Mozambico, l'isoletta di Ibo e il ricordo di un aviatore
di ANNAMARIA PASSARO*
Una ventina di anni fa il mio compagno di
allora (e attuale marito) si recava tutte le settimane a Londra per
lavoro. Erano gli anni del boom della telefonia mobile: gli spazi pubblicitari
nella metropolitana erano tappezzati di manifesti che decantavano la copertura garantita
da questo o quell’operatore nelle più remote regioni del mondo. Un manifesto in
particolare l’aveva colpito. Rappresentava
una cartina geografica dell’Africa, da cui spiccava un
microscopico punto lungo la costa del Mozambico. Quel punto indicava la posizione della
piccola isola di Ibo, e il testo dell’annuncio prometteva qualcosa del tipo: “Con
noi potrai telefonare a casa anche da qui”.
Ibo è una delle isole Quirimbas, un arcipelago situato nell'Oceano Indiano al largo della costa settentrionale del Mozambico, nella provincia di Cabo Delgado. Con l’arrivo dei primi mercanti islamici, l’isola conobbe un importante sviluppo come porto commerciale. Si dice che nel 1502 il navigatore Vasco da Gama soggiornasse brevemente sull'isola, la quale venne poi fortificata nel 1609 dai portoghesi, che ne fecero una piazza importante del commercio di schiavi.
Per verificare sul campo se la pubblicità di quella compagnia telefonica fosse o meno veritiera, sarebbe stato necessario affrontare un viaggio pazzesco, con alcune tratte in aerei grandi come mosconi, e atterraggi in aeroporti esistenti quasi solo sulla carta. Figurarsi se potevamo lasciarci scappare una simile occasione...!
Ci mettiamo quindi all’opera per pianificare quello che sarà il nostro secondo viaggio in Mozambico, con molti timori da parte mia, devo confessare: avendo letto attentamente i racconti delle esplorazioni di Livingstone di un secolo e mezzo prima, ed essendo uscito il Mozambico da una guerra civile recentissima, il viaggio si prospetta ricco di incognite – e, a dirla tutta, decisamente pericoloso, considerando le zone remote che abbiamo in programma di attraversare. Molte di queste, infatti, non sono state ancora sminate: uscire anche di pochi passi dalle strade poco frequentate può comportare un rischio mortale. Nei villaggi il numero di persone mutilate è elevatissimo: ovunque si incontrano giovani e anziani privi di almeno un arto – e talora di tutti e quattro. Molte strade (soprattutto nel nord del paese) sono andate distrutte durante la guerra, o sono state invase dalla vegetazione per mancanza di manutenzione. Molti ponti sono stati fatti saltare a colpi di esplosivo, e non sono mai stati ripristinati. Gli stessi guadi che consentono di aggirarli possono nascondere mine inesplose. E gli animali selvatici vengono cacciati illegalmente anche nelle riserve faunistiche più protette, per sfamare una popolazione ridotta allo stremo dai rigori della guerra.
La nostra isoletta si trova nella parte settentrionale del Mozambico. Decidiamo quindi di raggiungere con un volo diretto dal Sudafrica la cittadina costiera di Quelimane, situata al confine tra il centro del paese e l’inizio del suo lobo nord-orientale, proiettato verso la Tanzania. Unico ricordo piacevole di questa primissima tappa: un campo di pallacanestro dove si stanno affrontando due squadre di giovani locali, tra i quali spicca per bravura una bellissima ragazza (l’unica tra tanti maschi), dai movimenti tecnicamente impeccabili.
(Ibo)
Un secolo e mezzo fa, Quelimane era stato il punto di arrivo/partenza di più di una spedizione del dr. David Livingstone da/verso l’interno del continente. In una circostanza, l’esploratore aveva lasciato lì, ad attenderne il ritorno, i figli e la moglie – che in tutta la vita doveva avere incontrato l’intrepido marito un numero di volte non superiore alla consistenza della prole (una mezza dozzina di figli).
Sempre in aereo ci spostiamo a Nampula, nel nord del paese, dove affittiamo una vetturetta (in quella zona le strade sono già tornate a essere percorribili in relativa sicurezza). Sfortunatamente, nel serbatoio non c’è una sola goccia di benzina, e il locale distributore ne è del tutto sprovvisto: una petroliera ormeggiata nel vicino porto di Nacala attende da giorni che il governo paghi i tre milioni di dollari concordati per la fornitura, prima che il prezioso carico possa lasciare la stiva. Dopo molte ore di attesa, vediamo sopraggiungere un’autocisterna che rifornisce il distributore di carburante. Riusciamo finalmente a lasciare l’aeroporto, ma dopo qualche chilometro veniamo fermati da una pattuglia della polizia, la quale rileva con apparente sorpresa che il numero di targa della nostra vettura non coincide né con il numero di telaio né con il numero di serie del motore, né con il numero del contratto di affitto, né tanto meno con il numero di telefono del noleggiatore. Riusciamo con fatica a convincere i poliziotti che caso mai si sarebbero dovuti meravigliare del contrario, e dopo qualche ulteriore controllo (buon funzionamento del tergicristallo, del tergilunotto, delle luci e dei fari in tutte le combinazioni possibili, etc.) gli agenti ci lasciano finalmente liberi di proseguire il nostro viaggio, non senza manifestare qualche residua perplessità.
(Ibo)
Raggiungiamo la Ilha de Moçambique (patrimonio UNESCO), che sarà oggetto di un prossimo racconto – così come sarà oggetto di un ulteriore raccontoil segmento finale (assai impegnativo) del nostro viaggio. Al termine del nostro soggiorno alla Ilha, ci dirigiamo alla volta diPemba, dove intendiamo trascorrere qualche giorno. Troviamo alloggio in un piccolo chalet in riva al mare. Al nostro risveglio, l’indomani mattina, constatiamo con raccapriccio che il mare è scomparso: davanti a noi c’è solo una immensa distesa di sa bbiaumida e di pozzanghere, punteggiata da centinaia di abitanti della zona intenti a raccogliere peoci e altre conchiglie commestibili. Per programmare una nuotata dovrò destreggiarmi con la tabella delle maree, come ho imparato a fare in altre località affacciate sull’Atlantico o sull’Indiano, in Africa australe.
Da Pemba si riescono a organizzare escursioni verso l’arcipelago delle Quirimbas, scegliendo tra una lunga veleggiata a bordo di un dhow (la tipica imbarcazione dei mercanti locali) o un breve volo in aereo. Apprendiamo dalla guida Lonely Planet che a Pemba opera una piccola agenzia viaggi, il cui titolare –Luis da Silva – possiede un velivolo che mette a disposizione degli occasionali clienti. Luis è un simpatico signore portoghese sulla sessantina, che è solito mettersi personalmente ai comandi del suo Cessna monomotore, meravigliosamente ben tenuto. (Per le revisioni programmate, lo pilota lui stesso da Pemba a Johannesburg e ritorno. E per dare il giro di avvio all’elica si avvale abitualmente della collaborazione del forzuto genero, invece di servirsi del motorino di avviamento).
(Wimpy beach)
Sono pietrificata dalla paura: negli anni della mia infanzia, in seguito a un volo turbolento da Milano a Firenze a bordo dell’aereo microscopico di un amico di famiglia, ho sviluppato un vero e proprio terrore per il volo. Luis cerca di infondermi sicurezza con il suo sorriso e con i suoi modi affabili: “Siediti qui accanto a me, così avrai la vista migliore, e vedrai che non c’è da aver paura: questo aereo è facile da pilotare, e ti sentirai sicura quanto sulla poltrona di casa tua”. In effetti il volo è meraviglioso. Sull’aereo c’è posto per cinque persone, e così invitiamo a unirsi a noi una coppia di spagnoli conosciuti al nostro arrivo a Pemba (in verità lui è basco e lei spagnola, cosa che non mancano di sottolineare in continuazione). Sono molto simpatici, ma ancora traumatizzati dallo scippo subito il giorno prima nella città vecchia – anche loro, come noi, alloggiano in una zona turistica, poco lontano dal centro storico.
Il panorama è davvero straordinario: sorvoliamo isole verdissime e bianchissimi banchi di sabbia sommersi. La miriade di sfumature di blu e di turchese del mare ci lascia incantati.
Il terminal dell’aeroporto di Ibo altro non è che una casupola di due mq, un rudere privo del tetto. Ovviamente la pista è in terra battuta, mentre la “sala di attesa” consiste in un tronco d’albero appoggiato orizzontalmente su due forcelle, sul quale ci si può accomodare sperando che le forcelle reggano il peso.
Tutt’intorno notiamo bellissime case in stile coloniale, per lo più disabitate, a testimonianza dei passati fasti del luogo. Una cittadina fantasma. Progettiamo di denunciare la compagnia telefonica per pubblicità infedele: il cellulare non “prende” – niente campo, niente linea, niente connessione, niente di niente. Ma il fascino del luogo sovrasta anche il nostro desiderio insoddisfatto di sorprendere i parenti con una telefonata da Ibo.
(Dune sott'acqua a Bazaruto Island)
Da un villaggio poco distante, alcuni bimbi ci corrono incontro festosi: vorrebbero giocare a pallone con noi, parlare, scherzare. Ci accompagnano a fare il giro dell’isola, tra villette che in passato dovevano essere dimore lussuosissime, abitate da ricchi commercianti di schiavi e signore in crinoline. Passo dopo passo si raccoglie intorno a noi una piccola folla di ragazze e ragazzi di tutte le età, che ci scortano fino all’aeroporto, dove ci saluteranno sorridenti al momento del decollo.
Sulla via del ritorno a Pemba facciamo scalo su un’altra isoletta, per concederci una tazza di té a casa di una coppia di amici tedeschi di Luis, proprietari di una piantagione di palme da cocco molto ben curata. Non siamo inattesi: Luis ha preannunciato il nostro arrivo via radio, per cui veniamo subito serviti e riveriti. Anche questa volta, alla ripartenza, Luis preferisce avvalersi delle robuste braccia del padrone di casa per avviare il motore, e così decolliamo un’ultima volta per raggiungere sani e salvi il nostro chalet di Pemba.
L’anno successivo torniamo in Mozambico, molto più a sud, dove si trova la riserva naturale dell’arcipelago di Bazaruto. Per raggiungere l’isola principale, ci caricano su un piccolo aereo in partenza dalla cittadina di Vilankulo (naturalmente mi faccio fotografare sotto la scritta dell’aeroporto, e subito spedisco la foto ai miei amici, allegandola a un a lettera ammiccante). Tutti i piloti che operano lungo la costa si conoscono tra di loro, e spesso volano in piccole formazioni, quando si recano in Sudafrica per le revisioni programmate dei rispettivi aerei. Mentre stiamo per atterrare a Bazaruto, il pilota ci chiede se conosciamo il paese, e quali zone abbiamo visitato. Ascoltato il nostro racconto, ci chiede: ”Ma allora avete conosciuto Luis da Silva? Avete saputo cosa gli è successo?” Di fronte ai nostri sguardi raggelati aggiunge: ”Purtroppo qualche mese fa si è inabissato in mare con il suo aereo. Non ha trasmesso nessun segnale di SOS: deve aver avuto un malore improvviso”.
Purtroppo non posseggo nessuna fotografia di Luis. Conservo negli occhi sue immagini sparse, mentre pulisce un’ala dell’aereo, o mentre ride ai comandi del suo Cessna. Durante il volo avevo fatto anche uno schizzo che ancora conservo.
Mi piace ricordare così Luis da Silva, mentre vicino a lui ascolto i racconti della sua vita, lasciandomi trasportare(quasi) senza paura da un’isola all’altra.
*ANNAMARIA PASSARO (nata a Milano nel 1955 da famiglia napoletana. Laureata in Filosofia, illustratrice. "Onirico ironica" è la definizione che amo e che mi diede l' amatissimo agente Marcelo Ravoni (Quipos) )
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