Nascondino

di ANGELO MASCOLO*

Sono stato in un posto, una volta. Non saprei dirvi, ora, se questo posto esista realmente o viva soltanto nei miei ricordi. D’altronde, chi potrebbe? Spesso la distanza che separa ciò che abbiamo vissuto da ciò che crediamo di aver vissuto è talmente sottile da dissolvere ogni contorno in una sfumatura sottile e indefinita, come una visione che il caldo e il fumo del sigaro fanno galleggiare a mezz’aria. Un viaggio – uno qualsiasi – è sempre un mito, una fantasia. L’irreale che si fa quotidiano. La concretezza viene rielaborata e filtrata dalla nostra anima, fino a trasfigurarsi. 

Ebbene, vi stavo dicendo che io, seppur in un periodo che non ricordo bene, sono sicuro di aver fatto un viaggio. In un parcheggio, per la precisione.

Non un parcheggio qualsiasi, in realtà. Uno spazio grande molto più vicino al sagrato di una chiesa o alla pista di atterraggio di un aeroporto. Un tappeto di asfalto grigio, sterpaglie bruciate tutt’intorno e qualche capannone dentro le cui viscere vive la solitudine dei giorni.

A pochi metri da casa mia c’è un parcheggio di quel tipo, anche se un po’ più piccolo. Altro dettaglio non trascurabile: non ha un tappeto di asfalto grigio né hangar a perdita d’occhio. Di tanto in tanto, in questo parcheggio, vado a correre. Un giorno, però,  è accaduto un fatto. Qualcosa che non saprei riferire bene proprio perché non so se si sia realmente verificato o se è accaduto solo nella mia mente.

Mentre mi allenavo, davanti a me è spuntato un gruppo di ragazzini. Figli di vicini e altri che non avevo mai visto prima. Giocavano. In mano non avevano smartphone. Giocavano e basta. A nascondino. A vederli, tra loro e i ragazzini dei casermoni del dopoguerra nessuna differenza. Li vedevo scalmanarsi e ridere, all’aria aperta. Felici.

Quando la mia corsa è finita un paio di loro, che erano stati scoperti, si sono messi a scappare per salvarsi ed evitare di essere eliminati dal gioco. L’ultimo di questi bambini aveva qualcosa di particolare rispetto agli altri. Correva con le braccia aperte, una specie di Cristo sospeso su un filo, e la testa buttata indietro dal vento. Le guance rosse come due fanali.

In lui ho rivisto in un colpo solo la mia infanzia, i pomeriggi interminabili che già profumavano d’estate. Ho rivisto me bambino, i capelli rossi, la faccia sudata e zeppa di lentiggini, correre contro il vento. Perché in quel momento non contava nient’altro che raggiungere la base. Salvarsi e rimanere a tutti i costi aggrappati a quel gioco, il nascondino, già così simile alla vita.


*ANGELO MASCOLO (Sono archeologo, giornalista e scrittore. Ho collaborato con i quotidiani «Roma», «Metropolis» e «Il Mattino».  Nel 2016 il mio romanzo "Palestra Italia" si è classificato secondo al Premio Letterario RAI «La Giara». A novembre 2017 è uscito «La primavera cade a novembre», giallo edito dalla casa editrice Homo Scrivens, arrivato alla seconda ristampa, che ha ottenuto diversi riconoscimenti a livello nazionale)


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