Nukus dell'Uzbekistan, il gulag degli artisti

di EMILIO RADICE*

La Prigione dell’Arte è oggi un edificio moderno ai margini del deserto del Karakum, dove la follia dell’uomo ha trasformato in sabbia anche l’acqua del Pamir. Tutto qui sembra giungere alla fine del respiro. Gli abitanti, diversi da tutti quelli incontrati nell’intero Uzbekistan, hanno a volte tratti vietnamiti, spigoli orientali, e il volto protetto dalle polveri chimiche dell’aria. Giacciono accosciati nelle improvvisate ombre del bazar agricolo di Nukus, qualcuno dormiente, fra mazzi di pesci secchi e di cipolle. Scarpe di plastica, cataste di sedie di moplen, bottiglie in pvc e palloni gareggiano a chiazze di colore con le verdure. Una cipria di volatile sporco ammanta tutto. In giro non c’è gran felicità, non si vedono sorrisi. Quel che resta del Mare di Aral sono, fra le dune steppose, navi insabbiate circondate dai cammelli. 

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(Donna con sega, di artista sconosciuto)

L’Amu Darya, il grande fiume della Khorasmia, è stato ucciso dai piani decennali di sviluppo agricolo del Soviet Supremo, in un tempo non lontano. Oggi, per decisione politica, irriga sterminati campi schiavi del cotone e dei pesticidi nella pianura del Fergana, mille chilometri lontano, e non potrebbe più dissetare le carovane che portavano la seta in Occidente. Qui a Nukus non è più neanche vapore. E tuttavia, proprio in questa asprezza, uno ha la possibilità di incontrare l’Arte come fosse una viandante, può parlarci come a una amica, può commuoversi con lei, può stare ad ascoltare le sue storie, può carezzarla, può reclinare il capo e chiederle scusa, profondamente scusa, e alla fine, al momento di andare via, può piangere come nell’abbandono di un affetto. Perché a Nukus per decenni l’Arte venne messa in prigione, confinata. L’Arte ebbe qui il suo campo di concentramento, il suo gulag, la sua Siberia, e l’Arte oggi qui parla come non può mai parlare altrove.

Z.I. Belyaeva, nata nel 1904, T. Sinonin, nato nel 1935, V.I. Prager, nato nel 1903, K.I. Finogenov, nato nel 1902, N.G. Karaxan, nato nel 1900, A.V. Shevchenko, nato nel 1883, V.N. Perelman, nato nel 1892, N.V. Kashina, nata nel 1896, O.K. Tatevosyan, nato nel 1889, K.N. Redko, nato nel 1897…… Furono centinaia e centinaia i pittori, le pittrici, gli incisori e gli scultori non graditi al regime stalinista, non ortodossi alla sensibilità dei burocrati al potere. Eccoli i loro nomi, manciate di povere identità misconosciute sepolte qui con le loro intenzioni, con i loro discorsi di pittura, le poesie di colore, le emozioni in immagine, magari le rabbie, perché no?, talvolta anche le rabbie. Ma fatte di tela e pennello, niente di più, dette con l’anima.

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(La borghesia, di M. Kurtsin)

E’ questa l’arte. Ecco il bel villaggio con ciminiere dipinto da Tansykbaev, ecco gli uomini in una fumosa sala di bar raccontati con grigi e verdi da Metsev, ecco la meravigliosa operaia con una gran sega a tracolla dipinta da un artista sconosciuto, vissuto chissà dove e morto chissà quando, in un anno qualsiasi dello scorso ‘900, cancellato. Ecco i fiori, un innocente mazzo di fiori, di Kashina, e poi la donna in un campo di fieno nella primavera di Redko, l’artista di circo di Kozlov, la bambina con bambola della Sofronova, la meravigliosa donna in rosso, seduta, di Ismanov…. Cosa hanno fatto di male questi dipinti, questi volti che ci guardano, l’autoritratto del giovane Tansykbaev, firmato nel ’31, o il paesaggio di campagna di Volkov? Perché strapparli alla vista e chiuderli qui, in un angolo sperduto di deserto?

Non erano ortodossi. E uno si commuove, davvero. Uno guarda questo coro di opere d’arte e gli viene da piangere. Non è questione di bello o di brutto, perché tutto può piacere o non piacere, ma a Nukus c’è la prova di come possa essere terribile togliere la voce a chi canta, gli strumenti musicali a chi suona, i pennelli e i colori a chi dipinge. A me è venuto da pensare che fosse come avere mandato in esilio Gino Paoli per avere inventato Senza Fine e Giacomo Leopardi per il suo Infinito, facendo sì che canzone e poesia non fossero mai udite. Mi è venuto da piangere davvero. Non credevo di poter toccare da vicino e in questo modo la realtà di una strage, la logica allucinata di un genocidio, il senso assurdo di una pulizia di Stato, l’eugenetica dell’arte. E dico a chiunque legga queste righe: non andate in Uzbekistan senza rendere omaggio a questi nostri teneri padri sconosciuti. Per loro è una prima volta, per loro è un vernissage. E, soprattutto, ora è possibile. Basta oltrepassare la porta di un impensabile Quai d’Orsay nel deserto: il fantastico Museo Igor Savitsky.M Ismanov Donna sedutajpg

(Donna seduta, di M. Ismanov)

Raccontare la storia di quel che ha fatto Igor Savitsky per l’Arte è come ricordare cosa fece Giorgio Perlasca per gli ebrei. Savitsky, morto nel 1984, in privato era un pittore ma per tutti era un funzionario del regime sovietico. Arrivò a Nukus da giovane, al seguito di una spedizione etnografica, quando a Mosca nel Comitato Centrale del Pcus già si ragionava di uccidere l’Aral, di spostare genti, di deviare fiumi, di spedire in Kirghizia le minoranze tedescofone o di svuotare la Kalmukia. Il Karakalpakstan – così si chiama questo angolo estremo della Terra - era un luogo ideale di esperimenti chimici e di confinamento. Ogni vergogna qui poteva restare nascosta agli occhi del mondo.

E Igor Savitsky ne approfittò. Giocando la sua vita, con astuzia ma anche con grande abilità, riuscì a diventare l’amministratore di un suo gulag particolare, da lui inventato: il campo di prigionia dell’Arte Indegna. A poco a poco cominciò a rastrellare opere altrimenti destinate a distruzione, prima in Uzbekistan, cose di arte popolare, anche reperti archeologici, e poi un po’ in tutto l’impero sovietico. Andò a bussare alle porte di artisti finiti in Siberia portandone in salvo i quadri, divenne il custode di intimità dissidenti: fiori, ritratti, operai dipinti alla catena di montaggio, moderniste ciminiere e ruote meccaniche, paesaggi cubisti e tenere ballerine danzanti sulle punte. E tutto nascose in un capannone, tutto salvò. A Mosca lo davano per un tipo bizzarro ma inoffensivo. Ma sì, se la prendesse lui tutta quella spazzatura, la portasse dove meglio credeva, in mezzo ai cammelli. Un fastidio in meno. E a poco a poco le opere d’arte diventarono migliaia. Le stime parlano di centomila pezzi, un frammento importantissimo e spesso unico di tutto il Novecento russo.Nukus il bazarjpg

(Il Bazar di Nukus, foto di Emilio Radice)

Igor Savitsky non fece in tempo a vedere la caduta del Muro di Berlino. Ma quando l’Unione Russa delle Repubbliche Socialiste si disgregò ridando vita alle identità nazionali, qualcuno cominciò a parlare di questo strano gulag in fondo al Karakum e le autorità del rinato Uzbekistan, e ancor più del piccolo territorio autonomo del Karakalpakstan, lo riscoprirono come bandiera di orgoglio nazionale: l’Arte aveva trovato lì rifugio, a Nukus, dove altrove era stata distrutta. Venne costruito allora un bell’edificio museale, davanti al quale sventolano bandiere patriottiche, e c’è persino una aiuola verde con la scritta “I love Nukus”, con un cuore rosso. Intorno è polvere. E il museo è intitolato a lui, Igor Vitalevic Savitsky.

Quando, in un caldo allucinante, me ne andai da Nukus puntando la mia motocicletta verso altre sabbie, una cosa sola mi venne da dire, “Grazie”, e pensai agli artisti che lasciavo lì, così lontani. Pensai a loro come se mi salutassero con i loro fazzoletti, i loro adieux, le loro dolci bizzarrie. E pensai anche che in ogni città del mondo ci dovrebbe essere almeno una strada dedicata al nome del loro protettore, Igor Savitsky.


*EMILIO RADICE (Nato nel 1949 a Roma, a metà strada fra la Napoli paterna e la Livorno di mammà, ha lavorato prima a Paese Sera poi a Repubblica. Motociclista convinto, spesso si perde in lunghi viaggi solitari alla ricerca di tracce filosofiche e reali)




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