Napoli in penombra /4 Fontanelle, le ossa dei poveri e il teschio che suda

di VINCENZO CROLLA *

La geometria ancora non aveva vinto la sua guerra sul caos e sistemato per bene sul piano i suoi quadrati e i suoi triangoli; né la scienza contabile aveva incolonnato secondo regola i suoi numeri. In quel tempo. Non c’è più anarchia adesso e tutto è ben ordinato; ogni teschio ben allineato insieme agli altri: decine di migliaia. I crani, uno accanto all’altro, sopra le tibie e i femori che forse sono quelli suoi o forse no. 

Sono i resti, per lo più anonimi, degli “straccioni”, quella plebe sterminata che affollava i vicoli di Napoli, falcidiata dalla peste del 1656 e dal colera di due secoli dopo, nel 1836. Certo adesso il trionfo della linea retta rende più agevole il cammino in quei corridoi; quel che non rende è lo strazio senza voce, eppure assordante, che arrivava alle orecchie del viandante quando esse erano gettate lì alla rinfusa. Quelle ossa accatastate a casaccio, senza alcun ordine e distinzione, non raccontavano storie certificate da vetusti documenti probanti ma elevavano al cielo un mesto grido collettivo di dolore; note dolenti di quelle anime che i napoletani battezzarono “pezzentelle”; povere ossa di gente senza nome e senza storia: crani di anime abbandonate che singolarmente venivano adottate da un napoletano in cerca di “patronaggio” e protezione. 

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L'ossario si trova all'estremità occidentale del vallone naturale della Sanità, uno dei rioni di Napoli più ricchi di storia e tradizioni, appena fuori dalla città greco-romana, nella zona scelta per la necropoli pagana e più tardi per i cimiteri cristiani; giusto sotto la collina di Capodimonte, tra il vallone dei Girolamini a monte e quello dei Vergini a valle, Il luogo, da secoli, conserva i resti di chi non poteva permettersi una degna sepoltura e, soprattutto, delle vittime delle grandi epidemie che hanno più volte colpito la città. E’ una delle tante cave di tufo dalle quali si estraeva quella pietra dolce ma resistente ad ogni cataclisma, colorata di oro antico con la quale per secoli si è eretta ogni costruzione: dai palazzi gentilizi della nobiltà ai muretti di cinta degli orti disseminati qua e là nella città e, soprattutto, nei suoi “trentasei casali”.

Arrivai al Cimitero delle Fontanelle una domenica mattina, senza troppe speranze di entrarvi, seguendo indicazioni generiche; volatili come le tante storie e leggende che aleggiano nell'aria di questa città. Storie spesso senza capo né coda che non si sa da dove sono partite e da quando; e neppure nella testa di chi hanno trovato l' humus fertile per essere partorite e raccontate.

La spinta a offrire “cibo” alla mia curiosità era arrivata il giorno prima da un trafiletto anonimo nella cronaca di Napoli che raccontava del maresciallo. Il maresciallo, - riportava quella cronaca scarna - una figurina piccola e discreta, ex carabiniere in pensione da un po', aveva fatto voto di aprire le porte del sacrario per un’ora, la domenica mattina, alla visita di chi volesse dare "rinfresco" alle anime dei morti, se la moglie avesse ritrovato la salute persa a causa di "quel male". La sua compagna guarì e lui, un po' piegato nelle spalle dentro il cappottino stazzonato, con l'aria mite di chi pensa sempre di essere in debito col mondo e di doversi scusare, come promesso era lì, ogni domenica mattina alle dieci in punto, a tener fede alla parola data.

A fargli compagnia, nero e riccioluto, Salvatore, animaletto acquatico spuntato su una qualunque spiaggia del Mediterraneo. Avrà avuto si e no dieci o dodici anni quel nero scugnizzo affabulatore - narratore di storie raccolte dalle nonne nei bassi umidi, intorno al braciere, nelle sere d'inverno - e con quelle ossa e quei teschi ci parlava e ci giocava. Saltava il muro ogni mattina fuggendo la scuola e insieme alla brigata dei suoi compagni di vicolo si inventavano storie e giochi: senza paura. Quelle ossa erano una sorta di parte della famiglia allargata, vita che pullulava nei bassi ordinati e puliti. Per loro, quelle ossa, non erano "cose" senza vita, ma altra forma di vita: discreta, silente eppur presente.

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E la vita che ancora pulsava e domandava il suo salario era testimoniata da quel teschio buttato lì tra i tanti accatastati in maniera disordinata gli uni sugli altri, senza criterio; e in assenza di ogni particolare condizione di umidità e di luce. Per loro, per quei ragazzi, quei resti dolenti non erano materia inerte; il luogo non una discarica di ex-vita. A testimoniare il pulsare della vita in mezzo a quell'ammasso di frammenti di scheletri rinsecchiti e asciugati dallo scorrere dei secoli, un teschio sudava; sudava proprio. Tu gli detergevi il sudore dalla fronte agendo a raso, col pollice sulla fronte e quello, subito dopo, riprendeva a sudare; mettendo in crisi, di colpo e tutt’insieme, l’impalcatura del tuo pensiero eretta in decenni di razionale agnosticismo, l'elogio di Cartesio e l'intera Encyclopedie.

"Era una principessa - raccontò Salvatore - suicida per un amore negato. La sua anima, febbrile, continua a non trovare requie e ancora vaga; ansiosa, ancora attende e spera che finalmente l'amato cavaliere alzi lo sguardo e si accorga di lei". Salvatore non è più un ragazzino; è un uomo maturo ormai e le ossa sono state ordinatamente sistemate al Cimitero delle Fontanelle, ma la Principessa ancora aspetta il suo sposo mancato; e ancora suda. Anche se adesso non lo fa confusa tra tutti gli altri. Non mette più in piazza i suoi tormenti e il suo dolore ma lo fa in una piccola teca di vetro discreta che impedisce però a mani misericordiose, ogni tanto, di detergerle il sudore.

* VINCENZO CROLLA (1947 - ancora vivo; ferroviere, dopo aver viaggiato per 25 anni a sbafo decise che poteva bastare. E comprò una libreria, per leggere a sbafo. Gli riuscì per altri 18 anni)


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