Monte Bianco, quei luoghi in cui si torna

di ORESTE PIVETTA*

Chi mi sta vicino sa che mi piace la montagna, che mi piace guardarla, che mi piace sognarla, viverla come può uno di città.

Quando a Genova venne assassinato Guido Rossa, un caro collega, Massimo Cavallini, andò per raccontare quanto era successo e quanto stava accadendo. Non so come, ritrovò una lettera che Ottavio Bastrenta, notaio in Val d’Aosta, aveva scritto proprio a Guido Rossa. Entrambi erano alpinisti di grande valore. Bastrenta scriveva, più o meno: la mia attività d’inverno consiste nello studiare le salite per l’estate, salite che resteranno per lo più nel cassetto, tra fotografie e schizzi.

E’ andata così: ho trascorso ore ed ore a studiare guide, mappe, foto. Continuo, per  illudermi ancora. Finisce che certi luoghi li vedo, come fossi ai piedi di un monte, lungo un sentiero o costeggiando una parete. Ho mandato a memoria relazioni tecniche a proposito delle quali mi ha sempre colpito il linguaggio, una lingua sintetica, di forte evidenza: prendere il diedro a destra e salire per dieci metri fino a un intaglio, aggirare lo spigolo a sinistra e proseguire traversando su una placca d’aderenza per quindici metri fino a un tetto che si supera facilmente a destra per una fessura, fino al ghiacciaio pensile... eccetera eccetera. E’ già una immagine. Due corde da cinquanta metri, una decina di chiodi, la serie dei friends...  Con un po’ di pratica si capisce tutto, sapendo per giunta in anticipo se si tratta di granito (Monte Bianco) o calcare (Dolomiti), granito compatto, liscio ma rugoso, dalle linee perfette, calcare in genere rotto, appigliato in modo diverso centimetro per centimetro, delicato.

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(foto di Oreste Pivetta)

Il primo libro di montagna che riuscii ad acquistare fu quello scritto da un alpinista francese, Gaston Rebuffat, “Massiccio del Monte Bianco. Le cento più belle ascensioni”, un lavoro originale, una novità, grande formato, molte foto a colori, schizzi, dettagli semplici. Fino ad allora, anni settanta, ci si doveva accontentare delle guide del Cai, volumetti elegantissimi, dalla carta sottile e dalla copertina di tela grigia. I più in gamba (e magari con qualche soldo in tasca) si potevano comprare le guide Vallot: il Bianco era tutto lì dentro. Rebuffat e la guida del Cai erano lettura quotidiana. Quando “le cento più belle ascensioni” mi ricapitano in mano vado alle ultime righe di Rebuffat: “Per mezzo di queste montagne, compagni di tante avventure vi ho ritrovato”. I vivi e i morti, i caduti e i superstiti. La fatica, il sudore, la sete, la paura. La parete verticale, il nevaio, i seracchi che incombono, il tramonto che colora di rosso la calotta sommitale, in fondo i boschi e i prati verdi, i pascoli alti e il filo d’argento dell’Arve. E la nostalgia, il rimpianto, la commozione. Le guide del Cai, poco utili all’individuazione di una via (fino, per la verità, alle riedizioni più recenti), erano letteratura, saggi e romanzi spesso con la retorica che non ha mai risparmiato molti alpinisti scrittori e che mancava al marsigliese di Chamonix.

Leggendo e rileggendo mi si disegnava in mente tutto. Mi vanto della volta in cui chiacchierando con Walter Bonatti gli descrissi certe cenge su non so quale versante del Picco Gugliermina che lui, proprio lui, non conosceva.

Continuai a leggere: un altro francese, Lionel Terray (mi sembra che il suo “Conquistatori dell’inutile” sia tra i più bei libri di montagna), partigiano con i maquis, Massimo Mila, il grande musicologo, Dante Livio Bianco, un altro strenuo combattente antifascista, e poi tanti ancora, d’ogni epoca, persino Thoreau, “Walking”, “Camminare” (gli ultimi Marc Batard il velocista e Renato Casarotto, uno straordinario alpinista, un amico morto scendendo dal K2).

Dopo tante letture ce la feci: il Monte Bianco, finalmente, il tetto d’Europa. Il primo incontro, all’imbocco del tunnel a Courmayeur: le Jorasses a destra, a sinistra la cresta del Peuterey, la Noire, le Dames Anglaises, la Blanche con il suo seracco a metà e la lingua di neve che risale fino alla cima. Non riesco a dimenticare la mia scoperta.

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(foto da pixabay)

Oltre il traforo, alzando lo sguardo, sembrava che da un momento all’altro il ghiacciaio dei Bossons dovesse precipitare a valle. Andò tutto bene: Chamonix e quindi St. Gervais verso la via normale francese, la più facile, con il trenino che arranca sino al Nid d’Aigle e al Nid d’Aigle si smonta, ci si carica lo zaino in spalla e comincia la camminata tra i sassi del Desert de Pierre Ronde, che è un vero deserto di pietre rossastre, e ad ogni svolta, quando il serpentone degli alpinisti e dei turisti si è dissolto, può comparire, al di qua di un roccione, un camoscio che ti osserva curioso e interrogativo, il muso storto, e ti fa sentire un intruso, così che ti vien voglia di rispolverare quella vecchia domanda che fu di un viaggiatore e di un grande scrittore, Bruce Chatwin. La domanda era sempre: “Che ci faccio qui?”. Credo che la domanda sia di tutti, anche dei più grandi: sotto il sole o sotto la pioggia, bruciati o nel gelo del vento, sotto il peso delle corde, alle prime ombre, costretti a rimpiangere la birra al caffè sotto casa, obbligati tutti a interrogarsi sull’utilità o sull’inutilità di tanti sforzi e di tanti rischi.

Il camoscio salta, scompare, quando sembra di poterlo avvicinare. Noi si cammina in pena tra quei sassi e nell’ansia per ciò che potrebbe capitare di li a pochi minuti, quando toccherà di attraversare il canalone che scende dall’Aiguille du Gouter e che scarica pietre e terriccio ad un ritmo fisso, devi calcolare i tempi e contare fino a dieci o fino a venti prima di prendere il sottile solco nella neve, augurandoti che la misura del dieci o del venti venga rispettata. Dall’altra parte, oltre il couloir, una traccia in bella pendenza tra un masso sovrapposto ad un altro masso, qualche corda fissa, qualche bollo rosso ti conducono al rifugio, il rifugio del Gouter a tremilaottocento metri. Alcuni anni fa ne hanno costruito uno nuovo, avveniristico. Adesso bisogna prenotare con qualche mese di anticipo. Oggi non so, allora ti stendevi su un materasso umido sopra un tavolaccio, stretto a uno sconosciuto. A mezzanotte, comunque, si apre la porta, si respira l’aria gelida, si comincia ad arrancare, disegnando alla luce delle pile frontali una lunga striscia che sembra perdersi nel cielo blu. E’ un pendio talvolta ripido, fino al Dome du Gouter, un panettone dolcissimo a quattromila e trecento metri, talvolta spietato se cala la nebbia: solo il bianco, compatto, senza una piega, senza un appiglio. Dispersi. Si può morire in quel mondo calmo e invisibile, se l’esperienza e l’intuito non ti guidano alla strada giusta. “Montagna massiccia dalla cupola ampia e tondeggiante, interamente ammantata di ghiaccio”, la descrive la guida del Cai.

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(foto da pixabay)

A quel punto si va verso il rifugio Vallot, semplicemente “la Vallot”, un ricovero costruito su alcune roccette, a fine secolo in legno e poi rifatto in alluminio, per l’emergenza: l’ho sempre visto stracolmo di neve, popolato da individui stralunati usciti in vetta troppo tardi per ridiscendere a valle. Una decina di metri più in basso sorge l’Osservatorio Vallot, reperto di due secoli fa, anno di fondazione 1898. Al Museo della Montagna di Chamonix si possono ammirare i primi arredi: tappeti, mobiletti, un tavolo e una sedia, tanto legno. Cerco di immaginare qualche notte lassù tra le stelle o controllando il “pesce”, la nuvola candida che preannuncia tempesta.

Dopo la Vallot, resta la crestina sottile delle Bosses, le Bosses du dromadaire, le due gobbe di neve attribuite, chissà perché, impropriamente, a un dromedario. Ci siamo quasi. La cima, 4808, è ampia. Ci si può fotografare. Non dimenticherò mai una malboro fumata lassù, seduto sulla neve, osservando le nebbie della pianura italiana, a sinistra le Courtes, le Droites, i Drus, la Verte. a destra la sinuosa cresta dell’Aiguille de Bionassay, alle spalle, sopra il verde dei prati, le Aiguilles Rouges de Chamonix.

Sono tornato altre volte. Si torna sempre. Come scriveva Rebuffat: “L’alpinista è un uomo che conduce il proprio corpo là, dove un giorno i suoi occhi hanno guardato. E che ritorna”. La stanchezza si dimentica alla svelta.  Sono tornato ancora per la “normale” francese o per il versante italiano della Brenva. Ma mi piaceva (e mi piace) soprattutto un percorso che i francesi chiamano Les Trois Monts, i tre monti, Mont Blanc deTacul (m.4248), Mont Maudit (m.4468) e infine, superato il Colle della Brenva, il Bianco. Mi piaceva e lo “sogno” ancora perché i paesaggi sono straordinari e vari, perché è poco frequentato oltre il Tacul (meta classica delle guide di Chamonix), e lo si può completare in giornata (ho sempre sofferto le notti in rifugio), perché si può sentire la solitudine dell’alta quota.

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(foto di Oreste Pivetta)

 Una volta mi ci trovai davvero quasi da solo, ai primi di settembre, dopo due o tre giorni di neve. L’inizio era al buio, dalla casa di Argentiere, verso il piazzale della funivia per l’Aiguille du Midi. Il piazzale delle attese, nel freddo dell’alba, in coda per il biglietto, aggiustando lo zaino, perché gli zaini non sono mai a posto. Da solo, non avevo che le mie piccozze, i ramponi, il goretex, qualche barretta di mars, cioccolato e un impasto dolce che non saprei definire, una borraccia di te. Ci si affeziona a tutto: sai che quegli oggetti sono il salvagente. Dopo il cambio al Plan des Aiguilles, la funivia compie un balzo verso l’Aiguille du Midi, quasi costeggiando lo sperone Frendo. Dopo la funivia, alla stazione, un lungo corridoio sbuca in una specie di tunnel di cemento roccia e ghiaccio, gelido, gocciolante, buio. Tocca calzare i ramponi, tra altri sventurati, in equilibrio su un piede, perché non c’è posto per sedersi, ovviamente. Pronti, finalmente ci si affaccia sulla Vallée Blanche e, più lontano, sul ghiacciaio del Gigante, verso l’Italia.

L’ultima volta a chiudere il tunnel c’era pure un cancelletto, che si doveva scavalcare con qualche fatica visto l’abbigliamento. Prima no, si metteva subito piede dall’ombra al bagliore di una crestina sottile e ghiacciata, in discesa, il mio momento di paura, perché a sinistra si volava dritti a valle, nel nero ancora cupo della notte, prima della corsa verso il ghiacciaio, costeggiando lo scudo compatto della parete sud dell’Aiguille du Midi (qui proprio Rebuffat disegnò una bellissima via) e la cresta dei Cosmiques. Alle prime pendenze del Mont Blanc de Tacul si forma la coda, che si incanta alla prima difficoltà: la crepaccia terminale, il cui bordo superiore lievemente sporge e che si supera cercando il ponte. Bisogna correre sotto i seracchi (anni fa uno di quei giganteschi cumuli di ghiaccio crollò e provocò una strage). Alla spalla si traversa, si ridiscende compiendo un semicerchio, si rimonta la parete nord del Maudit, superando quasi in cima un canalino di vetro (“ripidissimo scivolo”, lo definisce la guida Cai). Alla breccia di nuovo si ridiscende, si traversa, al Col della Brenva, lasciando a destra il Mur de la Cote. Il Bianco è cinquecento metri sopra, tondeggiante, persino benevolo. Vicino, ma comincia a mancare il respiro. Quel giorno eravamo tre o quattro, nel silenzio, nel gelo dopo la settimana di maltempo. La cima è un attimo, per guardarsi attorno, un orizzonte di 360 gradi senza nulla che chiuda la vista. Comincio a scendere nella conca del Grand Plateau. Viene il difficile, perché la neve ha coperto i crepacci e quel circo è tutto un crepaccio. Sempre più solo: alle volte guardo all’indietro per vedere se qualcuno mi sta seguendo. Nessuno.

Scendo scendo verso il ghiacciaio dei Bossons e verso il rifugio dei Grands Mulets, chiuso, forse perché non ci passa più nessuno. Siamo invece nella storia: qui passarono i primi esploratori e i primi salitori del Bianco, negli anni che precedettero la rivoluzione francese: Horace-Benedict de Saussure, lo scienziato ginevrino (di bronzo è ancora lì in piazza a Chamonix, lo sguardo a scrutare la vetta), Michel Gabriel Paccard, il figlio del notaio, Jacques Balmat, il cacciatore, Marie Paradis, la prima donna, Henriette d’Angeville, la seconda... Ci sono anche loro tra guide e alpinisti di ogni epoca, nel grande affresco che decora il lato di una casa di Chamonix per cinque piani.

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(foto da pixabay)

Scendo scendo, scegliendo un pendio ripido, almeno non sprofonderò in un buco, ma sotto i ramponi la neve fradicia forma uno zoccolo pesante e alle volte mi pare di correre sui pattini. A un certo punto scorgo in fondo quattro che arrancano in salita. Li incontro. Facce stravolte. Bene, seguirò la loro traccia in discesa. E’ un aiuto. Ma è tardi, non avrò la funivia a Plan des Aiguilles. Scelgo un antico sentiero più diretto. Nell’oscurità del bosco, con la solita pila frontale e le batterie che si scaricano. Giù, sempre giù. Sbuco all’uscita del traforo. Costeggio il muraglione e mi accorgo di automobilisti che mi guardano: una apparizione la mia, dalle tenebre della foresta. Mi toccano ancora i lunghi tornanti verso Chamonix, tra auto e tir. Pazienza, è andata. Discesa record: quasi quattromila metri di dislivello.

Mi accorgo di aver scritto quello che in genere non sopporto di leggere a proposito di montagna: racconti di traversate, di acrobazie, di pericoli, di chiodi, di crepacci, di corde doppie nel vuoto... L’estetica del coraggio e del pericolo. Eccetera eccetera. Secondo il repertorio.

Abbiate pazienza, però: son cose che non si dimenticano. Per un po’ si resta in alto. Perché? Sempre qualcuno mi chiede perché. L’alpinismo è un lusso, il libero contrappeso del nostro mondo regolamentato, garantito, del nostro mondo rumoroso, invadente, appariscente, invaso dal superfluo, del nostro mondo utilitarista, l’emozionante contrappeso del nostro mondo noioso. L’alpinismo è sentire soltanto noi stessi con poche cose indispensabili attorno, in un universo miracoloso che ad ogni passo muta e stupisce, secondo nuove distanze, nuove geometrie, nuovi colori, nuove prove e tentazioni. La montagna talvolta respinge, brutalmente, dolorosamente. Spesso accoglie, abbraccia, ma pretende intelligenza, pazienza, immaginazione, fatica onesta.  Per questo, per la doppiezza del suo volto, doppiezza che è la vita nei suoi estremi, a molti mai apparirà estranea.      


*ORESTE PIVETTA (Milanese, laureato in architettura, giornalista professionista, ha lavorato all'Unità come caporedattore, inviato, editorialista. Ha collaborato con numerose riviste, con Radiotre e con Radio Popolare. Ha scritto alcuni libri, tra i quali "Io, venditore di elefanti" (Garzanti, con Pap Khouma), "Candido Nord" (Feltrinelli), "Franco Basaglia. Il dottore dei matti" (Baldini Castoldi). Ama gli sport che pretendono tanta fatica: l'alpinismo, la corsa in montagna, il ciclismo (naturalmente in salita)


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