Outback australiano, una settimana vissuta pericolosamente

di MANUELA CASSARA'*

Aeroporto di Alice Springs, Territorio del Nord, Australia. Dicembre 1980. Lo so per certo, perché avevano appena sparato a John Lennon alle Dakota Towers e sui giornali era la notizia principale. Avevo trent’anni, mio marito non era ancora entrato nel radar, ero giovane, di ampie vedute e ampi orizzonti, amante dei grandi spazi. Avevo raggiunto l’amica del cuore, mia ex coinquilina nell’appartamento  di Maida Vale a Londra.  Un’amicizia che ci ha accompagnato attraverso i decenni, coltivata con uno scambio di viaggi, lettere, chiacchiere e confessioni.

Non è per protagonismo, ma un po’ di background è necessario. La mia amica era tornata da poco in Australia, paese natìo, innamorata persa di un pittore inglese conosciuto durante un vernissage londinese,  residente a  Melbourne ma itinerante nell’Outback.  John W. all’epoca era già abbastanza famoso, e ora lo è anche di più; definito come uno dei più importanti artisti australiani, conosciuto per il suo approccio poetico e documentativo del territorio. Oggi, ho controllato sul web, John è un anziano signore di 82 anni, con i capelli al vento anche quando non c’è, e uno sguardo inquisitivo, un po’ burbero, che all’epoca non aveva. Allora era un tipo affascinante, eccentrico come solo gli inglesi che nascono bene possono permettersi di essere, che girava in un minivan Volkswagen, percorrendo le  sue personali Vie dei Canti, a volte per settimane intere, sparendo senza radio, senza lasciare un contatto.

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Tra loro era scattato il classico colpo di fulmine.  Lui affascinato dalla bellezza e personalità di lei. Lei idem. Perciò si era licenziata, aveva deciso che era il momento di tornare a casa e l’aveva raggiunto. Poi mi aveva scritto “devi assolutamente venire a conoscerlo”. E così eccomi là, seduta sulla mia valigetta, nel rovente aeroporto di Alice, all’epoca un unico capannone di lamiera. Quaranta gradi e non un filo d’ombra. Gli altri, pochi, passeggeri si erano nel frattempo dileguati. L’aereo era atterrato da quasi un’ora e dei miei amici nessuna traccia. Senza cellulare o recapiti, mi ero rassegnata a una lenta e solitaria essiccazione, poi avevo intravisto, in lontananza, una nuvoletta di polvere. Tipo, arriva la cavalleria nei film di John Ford.

Tempo dieci minuti ed ecco che da quel pulmino scalcinato, mimetizzato da strati di terra rossa, scendono loro due, ridanciani e abbracciati come solo gli innamorati auto referenziali possono essere. Primo sospetto che la vacanza a trois non era stata una gran bell’idea, dopotutto. Mi accolgono con entusiasmo nel pulmino che scopro essere, dall’indomani, il nostro mezzo di trasporto alla scoperta dell’outback; la nostra cambusa, ma non la nostra casa. Avremmo dormito all’aperto, mi comunicano, gioiosi, nelle swags, dei sacchi con materassino di spugna incorporato, rigidi come cotiche, realizzati nello stesso materiale dei Driza-Bone,  l’equivalente australe delle giacche Barbour inglesi. Ma più rudi. Un tessuto cerato anti tutto, per giacconi con la mantellina, per un po’ di moda anche da noi, abbigliamento abituale dei jackaroo, che è come vengono chiamati qui i cowboy locali, uomini di poche pretese. Il marchio, infatti, è l’adattamento fonetico e biascicato di “dry as a bone” (secco come un osso), espressione che rende subito l’idea del comfort delle medesime. La swag che mi viene offerta orgogliosamente è parecchio zozza, molto impolverata e puzza pure.

Ora io ero, sì, una giovane donna di larghe vedute e come dicevo di ampi orizzonti, ma finora non mi ero spinta oltre un Club Mediterranee in Marocco, quindi ho educatamente ringraziato e sperato in un motel. Che come vedrete ci sarà, ma anche quello avrà i suoi aspetti inquietanti.  Si procede in garrula compagnia verso la casa della gallerista di John, una villa con piscina nel centro di Alice (Springs non l’aggiunge mai nessuno, a meno che non si voglia fare la figura del turista qualunquista).il bushjpg

Ultima notte in un bel letto, ultima cena gustosa e la mattina, all’alba, bye bye Alice. Red Center stiamo arrivando. Ci lasciamo alle spalle la sonnacchiosa città, fondata nella seconda metà dell’800 intorno al ripetitore della Overland Telegraph Line. C’era poco allora ad Alice, c’è poco ancora oggi: un’ampia main street fiancheggiata da numerosi negozi di souvenir e gallerie di pregevole arte indigena, da un elevato numero di pub e ristoranti con l’ esotica offerta à la carte di carne di canguro, di emu, di bufalo, di coccodrillo. Per uscire dalla città ci lasciamo alle spalle il Todds River, che comunque è in secca, e una serie di fatiscenti accampamenti di aborigeni, nei letti di fiumiciattoli altrettanto in secca, riconoscibili in quanto corsi d’acqua solo perché fiancheggiati da frondosi alberi di eucalipto. Diciamo che negli anni ’80 la consapevolezza nazional popolare verso le ingiustizie, gli espropri perpetrati e le violenze subite da quei primi, legittimi, abitanti dell’Australia, era scarsa. Solo nell’ultimo ventennio, forse anche meno, i diritti degli Aborigeni, la loro cultura, l’eleganza della loro arte, la sacralità delle loro tradizioni, sono entrati a fare parte della coscienza e della vergogna collettiva, e comunque il razzismo, i pregiudizi e l’ignoranza sono ancora piuttosto radicati in alcune fasce sociali, specie quelle rurali, nel Queensland e il Territorio del Nord.

Equipaggiata di Clarks modello desert boots  e  di un completino kaki da piccolo esploratore, mentre  la mia amica saggiamente porta gli shorts, si parte. Getto uno sguardo sulle scarpe di John, che spuntano da un paio di gambette allampanate e lentigginose, sotto dei calzoncini che stavano in piedi da soli: le portava allacciate con del fil di ferro. Primo indizio, diciamo, di un certo disprezzo per i luoghi comuni. E poi un secondo: nel mini frigo impolverato, aperto nell’ingenua speranza di un sorso d’acqua fresca, scopro il cadavere stecchito di un pennuto, che mi osserva con il suo occhio vitreo, da quella sua piccola morgue, pronto per essere, prima o poi, immortalato dall’artista. Ho il sospetto che il viaggio sarà privo di optional.

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Ci fermiamo a Hermansburg, una comunità aborigena del MacDonnell Shire; un piccolo centro d’interesse storico, dove John si è fatto degli amici, a 125 km di nulla da Alice Springs. Ci circondano bambini curiosi e schiamazzanti e donne che ci sorridono benevolmente. La bellezza non è il loro forte, ma sono facce possenti, dai lineamenti ancestrali, sfiorite dalla fatica e da un clima che non perdona.

Proseguiamo per Gosses Bluff, un cratere dal diametro di 20km, si pensa risultato dell’ impatto di una cometa di 600 metri di diametro, avvenuto 142 milioni di anni fa. Un luogo primitivo, marziano, che avrebbe potuto essere il set di Jurassic Park, solo che Spielberg non l’aveva ancora girato. Oggi il cratere è tornato a essere sacro e con il suo nome originale, Tnorala. Ci si accede previo permesso e la promessa di rispettare le zone off limits considerate magiche.  All’epoca, invece, ci siamo accampati impunemente a ridosso delle pendici, e dopo una non memorabile cenetta intorno al falò, tutti a nanna. Loro due, lontani per discrezione. Io, nella mia fetida swag, tremebonda e terrorizzata da quel silenzio irreale, all’erta per un probabile Velociraptor, cullata dalla meraviglia di una stellata memorabile. La mattina, diciamo dopo un buon tè e un paio di toast bruciacchiati, la mia amica, più tosta di quello che uno direbbe a prima vista, mi trascina in una scarpinata in salita. Avvistiamo un lucertolone solitario e sonnolento, un bestione di oltre due metri, probabile congiunto del suddetto, paventato, dinosauro;  “goanna” mi  indica lei,  didattica ed entusiasta. L'animale, per fortuna, ci ignora altezzosa.la coppia felicejpg

Si riparte e devo dire che i ricordi si fanno confusi e ripetitivi.   Ogni giorno ci facciamo qualche perigliosa camminata, io particolarmente attenta a dove metto i piedi, specie dopo aver incrociato, e involontariamente scavalcato, un esemplare di Yellow Headed Whip Snake che attraversava il sentiero. Si, è velenoso.

Sì, come tante altre cose in questo magnifico continente, tipo gli urticanti cespugli Gympie Gympie,  il ragno dei cunicoli o quello dal dorso rosso, i serpenti Taipan più una miriade di altre varianti striscianti altrettanto carogna, i coccodrilli estuarini, le caravelle portoghesi, la lumaca marina assassina…e ultimi ma non da ultimi: gli squali. John, quando non guidava, allestiva il campo o amoreggiava con la mia amica,  faceva il suo mestiere, l’artista. Si spostava tenendo sotto l’ascella un cartoncino  di un metro per due, piegato a ventaglio e poi ripiegato  fino a farne un quadrato. Lo apriva e tratteggiava a inchiostro il nostro percorso, una specie di mappa, la sua via del canto, alla maniera degli Aborigeni, e ci aggiungeva dei piccoli appunti poetici, o dipingeva ad acquarello, con cura da miniaturista,  i  riflessi in una pozza d’acqua, una fragile libellula, una roccia colorata, un cespuglio, un albero solitario. Il cartoncino era macchiato del suo sudore, di sabbia, di terra, di acqua. Era già un dipinto magnifico. Vivo. Vissuto.  Era il racconto del suo sguardo, del suo essere lì, lì e allora.le scarpe dellartistajpg

Dopo due o tre giorni di ossa rotte dalla swag, ecco che John, malizioso, mi promette una seratina speciale al Glen Helen Lodge, pubblicizzato come la sola accomodation nelle Mac Donnel Ranges. Se lo guardate su TripAdvisor, però, vi fate un’idea sbagliata. Allora era un avamposto per uomini perduti. Non ricordo nessuna piscina, nessun dehor attrezzato, c’era già il pub-ristorante, un antro buio che puzzava di birra, e c’erano la fila di stanzette, sotto una tettoia di cemento. All’esterno sembrano identiche , ma all’interno c’è stato un restyling completo: lettone king size, cuscini, abatjour, c’è  pure la moquette. Spartane e fatiscenti che erano, erano pur sempre un upgrade dalla swag puzzona, e il mio lettuccio ebbe perciò tutta la mia gratitudine. Non credo che ci fosse il bagno en suite. Perché ricordo con orrore e terrore quello che mi disse la corpulenta, burrosa e lentigginosa Helen, sempre un po’ bevuta: “ Atenta la sera, quando passi dal patio, ai serpenti piace venire a passare la notte sul cemento riscaldato dal sole.”  Ci sapeva fare, la Helen, sapeva come mettere una persona a suo agio e predisporla ad una notte insonne. Che ho  passato a scrutare quell’ inquietante spiraglio di 10 cm sotto la porta d’entrata, trattenendo con sublime autocontrollo la pipì, perché di attraversare il patio non se ne parlava.

Dulcis in fundo, la nuotata nella Cattedrale. O almeno così ce l’aveva descritta John: una gola di un miglio, scavata in quelle meravigliose rocce rosse, che inondate dal sole ad una certa ora del giorno si accendevano, secondo lui,  di una sacralità religiosa. A tutt’oggi non ho la più pallida idea di dove fosse. Tanto, sicuro, non ci voglio tornare mai più. Ricordo solo che partimmo tardi, perché John aveva voluto rinfrancarci con una tazza di billy tea.  Cioè, aveva raccattato da terra una manciata di foglie di eucalipto, tirato su con la gavetta un po’ di acqua putrida da una maleodorante pozza acquitrinosa, l’aveva fatta bollire, ci aveva aggiunto, per noi signore, una cucchiaiata di miele e ce l’aveva porta con galante entusiasmo Dopo di che siamo partiti verso l’ignoto.

Il piano era questo: traversare a nuoto tutta la gola, un susseguirsi di pozze sempre più anguste, buie e gelide, perché ormai il sole se n’era andato da un pezzo, farci tutto il miglio e poi, evviva evviva, tornare pure indietro per lo stesso percorso.

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Prima pozza, uno stagno verde coperto da alghe, circondato da grossi escrementi di un qualche animale. Bufali, forse. Sappiate che io sono schifiltosa per poche cose, ma l’acqua dove nuoto deve essere caraibica. Quindi dopo averli guardati entrambi con odio, mi sono tappata il naso e buttata, attraversando quello schifo con poche e vigorose bracciate, che manco la Pellegrini. E tenete conto che sono una schiappa a nuotare, ma l’adrenalina faceva il suo effetto. Seconda pozza idem come sopra. Terza pure, solo sempre più fredda. Poi tutto si restringe, le pareti della gola diventano larghe come la distanza delle mie braccia aperte, che uso appunto per tirarmi su come l’Uomo Vitruviano di Leonardo, perché ormai l’acqua, plumbea, è pure gelida e sento le membra intorpidirsi.

Arrivo non so come in fondo, sempre preceduta dai due incoraggianti innamoratini di Peynet, e al susseguente slargo dichiaro forfait. “ Andateci voi, io mi lascio morire qui, tornate a prelevare il mio corpo con l’elicottero”. La mia amica, che in quel momento pensavo di ripudiare, lo avrebbe seguito ovunque, il disgraziato. E così fa, e così proseguono. Tornano dopo una mezz’oretta, blu dal freddo, specie lei, noto con soddisfazione. E niente, rifacciamo lo stesso tragico percorso. Fino all’ultima putrida pozza, fino al pulmino, dove risaliamo, io particolarmente incarognita. Dopo un altro centinaio di chilometri sulla via di Alice Springs, silenziosi e puzzolenti di marcio, distratti dalla bellezza di quel magnifico nulla, arrivati all’accampamento per la notte, mentre mi aiutava a piazzare la mia swag in una grotta, dove avrei dormito sotto dei dipinti tribali che risalivano all’alba dei tempi, accompagnata dai canti, un tantino inquietanti,  del vicino bivacco aborigeno, John mi ha dato la sua affettuosa buonanotte: “ Sai dove ti sei fermata, nella gola, in quello spiazzo? Poco più in là, tra le rocce, c’era un grosso pitone a riscaldarsi. Ho pensato che fosse meglio non dirtelo.” Premuroso, no?

Ma purtroppo, come tutte le belle storie, anche questa, e intendo quella tra John e la mia amica, alla fine è finita. Vista quell’ultima avventura, lei, devo dire, ha tutta la mia comprensione. Non lo dico con cattiveria.

*MANUELA CASSARA’ (Roma 1949, giornalista, ha lavorato unicamente nella moda, scrivendo per settimanali di settore e mensili femminili, per poi dedicarsi al marketing, alla comunicazione e all’ immagine per alcuni importanti marchi. Giramondo fin da ragazza, ama raccontare le sue impressioni e ricordi agli amici e sui social. Sposata con Giovanni Viviani, sui viaggi si sono trovati. Ma in verità  anche sul resto) 

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