Nessuno come lo scrittore cileno Francisco Coloane ha tratteggiato la vera anima della Patagonia. 

 Lui, a differenza di Bruce Chatwin o Paul Theroux, “maestri” della letteratura di viaggio, la “terra dell’oblio” non l’ha solo attraversata in una stagione dell’esistenza, ma l’ha vissuta in quasi tutti i giorni dei suoi oltre novant’anni per poi raccontarla nelle pagine dei libri. Pastore e caposquadra nelle haciendas, tra i ricercatori di petrolio nello stretto di Magellano, cacciatore di foche e marinaio di una baleniera. Comunque un ospite di quella terra che oggi chiede urlando di riemergere dall’oblio. La voce è dei Mapuche (letteralmente il “popolo della terra”), ultima enclave delle genti native che abitavano la Patagonia prima delle nascita degli Stati nazionali, e che combattono da anni una battaglia per il diritto ancestrale su quel territorio.

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 Un fronte invisibile li contrappone al gruppo Benetton, la multinazionale della famiglia italiana un tempo grande innovatrice nel settore tessile e dell’abbigliamento e ormai trasformatasi in un conglomerato trasversale con interessi nella finanza e nelle infrastrutture. Dal 1991 il gruppo è proprietario di oltre 900mila ettari di territorio patagonico, dove alleva 260mila capi di pecore e montoni che producono circa 1,3 milioni di chili di lana ogni anno, 16mila bovini, e guarda con attenzione al possibile sfruttamento di giacimenti minerari. I Benetton non sono i soli imprenditori esteri in Patagonia, ma numeri alla mano quelli in testa alla graduatoria degli ettari di terre controllate e, insieme ad altre aziende italiane con estencias molto più piccole, fanno del nostro Paese il principale latifondista in Argentina, seguito a debita distanza da Malesia, Cile, Germania, Australia, Svizzera, Regno Unito, Belgio e Olanda. 

 Un melting pot che ricalca l’incredibile storia della Patagonia, oggi meno di 3 abitanti per chilometro quadrato, il non-luogo amato dal grande scrittore e naturalista inglese W.H.Hudson: «Non c’è nulla in Patagonia – sosteneva Jorge Luis Borges - ecco perché piaceva a Hudson. Vi sarete accorti che nei suoi libri non compare una sola persona». Alla fine degli anni Ottanta, Chatwin scriveva: «In Patagonia, nell’arco di una qualsiasi giornata, il viaggiatore può aspettarsi di incontrare un gallese, un gentiluomo di campagna inglese, un figlio dei fiori di San Francisco, un nazionalista montenegrino, un africander, un missionario persiano della religione Bahai, o l’arcidiacono anglicano di Buenos Aires nel suo giro di battesimi». E alla lista vanno aggiunti i fantasmi del passato come, per dire, Butch Cassidy, il fuorilegge più ricercato degli Stati Uniti di inizio Novecento, che a Cholila fu proprietario di una fattoria, 300 bovini, 1500 pecore e 28 cavalli. O i criminali nazisti fuggiti e eclissatisi in Patagonia.

 Molto è cambiato, però, dalla romantica narrazione di Hudson, Borges e Chatwin. Un po’ per il tentacolare sviluppo del turismo internazionale, molto per gli appetiti economici. Una storia più recente che ha sradicato le le popolazioni indigene, proseguendo lungo la sottile linea rossa che iniziò a srotolarsi all’epoca dei conquistadores. Nel 1570 il governatore del Cile don Garcìa Hurtado de Mendoza si rese conto definitivamente, a malincuore, che le voci sui grandi giacimenti d’oro e d’argento a sud di La Frontera, dove i Mapuche, i Pehuenche e i Tehuelche avevano iniziato una guerra di resistenza che si sarebbe prolungata per più di quattro secoli, erano assolutamente infondate. 

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 Cinquanta anni prima, Ferdinando Magellano e i suoi marinai avevano avvistato sulla spiaggia di San Julian un “gigante”, il primo indio patagonico. Niente a che vedere, dunque, con le meravigliose città maya o incaiche, nessun Eldorado. Eppure anche per le antichissime genti della Patagonia fu l’inizio della fine: battaglie, carneficine, espropri, epidemie nel corso dei secoli le ridussero a piccole comunità disperse. «Tutto quello che rimane di loro – ha scritto Paul Theroux  – è un monumento nella piazzetta di Ushuaia, “al Indio”» . 

I “giganti” incontrati da Magellano erano i Tehuelche: secondo alcune stime oggi se ne contano non più di 4000 nelle riserve e di 1.500 fuori dalle riserve. I Mapuche sono i discendenti degli “auracani” che vivevano sotto le Ande cilene. Hanno combattuto contro l’impero Inca e poi contro i conquistadores. Oggi ne sarebbero rimasti meno di 600mila in Cile e circa 300mila in Argentina: molti continuano a sostenersi con l’agricoltura, la maggioranza si è trasferita nelle città vivendo una complessa integrazione. 

Nel 1875 il governo argentino con la “campagna del deserto” del generale Julio Argentino Roca, occupa le terre del Sud, espropria le popolazioni indigene e vent’anni dopo avvia la spartizione della Patagonia tra i partecipanti all’impresa militare, cioè ufficiali argentini e imprese inglesi. Nasce la Compania de Tierras Sud Argentino che, dopo un secolo e vari cambi di proprietà, nel 1991, con Carlos Menem presidente a Buenos Aires, passa legalmente al gruppo Benetton per una cifra vicina ai 50 milioni di dollari. «Ma un luogo non è una merce, ha la sua storia e, anche se acquistato col denaro appartiene a chi lo abita nel tempo e nello spazio e non può essere sottratto con il commercio agli abitanti secolari», ha scritto nel 2018 Massimo Venturi Ferriolo, filosofo, già ordinario di Estetica al Politecnico di Milano, nella lettera di dimissioni dal comitato scientifico della Fondazione Benetton. Uno “strappo” maturato per ragioni etiche dopo alcuni anni di attività di ricerca e didattica legata anche al Sudamerica. 

La storia del confronto tra Benetton, i Mapuche e lo Stato argentino è fatta di proteste, grandi tensioni, violenza, repressione e, parallelamente, di un dialogo tra sordi per cercare un compromesso. Una pacificazione. Due i più eclatanti “recuperi territoriali” dei Mapuche: nei primi anni del Duemila la famiglia di Atilio Curinanco e Rosa Nahuelquir ha cercato di creare una piccola azienda agricola nell’estancia Santa Rosa nella provincia di Chubut, di proprietà appunto di Benetton, ma la vicenda si è conclusa un anno dopo con un violento sgombero operato dagli agenti della gendarmeria.

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 Nel 2015 una comunità di Mapuche guidata da Facundo Jones Huala (poi arrestato ed estradato con l’accusa di terrorismo), è entrata in una porzione dell’estencia Leleque e anche in questo caso la situazione è precipitata fino allo sgombero. In mezzo a questi due episodi, il tentato dialogo promosso da Adolfo Perez Esquivel, premio Nobel per la pace nel 1980 per le sue denunce contro gli abusi della dittatura argentina, che in una lettera aperta chiede ai Benetton di restituire i 385 ettari alla famiglia Curinanco. «Sarebbe un gesto di grandezza morale», scrive Esquivel invitando Luciano Benetton ad andare in Patagonia per «incontrare i fratelli Mapuche, dividendo con loro il silenzio, gli sguardi e le stelle».

 Si svolgono anche vari incontri, compreso quello di fine 2004 a Roma in presenza, tra gli altri, di Esquivel, Luciano Benetton, i rappresentanti dei Mapuche, l’ambasciatore argentino in Italia e l’allora sindaco della capitale, Walter Veltroni. Benetton offre 7500 ettari di terreno, ma escludendo i 385 al centro del caso. Non se ne fa nulla, perché la donazione riguarda campi che sia Esquivel che i Mapuche ritengono improduttivi. La violenza della gendarmeria e la morte durante le proteste di due attivisti, Santiago Maldonado e Rafael Nahuel, aggiungono tensione al dimenticato conflitto nella terra dell’oblio, che non si è mai fermato: nella notte tra il 25 e il 26 dicembre scorsi, un gruppo di componenti della comunità Lof Kurache (la stessa di Facundo Huala) ha occupato un’estencia del gruppo Benetton a El Maitén, nella provincia di Chubut: «Abbiamo iniziato il processo di recupero territoriale del settore El Platero», e l’azienda italiana ha denunciato quella che ritiene un’ennesima occupazione illegale.

La pacificazione resta dunque un’utopia, anche se la storia di un altro imprenditore dimostra che è bene continuare a coltivare una speranza. Lo statunitense Douglas Tompkins, fondatore di North Face (uno dei principali marchi al mondo di abbigliamento da montagna), dopo aver ceduto le sue aziende e prima di scomparire a 72 anni, ha comprato insieme alla seconda moglie Kristine quasi 900mila ettari di terreni tra Cile e Argentina spendendo circa mezzo miliardo di dollari. Una “missione” ambientalista che puntava a sottrarre la straordinaria biodiversità della Patagonia allo sfruttamento dei latifondisti e che non ha risparmiato a Tompkins le critiche dei due Stati sudamericani per la presunta minaccia alla loro indipendenza e allo sviluppo economico.

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  Nel 2017 la vedova Tompkins ha donato 400mila ettari al governo cileno per la creazione di cinque nuovi parchi nazionali: «E’ la realizzazione del sogno di Doug - ha detto Kristine firmando l’atto di donazione con il presidente cileno Michelle Bachelet -. Lui aveva capito i rischi del cambiamento climatico molto prima che se ne parlasse nel dibattito politico». Il visionario Tompkins, ispirato dalle immensità patagoniche come lo era stato tra l’Ottocento e il Novecento Hudson: «Non è effetto dell’ignoto, non è la fantasia – scriveva l’autore inglese – è che in questo scenario desolato la natura ci commuove più profondamente che altrove».

Nel 2000, due anni prima di morire, Francisco Coloane è tornato con la memoria nei luoghi della Patagonia che ha conosciuto e raccontato nei suoi libri e ha in un certo senso corretto la prima, lontanissima impressione: «L’oblio non esiste quando si è vissuto laggiù, perché il paesaggio della Patagonia si delinea al pari di una gigantesca onda sull’opera millenaria ancora in corso, come del resto la stessa Terra (...) La Patagonia odierna è una realtà profondamente diversa da quella di un tempo, quando era tragica e romantica. Forse progresso e bellezza non possono navigare assieme senza subire naufragi. O magari dipende dai miei novant’anni. I giovani avranno l’opportunità di contraddirmi. La Patagonia spera in questo, per essere qualcosa di più dello spettro letterario che è sempre stata».  

 

*MARCO PATUCCHI  (Nato a Roma il 25 novembre 1962. E’ dal 1991 giornalista economico a La Repubblica. Ha pubblicato “Maratoneti. Storie di corse e di corridori” (Baldini&Castoldi, 2010), “Popoli in corsa” (Edizioni Correre, 2016) e, insieme a Harry Shindler, “La mia guerra non è finita” (Baldini Castoldi Dalai, 2011) uscito anche nel Regno Unito per Austin Macauley. Da questo libro è stato tratto il film “My war is not over” per la regia di Bruno Bigoni)


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